I Comboniani e l'interculturalità
2019/3, p. 5
Il tema è stato scelto per l’attuazione del XVIII Capitolo
generale e Programmazione delle attività per quest’anno
2019. È un tema molto importante, per questo deve essere
oggetto di formazione permanente.
Accedi alla tua area riservata per visualizzare i contenuti.
Questo contenuto è riservato agli abbonati a
Testimoni
.
Tema di formazione per il 2019
I comboniani
e l’INTERCULTURALITÀ
Il tema è stato scelto per l’attuazione del XVIII Capitolo generale e Programmazione delle attività per quest’anno 2019. È un tema molto importante, per questo deve essere oggetto di formazione permanente.
Il Consiglio Generale nella “Guida per l’attuazione del XVIII Capitolo Generale e Programmazione delle attività” ha scelto il tema dell’interculturalità per quest’anno 2019. È un tema molto importante per noi, ma la sua importanza è sottolineata anche a livello ecclesiale, perché tanti altri Istituti e Organismi ecclesiali ne vedono l’urgenza. E a livello di tutta la società: davanti alle sfide degli spostamenti per lavori, per turismo, per le migrazioni, molti documenti sono elaborati da organismi e istituzioni.
Un tema di formazione
permanente
Per noi questo è un tema di formazione permanente. Non ci limitiamo alla riflessione teorica, approfondendo il significato delle parole: internazionalità, o multiculturalità, interculturalità, ecc.
Tema di formazione permanente significa che aiuta a leggere la nostra esperienza, la scoperta e riscoperta di questo dono che fa parte del nostro carisma e delle sue potenzialità; delle sfide che noi viviamo: le gioie e le tensioni, le difficoltà e le ricchezze che sperimentiamo facendo fruttificare questo dono. Non ci accontentiamo della superficialità, né di subire né accettare passivamente la realtà dell’interculturalità quasi fosse qualcosa che ci è capitato per caso.
La riflessione, la preghiera e la condivisione a vari livelli su questo tema dovrà condurci a degli impegni concreti, che possono comprendere un cambiamento nello stile delle relazioni tra noi, scelte diverse anche negli aspetti più pratici della nostra vita comunitaria e modi nuovi nel nostro servizio missionario. Per questo desideriamo formarci a delle competenze, a metterci in gioco secondo un progetto perché questo dono sia una forza vitale di crescita.
Parte integrante
della vocazione
L’esperienza, il gusto del dono dell’interculturalità è parte integrante della nostra vocazione di missionari comboniani. Fin dall’inizio l’ispirazione dello Spirito ha portato san Daniele Comboni a vivere la missione della rigenerazione dell’Africa con l’Africa come “cattolica”: “L’Opera dev’essere cattolica, non già spagnola o francese o tedesca o italiana” (Scritti 944). Certamente per lui questa cattolicità voleva dire essere al di sopra delle potenze politiche e coloniali; e per questo ha voluto che la Chiesa tutta si impegnasse in questo servizio per i più poveri e abbandonati: nel Postulatum chiede che diocesi e istituti mettano a disposizione della missione i migliori elementi: sacerdoti, religiose e religiosi, laici e laiche. Se Comboni non poteva pensare in termini di ‘interculturalità’, noi comprendiamo che questa cattolicità che è nel sogno di Comboni vuol dire molto di più che quanto si poteva cogliere in quel momento storico. Proprio perché non è una scelta tattica, di opportunità o di necessità efficientista, ma dono dello Spirito che porta in sé potenzialità che scopriamo e riscopriamo lungo il cammino della storia.
Nella nostra storia ci sono stati i momenti in cui le differenze di visioni della missione, della vita consacrata in relazione al servizio missionario, le lingue e le abitudini hanno portato a delle tensioni che sono sfociate anche nella separazione. In tutto questo sono entrati fattori politici, ma anche l’incapacità a dialogare, a capire e capirsi, a accettare le differenze e a convivere con esse in una convivialità che non è rassegnazione ma arricchimento. Il fallimento è venuto quando si è voluto imporre il modello unico, nel quale tutto è già compreso, capito, … e gli altri devono solo adattarsi.
Nella nostra storia ci sono anche tanti momenti di incontro e apertura, di arricchimento reciproco attraverso la comunione delle nostre differenze. C’è il grande “segno” della riunificazione tra gli istituti comboniani, e altri “segni” più piccoli ma certamente fecondi come un seme. Del grande segno che è la riunificazione dei due istituti comboniani maschili quest’anno 2019 ricorre il quarantesimo anniversario. Insieme con il Signore hanno collaborato alla realizzazione di un sogno che ora è un segno per tanti confratelli, in particolare in Spagna, Sudafrica e Perù.
Vivendo noi con altri, nella Chiesa e nella società, il soffio nuovo venuto dal Concilio, riscoprendo le ricchezze del nostro carisma, una visione nuova della missione che contempla il protagonismo delle Chiese locali, che fa cadere la divisione tra Chiesa Madre e Chiese figlie vivendo invece progressivamente la realtà di chiese sorelle che tutte sono corresponsabili di tutta la missione della Chiesa, ci siamo aperti alle vocazioni provenienti dai tanti Paesi e Chiese dove siamo presenti. Anche in questo passaggio alcuni tra noi hanno avuto paura, altri hanno subito, altri sono stati entusiasti, senza necessariamente cogliere tutte le sfide che questa scelta comportava né come poterle affrontare; altri, coscienti che questa scelta non era risposta a delle necessità, come il calo delle vocazioni, in Europa in particolare, ma obbedienza allo Spirito che è presente e agisce attraverso il nostro carisma comboniano, si sono messi in cammino per cogliere le potenzialità contenute in questo dono del nostro carisma e vivere la conversione che questo comporta.
Mettere in gioco
tutto di se stessi
In effetti, molti giovani sono diventati Comboniani proprio perché colpiti e attirati dal carisma comboniano. Questa scelta vuol dire che l’Istituto è un corpo dove convivono nuove generazioni, nuove culture, nuovi stili di formazione, nuove visioni della realtà del mondo, delle situazioni di povertà, della missione, della Chiesa. Perché in questa convivenza non si creino corpi paralleli, una dinamica continua di “noi – voi”, dove non c’è chi accoglie e chi è accolto, chi c’era prima e chi viene dopo, ... è necessario che tutti sappiano mettere in gioco tutto di se stessi. L’interculturalità comporta l’inculturazione del carisma, della formazione. Diventa perciò anche un processo di interculturazione.
Vivere questo dono come forza che rinnova non può essere lasciato al caso, come se fosse un caso di “generazione spontanea”. Vivere la ricchezza e le sfide dell’interculturalità, come uno stile di vita, richiede delle competenze, fatte di motivazioni, di attitudini e di impegni, a livello personale e comunitario. Per questo nel nostro Istituto troviamo i frutti della riflessione e delle indicazioni su questa dimensione del nostro carisma, in tanti documenti in cui si sottolinea la bellezza di questo dono, le sfide che comporta viverlo, i frutti e le difficoltà che appaiono, delle indicazioni per viverlo con frutto.
Un dono che diventa
progetto
L’interculturalità è un dono che diventa un progetto. È prima di tutto progetto di Dio che ha creato l’uomo a sua immagine e somiglianza e perciò stesso come relazione. Gli Atti Capitolari del 2015, nel capitolo dedicato alle “Persone” sottolinea questa relazionalità che permette alla persona di umanizzarsi: “L’appello a uscire da se stessi e andare incontro agli altri ribadisce la visione cristiana di persona come essere in relazione, … Vogliamo vivere un rapporto di comunione con Dio e condividerlo con chi ci sta accanto. … Sentiamo il profondo bisogno di una spiritualità che ci guarisce e umanizza, capace di integrare la nostra e altrui umanità con i suoi limiti, fragilità e incoerenze.” (AC 2015 ns 27…30)
Nella relazione, l’uomo scopre i suoi doni e i suoi limiti, si scopre ricco e nello stesso tempo incompiuto. È solo nella relazione, condividendo nella reciprocità, che la persona cresce e diventa se stessa, verso la pienezza della sua ‘statura’.
Un cammino che fa
crescere la persona
Nel progetto salvifico di Dio, egli ha messo popoli diversi in relazione tra loro. Di Abramo si dice che la sua tenda era sempre aperta, perché tutti potessero entrare, trovare ospitalità e condividere i loro doni.
Quando Dio fa uscire i figli di Israele dalla schiavitù dell’Egitto, si uniscono in questo cammino tante altre persone: “una grande massa di gente promiscua” (Es 12, 38). Con tutti loro Dio agisce: con la stessa misericordia e potenza, facendo passare a tutti il mare, donando loro luce e ombra, acqua e cibo, protezione nel cammino del deserto. Con tutti, senza distinzione, Dio fa alleanza donando loro le “dieci Parole”, per fare di tutti loro un popolo: “voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa” (Es 19, 6). Tutta la legislazione cerca di aiutare a costruire la fraternità nella libertà e la dignità, vincendo le rivalità, le gelosie, le cupidigie di ricchezza e di potere. Ma l’opera rimane “un’incompiuta”. Ad esempio, al momento dell’ingresso nella Terra Promessa, la divisione del territorio viene fatta “tribù per tribù”. E questa incapacità a convivere con il diverso porterà più tardi a divisioni e guerre. Anche negli Atti degli Apostoli troviamo questa difficoltà a costruire delle relazioni che non si fondono su una supremazia di un gruppo sugli altri, ma sulla “fede che agisce attraverso la carità”. Lo vediamo nell’episodio delle vedove dei proseliti rispetto a quelle degli Ebrei (At 6, 1ss); nell’irritazione delle prime comunità verso Pietro che si è recato da un pagano e ha soggiornato a casa sua mangiando con lui (Atti 10-11), nei sospetti quando viene fondata la prima comunità a Antiochia con persone provenienti dalla cultura greca (At 13), nel voler imporre a tutti, come condizione della salvezza, la legge e le tradizioni di un solo gruppo.
La comunione non nasce da una ricerca di compromessi ma dal trovare la sorgente e il fondamento della fraternità: la fede e l’amore reciproco (At 15). È la nostra incorporazione in Cristo che ci fa essere tutti in comunione gli uni con gli altri, unendo e non abolendo le nostre diversità, senza lasciarci divorare da queste (Gal 3, 27-28; Col 3, 11). Costruire l’alleanza tra persone tanto diverse è un cammino che comporta fiducia nel dono ricevuto e pazienza, fatica e impegno, anche sofferenza, che sa accettare anche gli sbagli e le cadute, trasformandoli in punti di partenza e di forza per continuare il cammino. Così l’interculturalità è dono per la comunità.
Frutto dello Spirito
nella Pentecoste
Il progetto di Dio è farci camminare verso la nuova creazione, cieli e terra nuovi dove abita la giustizia che giustificando ogni uomo per grazia fa diventare tutti fratelli, abolendo le frontiere, i muri, l’odio, … In Cristo non ci sono più stranieri o ospiti, ma tutti coeredi e compartecipi della stessa grazia: il dono del suo Spirito, con il quale Dio crea l’umanità nuova, una umanità immensa che nessuno poteva contare composta di persone di “ogni nazione, tribù popolo e lingua”, che riconoscono che la salvezza appartiene a Dio (non a una istituzione) e all’Agnello (Ap. 7,9-10). È il frutto maturo del dono dello Spirito donato alla Pentecoste. A Babele, il primo male non è la diversità ma l’unanimità che fa nascere un senso di onnipotenza e che genera oppressione. Alla Pentecoste, quando tutti ascoltano, ciascuno nella propria lingua, le meraviglie di Dio, le diversità diventano le tessere di un mosaico che soltanto se messe insieme rivelano il volto e il cuore di Dio, il suo essere Padre dell’umanità.
Di questo la Chiesa, e in essa il nostro Istituto, diventa testimone e serva. Essa non è uniformità ma comunione delle diversità, sull’unico fondamento che è Gesù Cristo – e nessuno ne può mettere un altro (1 Cor 3, 11). E’ il segno dell’umanità nuova.
Papa Francesco, nell’Esortazione apostolica Evangelii Gaudium indica alcuni punti importanti, quando sottolinea che il tutto è superiore alla parte, la tensione tra globale e locale, e invita a non chiudersi: il tutto è più della parte, ed è anche più della loro semplice somma. … Una persona che conserva la sua personale peculiarità e non nasconde la sua identità, quando si integra cordialmente in una comunità, non si annulla ma riceve sempre nuovi stimoli per il proprio sviluppo. Non è né la sfera globale che annulla, né la parzialità isolata che rende sterili. … Il modello non è la sfera, che non è superiore alle parti, dove ogni punto è equidistante dal centro e non vi sono differenze tra un punto e l’altro. Il modello è il poliedro, che riflette la confluenza di tutte le parzialità che in esso mantengono la loro originalità. È l’unione dei popoli, che, nell’ordine universale, conservano la loro peculiarità; è la totalità delle persone in una società che cerca un bene comune che veramente incorpora tutti. (EG 235-237) Per questo l’interculturalità è dono per la missione.
Grazia e sfida
L’interculturalità è prima di tutto grazia, carisma che ha la forza di un seme per diventare albero che porta frutto. E diventa progetto di vita che richiede che diventiamo delle persone “competenti” per poterlo assumere e realizzare, per gioire di questo dono perché coloro che lo vivono, crescono verso la loro pienezza, personalmente, come comunità e come missionari del Regno, “capaci” di assumere le fatiche, le rinunce, le tensioni e le sfide di questo dono.
Che san Daniele Comboni interceda per noi: ci renda “santi e capaci” di far fruttificare il dono dell’interculturalità.
Il Consiglio Generale
Il Segretariato Generale della formazione