Cozza Rino
POSSIAMO DIRE LA NOSTRA?
2019/2, p. 28
Il dono che i religiosi/e possono e devono fare alla Chiesa sta nell’essere sovrabbondanza di trasparenza evangelica più che personaggi del tempio, della legge, del diritto, delle istituzioni.

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Possiamo dire la nostra?
Il dono che i religiosi/e possono e devono fare alla Chiesa sta nell’essere sovrabbondanza di trasparenza evangelica più che personaggi del tempio, della legge, del diritto, delle istituzioni.
«Si sta ora prendendo consapevolezza che l’anemia della quale si è affetti è soprattutto frutto della crisi di identità evangelica, con la conseguenza che «il vivere con grandi ideali in istituzioni morte ci rompe dentro».In un tempo in cui la vita evangelica è caratterizzata da una grande biodiversità, con forme che hanno configurazioni di appartenenza al Vangelo sempre più ampie e coinvolgenti, urge dunque “una figura storica di vita religiosa più significativa per l’uomo d’oggi”». (P.I religioso da 7 anni)
A partire dalla metà del ‘900, ad avvertire, prima di tutti gli altri, che il futuro delle forme comunitarie di vita evangelica sarebbe venuto dal muoversi in armonia con le aspirazioni profonde della gente e non dal repertorio di conoscenze teorico-dottrinali di un’altra epoca, sono state le nuove aggregazioni discepolari, facilitate dal fatto di non avere un passato, la novità che potevano esprimere unicamente con il “ritorno all’origine”. Un ritorno a quella Chiesa in cui la vita comunitaria suscitava curiosità ed era attraente, perché ricca di fraternità, mutuo servizio, solidarietà, freschezza di kerigma, così da diventare luogo di salvezza. La strada intrapresa da queste forme divenne attrattiva proprio per la capacità di dare risposte all’attuale domanda di senso in contesto di quella contemporaneità che porta con sé frutti umani di alto valore, che chiedono di essere assunti perché rispondenti, in tanta parte, all’insegnamento del Vangelo.
Qualche anno fa (2013) è stata anche l’esortazione apostolica Evangelii gaudium a portare all’attenzione il fatto che oggi nella Chiesa «ci sono istituzioni ecclesiali, comunità di base, movimenti e altre forme di associazione, ricchezza della Chiesa che lo Spirito Santo suscita per evangelizzare tutti gli ambienti e settori» (EN n.12). Espressioni che in qualche aspetto sono eco di quanto ha detto il card. Martini: «Siamo nel tempo in cui nessuno è più in prima fila», intendendo con questo che a priori nessuna configurazione, nuova o antica, ha il monopolio di un cammino discepolare di intonazione evangelica.
L’attenzione dell’esortazione apostolica è data dal fatto che le Esperienze discepolari sono impegnate sia nel metodo di comunicazione del messaggio evangelico, ma di più nel ripensare il messaggio stesso nell’ambito socio-culturale in cui questo si cala, ospitando una visione dinamica e non più statica della verità.
Questi nuovi soggetti ecclesiali sono «appellanti non attraverso documenti, dichiarazioni, teorie, ma per la trasparenza di quella vita fraterna dove lo stare assieme ha il significato di unione interiore piuttosto che il senso locale temporale», lasciando così intravedere che la koinonia non è legata unicamente a strutture istituzionali e che non è aumentando la quantità dell’essere insieme “locale” che si approfondisce il radicalismo evangelico.
Non si nega, anzi è bene che tra le differenti modalità di essere discepoli ci sia una forma che intende vivere la comunione in senso locale e stabile alla maniera dei religiosi, ma altra cosa è identificare la koinonia unicamente con vita sotto lo stesso tetto quasi a dire che se c’è la seconda necessariamente esiste anche la prima; oppure che in ogni caso questa è per tutti la forma che oggi meglio visibilizza lo stare con il Maestro.
Evidentemente non può esistere un insieme di persone fatto solo di spontaneità e di calorose relazioni; necessitano anche dei vincoli, delle funzioni, delle strutturazioni: «queste sono come l’ossatura e la carne di quel corpo che è la fraternità. Se questo non è rispettato, essa morirà». Ma si deve dire altresì che se si vuole che questo tipo di vita sia realizzabile, non può essere leader una sola persona con il ruolo di far camminare tutti come soldatini: leader dev’essere innanzitutto la vita d’insieme dove ciascuno, uguale agli altri nella dignità, come nei diritti e nei doveri, sollecita nell’altro le sorgenti della comunione, a cui si arriva abilitandosi alle relazioni che nascono dall’incrociare sguardi, preoccupazioni, desideri, riflessioni.
È tempo di fare il passaggio dalla religiosità all’evangelismo
«Siamo entrati, irreversibilmente, in un periodo in cui le immagini tradizionali della vita consacrata non tengono più. La vita dei religiosi, se prima si trovava bene a celebrare la propria storia, attualmente deve trovare forme che celebrino trasparentemente e coraggiosamente la “vita evangelica” in grado di liberare nuove energie, capaci di annunciare Dio in modo nuovo, e farlo apparire nella sua bellezza accogliente e ospitale dell’umano». È utopia? (N.V. religioso da 5 anni).
A dirlo è l’esortazione apostolica Evangelii gaudium che mette in guardia dal «confondere la vita spirituale con alcuni momenti religiosi che offrono un certo sollievo ma che non alimentano l’incontro con gli altri, l’impegno nel mondo, la passione per l’evangelizzazione».
Il cristianesimo non è una religione chiusa in pratiche di culto.Gesù al suo tempo si era trovato con persone molto religiose, le quali però intendevano la religione secondo cui l’elemento centrale non era innanzitutto Dio, bensì altre cose che avevano più o meno relazione con la religione: per esempio le norme religiose, le pratiche devozionali, le tradizioni, i rituali e le loro cerimonie, l’autorità, la sottomissione della gente o l’apparire persone esemplari. Questi erano gli scribi e i farisei, gente molto religiosa ma non altrettanto evangelica.
Per capire la differenza tra “religiosità” ed “evangelismo” occorre ricordare che Cristo per darci una vita dalla misura abbondante non ha esitato a liberarci da tabù cultuali, sacrali, tradizioni indiscutibili, accumulo di leggi e riti, per parlarci narrando storie di salvezza piuttosto che teorie universali.
Cristianesimo è partecipare all’essere di Gesù, per cui la fede, per dare vita, ha da misurarsi su quell'apertura esistenziale al Dio vivente che fa entrare nella prassi e nello stile dell’amore, che fugge l'ideologia, che non si lascia ingabbiare nel legalismo.
In questo nostro tempo, molto più di ieri, è insufficiente la religiosità propria di alcune forme di vita chiuse nello spazio inviolabile del sacro, irretite in consuetudini svuotate della loro sostanza perché incapaci di ascoltare il respiro inedito del Vangelo.
Attualmente – dice ancora il Papa – sono dette evangelicamente spirituali quelle forme di vita che rispondono alla sete di acqua viva, acqua zampillante e fresca capace di dissetare in profondità il desiderio profondo di luce, di amore, di bellezza e di pace. Quelle forme che, a partire dal Vangelo e dall’ascolto dei segni dei tempi, sanno inventare nuovi spazi di ospitalità dei nuovi temi della vita: della felicità, della libertà, della corporeità, della singolarità, della sensibilità.
Non persuadono i «gruppi di eletti che guardano troppo a se stessi»
«Oggi l’esemplarità dell’esserci, nasce e rinasce dai luoghi promiscui del vivere, dall’incontro di umanità intere, dall’essere nutriti dai tanti cibi del “villaggio globale”. È stata dunque la mancanza di relazioni a far perdere alla vita religiosa il suo ancoraggio alla cultura della gente, perché forte del tasso di sufficienza da renderla anacronistica» (H.G. religiosa da 7 anni).
Il fulcro attorno al quale ruota una sana esistenza umana non sta nell’essere orientati a se stessi, tendendo a costruire una società nella società, organizzata ai fini dell’“osservanza” di una vita vista oggi come troppo artificiale per essere evangelica, ma dall’essere fraternità in cui sia possibile restare figli/e del proprio tempo, della società e della cultura in cui si è immersi, per far emergere nella propria esistenza il modo evangelico di essere proprio di ogni vita cristiana.
Se la vita religiosa è stata fondata per la “comunione” allora la sua spiritualità non può essere quella che parte dal presupposto di essere qualcosa di privato o intimista in funzione di sé o dei propri interiori interessi spirituali. Un’identità isolata nei propri recinti fisici e mentali prima o poi non regge più; ne è prova il fatto che l’irrigidimento dogmatico su cui la vita religiosa si è costruita disomogenea rispetto alla società, l’ha oggi resa incapace di suscitare nelle nuove generazioni il desiderio di essa, portandosi così ad essere avvicendata nel compito di generare all’evangelismo dalle altre forme che nel frattempo sono sorte.
Si tratta di costruire comunità in diaspora la cui prima caratteristica, in quanto missionarie, sia di non essere orientate a se stesse». È quanto in vario modo va dicendo papa Francesco: la vita religiosa «non è vista come una condizione a parte, propria di una categoria di cristiani, ma come punto di riferimento per tutti i battezzati».
Per le prime comunità cristiane, l’ideale non è stato quello di costruire una fraternità diversa, separata, un mondo a parte, alla maniera di quella degli Esseni da cui Gesù prese le distanze; e non è nata come seconda vocazione ma semplicemente come una modalità di essere cristiani dentro la vita degli uomini per dare al Vangelo, nella sua essenzialità, la pienezza di credibilità attraverso parabole di vita vissuta. Non erano persone perfette, ideali, bensì persone che inciampavano, ma proprio per questo erano persone con cui era possibile identificarsi: è stato l’essere modelli abbordabili a conferire loro una maggior forza di attrazione.
Tutto questo per dire che i religiosi non sono chiamati a essere eroi solitari, chiusi in una particolare nicchia di Chiesa dove trovano mille motivi per tenersi alla larga dai problemi della gente così per non lasciarsi coinvolgere troppo, ma compagni di viaggio che nella condivisione della vita di tutti, siano buona notizia tra la gente. Questo è il dono che i religiosi/e possono e devono fare alla Chiesa: essere sovrabbondanza di trasparenza evangelica perché in questo sta l’essenza della loro vocazione piuttosto che nell’essere visti come personaggi del tempio, della legge, del diritto, delle istituzioni.
Rino Cozza csj