Dall'Osto Antonio a cura
Tra abbandoni e fedeltà
2019/12, p. 38
Un sussidio elaborato da un’apposita commissione dell’Ordine dei Frati Minori va alla radice del problema degli abbandoni e propone un cammino per guardare avanti con rinnovata fedeltà alla vocazione.

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Vivere la vocazione in un contesto di incertezza
TRA ABBANDONIE FEDELTÀ
Un sussidio elaborato da un’apposita commissione dell’Ordine dei Frati Minori va alla radice del problema degli abbandoni e propone un cammino compiuto insieme per guardare avanti con rinnovata fedeltà alla vocazione.
Secondo i dati che circolano negli ambienti della Congregazione per la vita consacrata, ogni anno sarebbero circa 3.000 le domande di dispensa dagli obblighi della vita religiosa che giungono al dicastero. È una cifra considerevole che riguarda da vicino quasi tutti gli Istituti. Un po’ dovunque si è cercato di studiare il fenomeno nelle sue cause e quali possono essere i rimedi.
L’Ordine del Frati Minori, facendo seguito a una volontà espressa dal Capitolo generale del 2009, riconfermata da quello del 2015, per studiare e analizzare questo fenomeno, attraverso un’apposita commissione, ha preparato un corposo sussidio dedicato al “Servizio di fedeltà e perseveranza”, con l’obiettivo di riflettere sul fenomeno dei frati che scelgono di abbandonare l’Ordine e soprattutto sulle motivazioni che accompagnano questa decisione.
«I cambiamenti culturali e il progresso tecnico degli ultimi decenni – si legge nell’Introduzione – hanno aperto nuovi orizzonti e nuove possibilità, ma hanno anche rinforzato una sensazione diffusa di incertezza per quanto riguarda il futuro delle nostre società. Mentre molti frati sono cresciuti in un mondo ancora essenzialmente prevedibile o almeno con dei rischi calcolabili, quelli che sono entrati negli ultimi due decenni si sono dovuti confrontare fin dall’inizio con una sovrabbondanza di proposte in una società con pochi punti di riferimento stabili. Vivere la loro vocazione in un contesto segnato dall’incertezza, li pone davanti a delle sfide nuove: in alcune parti del mondo, viviamo ormai immersi in una ‘cultura dell’indecisione’, che considera impossibile o addirittura insensata una scelta per la vita. In un mondo dove le opportunità e le proposte aumentano esponenzialmente diviene spontaneo reagire con scelte sempre reversibili, anche se questo comporta una continua mortificazione del desiderio».
In un contesto del genere c’è la tendenza a una “paralisi decisionale” che non riguarda solo i giovani, ma anche gli adulti che non sanno più trasmettere la bellezza di una fedeltà per tutta la vita.
Il sussidio, nella convinzione che tutti i frati dell’Ordine sono interpellati da questa realtà, propone delle piste di riflessione e anche dei percorsi formativi «che possono aiutarli a conoscere e interpretare questi dati e soprattutto incoraggiare la loro fedeltà e perseveranza».
Il testo prende in considerazione anzitutto gli abbandoni durante 15 anni tra il 2003 e il 2017. Nella prima sezione vengono analizzati i dati statistici disponibili corredati da opportune tabelle, riguardanti i frati in formazione iniziale, i professi solenni (frati laici, professi solenni laici con opzione clericale, diaconi permanenti e frati sacerdoti).
Per quanto riguarda il confronto tra i numeri annuali delle uscite dei frati in formazione iniziale e il loro numero totale si ha una percentuale di uscite dell’11,5 %, che comprende un “range” dal minimo dell’8,5 % (2014) al massimo del 14,5 % (2004). «La prima considerazione che verrebbe da fare – scrive il sussidio della commissione – riguarda l’apparente calo numerico delle uscite dei professi temporanei, dai primi anni» . Si tratta comunque di una categoria con caratteristiche sue specifiche. Infatti «è opportuno osservare che le uscite, in questo periodo della vita francescana, sono da considerarsi ancora un fattore “fisiologico”, perché si tratta comunque di un tempo dedicato anche al discernimento vocazionale».
Per quanto riguarda invece le varie categorie di frati professi, nelle “osservazioni conclusive” di questa prima sezione, si dice: «Considerando il numero totale dei frati professi solenni usciti dall’Ordine possiamo sintetizzare brevemente così: la fetta più numerosa e significativa (il 34,6%, cioè più di un terzo della cifra globale) sono frati sacerdoti che diventano preti secolari, poco più di un quarto (26,7%) sono sacerdoti che abbandonano senza continuare il ministero, poco meno di un quarto (22,2%) sono frati laici e una più piccola percentuale (circa un sesto, il 16,5%) sono i professi solenni laici con opzione clericale e i diaconi permanenti».
Riflessione interpretativa
Nella seconda sezione del sussidio viene sviluppata una riflessione interpretativa dei dati raccolti, enucleando alcuni temi più importanti. Viene elaborato cioè un approfondimento a partire dalla percezione dei frati che restano nell’Ordine a proposito di alcuni temi sensibili, quali la vita fraterna, la vita di fede, ecc. «In particolare – è detto – le informazioni sul vissuto e sui disagi di costoro ci possono forse aiutare a capire quelle che probabilmente sono le motivazioni che hanno influito anche su coloro che hanno scelto di abbandonare l’Ordine».
La commissione si riferisce qui a un’indagine sociologica effettuata nel 2011–2012 su un campione significativo di 1408 frati dell’Ordine e pubblicata nel 2013. I questionari erano stati inviati nominalmente a 1500 frati selezionati in modo da riprodurre proporzionalmente le fasce di età. Le risposte erano state appunto 1408 con una percentuale del 93%, giudicata dagli esperti molto alta.
La presente sezione è divisa in due parti: la prima riguarda le difficoltà personali in ordine alla perseveranza. Vengono segnalate: l’insufficiente cura della preghiera personale (41%), che costituisce il maggior rischio per la propria vita di fede; ad essa si accompagna la concreta difficoltà di un eccessivo carico di lavoro (34%), lo scarso sostegno di soddisfacenti relazioni fraterne interpersonali (30%) e di guida anche spirituale da parte dei superiori.« Appare chiaramente realistica – è sottolineato – anche la percezione di un diffuso stile di vita borghese (26%) che appiattisce e rischia di affievolire sempre più la stessa identità francescana (25%), debolmente sostenuta dalla poca comprensione dei superiori (13.5%). Per un 10.4% può concludersi anche con la non rara ipotesi di una crisi di fede».
Le difficoltà di carattere fraterno
In sintesi, emerge una indicazione molto evidente di quanto sia urgente all’interno della fraternità risolvere innanzitutto i notevoli problemi di relazioni interpersonali e di identità vocazionale, in particolare:
una attenzione e cura urgentissima di una comunicazione interpersonale dei frati tra di loro (orizzontale) e con i superiori (verticale), fluida, fraterna, rispettosa, ricca di stima, che sa gestire e superare gli eventuali nodi e conflitti, in un rapporto dinamico psicopedagogico, ma anche di carità profondamente animata dalla stessa vita di fede;
– il bisogno di una sempre più precisa chiarificazione e approfondimento dell’identità carismatica della vocazione francescana OFM, rispetto alla quale sembra (?) essere in corso una dinamica di revisione e innovazione (accentuato clericalismo nella propria formazione e missione: 25,4%);
– l’inclusione critica e riflessa della prospettiva culturale: specie in quanto essa dimostra scarsa stima nei confronti della vita religiosa (19.8%), uno su 5; il che ci fa ipotizzare che per paradosso oggi presso i giovani vi sia un’altra concezione della stessa vita consacrata e della stessa vocazione religiosa, diversa da quella che ha ispirato l’entrata nell’OFM delle precedenti generazioni… Dovrebbe essere compito esplicito dei formatori offrire una corretta visione della vita consacrata come appare dal Magistero ecclesiale e francescano in particolare:
Lo stile di governo e l’esercizio stesso dell’autorità, il carattere organizzativo e decisionale presenti all’interno della fraternità. Infatti per più di un quinto di frati a minare la propria risposta identitaria e vocazionale è la mancanza di organizzazione della fraternità (23.6%), quel disordine indifferenziato del “tutto è permesso”, ruoli indifferenziati, dove forse la stessa autorità non si assume le responsabilità della gestione esterna del tutto e delle sue specifiche articolazioni;
più delicata ancora è la mancata condivisione delle scelte della fraternità (21%) proprio anche in ragione degli effetti che esse producono sull’esercizio dello stesso voto di obbedienza e quell’isolamento dovuto all’estraneità dei rapporti fraterni. A partire da queste indicazioni e dai dati che abbiamo esaminato.
La commissione, a partire dalla indicazioni segnalate e dai dati ha ritenuto ora opportuno di evidenziare i sei seguenti aspetti:
Fraternità: attese e delusioni
Fede e crisi di fede
Importanza (preponderante) del ministero; connesso con il tema del lavoro
Frati laici e “clericalismo”
Discernimento nella formazione iniziale
Rapporto con l’autorità
Fraternità: attese e delusioni
A proposito delle cause di disagio, l’indagine sociologica del 2013 afferma che “il fattore cruciale per eccellenza denunciato […] dal 46% (=648) dei frati è costituito dalla mancanza di comunicazione interpersonale”. Tale dato ritorna peraltro in maniera “trasversale” nella suddetta indagine: sia che si parli di preghiera, di ministero, di vita fraterna o di castità, emerge questa constatazione di rapporti interpersonali carenti o difficili.
Anche il dato emerso dalle statistiche a proposito delle uscite dei frati sacerdoti (più di un terzo dei professi solenni che escono dall’Ordine lo fanno per diventare sacerdoti secolari, salendo alla percentuale di quasi il 57 % se si considerano solo i frati sacerdoti) conferma una delusione rispetto alla vita fraterna. Se è vero che ciò che fa la differenza tra la vita di un prete secolare e quella di un frate è fondamentalmente la vita fraterna in comunità, il fatto che più della metà dei frati sacerdoti non rinunzino al celibato e al ministero, ma scelgano di continuare “da soli”, può essere letto come una denuncia del peso o della inesistenza di una vita fraterna e interpella seriamente la fraternità universale. Tuttavia, a questo proposito sembra opportuno anche chiedersi: quali erano le loro aspettative nei confronti della comunità? Solo una persona che ha delle aspettative realistiche può dare un contributo realistico alla costruzione della fraternità. In questo senso, non sembra corretto attribuire tutte le responsabilità alla fraternità: anche il singolo deve educare le proprie aspettative.
Inoltre, bisogna aggiungere che in alcuni casi l’uscita dall’Ordine per diventare sacerdote secolare denuncia un difetto di discernimento nella formazione iniziale, quando forse era già emersa questa aspirazione e non è stata sufficientemente presa in considerazione. È probabile tuttavia che nella maggioranza dei casi il problema non sia questo, relativo alla formazione iniziale, ma sia piuttosto un difetto di formazione permanente, nel senso che la vita fraterna incontrata nelle fraternità “normali”, dopo le case di formazione, non ha corrisposto alle giuste attese nate nelle case di formazione. Se questo è vero, sarebbe una riprova del “gap” o divario esistente tra la formazione iniziale e quella permanente.
«Resta comunque vero che la vita fraterna è un punto qualificante della nostra identità e per questo è oggetto di grandi attese e, proporzionalmente, di grandi delusioni».
Fede e crisi di fede
Tra le indicazioni dell’analisi sociologica a proposito di cause di disagio personale, il secondo posto (41%) spetta alla denuncia di una insufficiente cura della preghiera personale, che viene interpretata come il maggior rischio per la propria vita di fede, e viene confermata con “la non rara ipotesi di una crisi di fede” … «Possiamo pensare – scrive il sussidio della commissione – che ci troviamo di fronte a uno dei punti chiave e forse al cuore del problema: una vita che si dichiara “consacrata” trova proprio nella fede in Dio il suo senso e il suo fondamento. La preghiera, intesa come espressione consapevole e dichiarata della relazione di fede con Dio, strumento indispensabile per la crescita della relazione stessa, diventa uno degli indici significativi della vita di fede».
«Probabilmente un equivoco della formazione permanente (e forse anche della formazione iniziale) è quello di dare per scontata la fede, quasi che la fede fosse un requisito che si può acquisire una volta per tutte. Come sappiamo, invece, la fede è una fiamma che va alimentata quotidianamente e che sempre, in ogni tappa della vita, corre il rischio di spegnersi…».
«La formazione intellettuale, p.e. l’insegnamento del catechismo o lo studio di teologia, sono senz’altro strumenti validi per dare una struttura più solida e ragionevole alla fede. Ma visto che la sfida formativa centrale è quella di una “compenetrazione” tra vita relazionale e vita cristiana (cf. Mc 12,28-34), un approfondimento della fede di tipo teologico-intellettuale da solo non può essere sufficiente. Anche l’atto di fede, che è anzitutto un atto personale, ha ugualmente una dimensione comunitaria, che potremmo denominare di “fede condivisa”. …Se la vita di preghiera dipendesse unicamente dal rapporto personale con Dio, senza alcun rapporto con la fraternità concreta in cui ci si trova, ciò non sarebbe giustificabile: un frate dovrebbe pregare allo stesso modo in qualunque situazione. La nostra vita di preghiera, invece, e anche la nostra vita di fede, non è indifferente al clima fraterno, che può contribuire a nutrirla oppure a spegnerla. Un modello di “fede condivisa” è la lectio divina in fraternità, in cui i frati sperimentano la bellezza di una condivisione della risonanza della Parola di Dio nella loro vita».
Ministero e lavoro
Un tema che richiede attenzione sembra essere anche quello del ministero sacerdotale e più generalmente il tema del lavoro, al quale il ministero può essere accomunato. Tra i dati degli abbandoni, il gruppo dei frati sacerdoti che lasciano l’Ordine ma continuano ad esercitare il ministero sacerdotale ci fa ritenere, proprio a partire da tale scelta, che l’identificazione con il ministero abbia prevalso su quella con la fraternità.
«Una domanda che siamo indotti a porre è quella della rilevanza del ministero nella vita di un frate e più in generale del rapporto tra ministero/lavoro e vita fraterna. En passant, notiamo anche che nella valutazione della rilevanza del ministero sacerdotale influisce pure una formazione più o meno clericale».
Nell’indagine sociologica del 2013, alla domanda su quali siano le “dimensioni della vita quotidiana che incidono più negativamente sullo slancio della propria vita spirituale”, le risposte offrono una rassegna dei temi che stiamo trattando. Confermando il dato già analizzato, al primo posto nelle risposte sta l’insufficiente cura della preghiera personale, della meditazione, del rapporto personale con Dio; al secondo posto segue, per più di un terzo dei frati, l’eccessivo carico di lavoro e la routine quotidiana (34 %); al terzo posto è la mancanza di sostegno dei confratelli e l’assenza di buone relazioni fraterne (30%). Quest’ultimo tema della vita fraterna è una considerazione “trasversale”, che ritorna a diversi livelli, con percentuali diverse, ma sempre significative.
A lamentarsi dell’eccessivo carico di lavoro (34,8%= 490) sono soprattutto i frati che si trovano nella fascia intermedia di età, tra i 45 e 65 anni. Costituiscono quasi la metà di questo gruppo (44,1%), seguiti dal 39% di quell’altra fascia dei giovani che vivono la stessa situazione. Una controprova di questo disagio è data da quella percentuale bassa (16,1%) di anziani, che essendo ormai piuttosto fuori dalla mischia del quotidiano, meno risentono di questa conflittualità.
Analogamente osservando gli anni di professione, troviamo una ulteriore conferma in quel 53,1% di confratelli con meno di 25 anni di professione rispetto al 45,5% di coloro che li superano. Prevalentemente questi confratelli svolgono la loro missione nelle attività di apostolato (51,8%) esterno a contatto con la gente. Se ne confermano le tendenze, perché a sottolineare questo disagio sono appena il 14,1% di coloro che non hanno cariche di responsabilità, mentre quelli che ve ne sono coinvolti direttamente in compiti di governo raggiungono il 32%. In genere sono frati, sacerdoti (70%) con titoli di studio alti o molto alti, (37,8%) e proprio per questo il loro servizio è richiesto nelle diverse attività. Non ne sono esenti i fratelli laici, perché anch’essi raggiungono il 24,9% di coloro che si associano a giudicare questo problema uno dei più difficili da gestire. Lo ritroviamo soprattutto nell’Europa occidentale (35,3%) e nell’America Centro Sud (23,7%).
«In conclusione, si tratta di un disagio diffuso che bisogna imparare ad affrontare, per diventare così capaci di gestire senza traumi queste lacerazioni spirituali e psicologiche. La coincidenza tra la fascia di età dei frati che lamentano un eccessivo carico di lavoro con quella del maggior numero di abbandoni fa pensare che questo sia un fattore significativo nelle motivazioni di uscita dall’Ordine».
Per alcuni frati si tratta di una vera e propria “dipendenza” dal lavoro (work addiction) che impedisce lo sviluppo di altre dimensioni ugualmente importanti nella nostra vita. Quando tale dipendenza è legata a quel particolare lavoro che è il ministero sacerdotale, una soluzione può essere l’abbandono dell’Ordine per dedicarsi esclusivamente al ministero (o alla propria “patologia”).
Si può anche notare che sono soprattutto i frati dell’Europa occidentale e dell’America latina che si lamentano di un eccessivo carico di lavoro. Possiamo chiederci se ciò può essere collegato con la fatica di ridimensionare le strutture e le opere, molto attuale proprio in queste aree.
Dall’analisi dei dati statistici è emerso anche che i frati professi solenni abbandonano l’Ordine con una frequenza proporzionalmente maggiore di quella dei frati sacerdoti. «Si può ipotizzare – scrive il sussidio della commissione – che indichi un disagio legato alla crisi di identità perché non sopportata dal ministero sacerdotale che sembra invece essere l’elemento fondamentale per molti».
Il testo insiste a questo punto sull’importanza del discernimento della formazione iniziale ispirandosi sempre all’indagine di cui si è parlato sopra. È un’area, se attentamente curata, destinata poi a porre nei nuovi candidati dei solidi fondamenti alla vocazione da cui dipende poi la risposta di fedeltà nel corso di tutta la vita, se accompagnata e sviluppata attraverso la formazione permanente.
Nella gerarchia delle priorità indicate, emerge con chiarezza ad un primo livello un pentagono di obiettivi riguardanti : la conoscenza di sé, la nuova coscienza di assumersi la responsabilità della propria crescita personale, l’amore e il servizio dei poveri, la consapevolezza di dover costruire la fraternità attraverso la condivisione fraterna e la necessità di diventare strumenti di pace.
E a un secondo livello: sviluppare una libertà matura e corresponsabile, rispettare la diversità nel pluralismo delle opinioni, saper dialogare con tutti, sviluppare il senso critico ragionevole.
Carenze di carattere più strutturale
S’innesta su questo punto il problema delle carenze di carattere più strutturale, così indicate: la scarsa formazione dei formatori e la scarsa formazione dei giovani confratelli alla vita pratica e alla loro missione concreta. Una buona metà degli intervistati denunciano la mancanza di contatto con i problemi reali della gente, l’isolamento delle case formatrici dalla vita della società e della cultura del contesto, oltre che dalla scarsa attenzione ai nuovi modelli educativi.
A tutto ciò si aggiunge quella che può essere considerata la causa principale, istituzionalmente più grave e cioè l’assenza di un chiaro progetto educativo per la formazione iniziale. Infine, per un certo gruppo, la formazione iniziale che non aiuta a prepararsi per la formazione permanente. Non sono infine assenti situazioni di conflittualità nelle relazioni interpersonali tra educatori ed educandi.
Importanti rilievi riguardano anche certe carenze nel rapporto con l’autorità e lo stile di governo. Per più di un quinto di frati a minare la propria risposta identitaria e vocazionale è la mancanza di organizzazione della fraternità (23.6%), quel disordine indifferenziato del “tutto è permesso”, dove la stessa autorità non si assume le responsabilità della gestione, piuttosto liberale, denunciata in maniera molto accentuata dal 44.9% dei più giovani con meno di 45 anni .
Un ulteriore problema emerge nella parte dell’indagine che analizza le difficoltà relative al voto di obbedienza. Si riconosce con franchezza la prevalenza dei valori individualistici dell’autonomia personale (36%), legati alle tendenze della modernità. Si ha infatti la chiara coscienza delle difficoltà che oggi vive questo voto, non più come discernimento della volontà di Dio (45%), ma solo in nome dell’autosufficienza, del non avere legami che costringano o che minaccino la propria libertà.
Si avverte, inoltre, la mancanza di comunicazione interpersonale profonda con i superiori (31%=436), assai correlato alla persuasione di una loro incapacità di gestire l’autorità: i superiori sono o troppo deboli (“tutto è permesso”!) o troppo autoritari (32%).
Oltre ai dati dell’indagine sociologica, la commissione ha aggiunto alcune altre considerazioni sulle cause degli abbandoni. Un elemento da considerare più specificamente sembra essere la dimensione affettiva, con particolare attenzione alla sfera sessuale: «È vero infatti che quanto abbiamo detto a proposito delle attese e delusioni riguardanti la vita fraterna ha certamente molto a che fare con la dimensione affettiva, ma è anche vero che tra le cause delle uscite dall’Ordine ritorna con una certa frequenza il motivo di un “innamoramento” e/o di rapporti sessuali e delle loro conseguenze, che non sono solo la nascita di un figlio, ma anche il legame e le responsabilità che da tali rapporti possono nascere» Nessuno è immune da possibilità di “scivolate” affettive in nessuna età della vita. Si tratta di un ambito – è detto – «forse più che in altri, è molto dissimile uscire da soli dalle difficoltà ed è necessario l’aiuto di qualcuno».
C’è inoltre il problema delle “dipendenze”, intendendo con questo termine l’assuefazione” e l’asservimento psicologico e talvolta anche fisico rispetto a sostanze, abitudini, comportamenti nocivi, per cui il soggetto non è più capace di fare a meno di qualcosa o di gestire in maniera ragionevolmente libera l’assunzione o la fruizione di qualche cosa.
«Tutte queste dipendenze, oltre ad essere esse stesse un problema, sono spesso il sintomo di complicazioni o disagi più profondi. Gli esempi noti sono parecchi e alcuni di essi toccano anche i frati, in misura maggiore o minore: una forma socialmente accettata di dipendenza è l’abitudine di fumare, che pur avendo conseguenze risapute sul piano della salute continua ad interessare molte persone; un’altra forma ugualmente ben conosciuta di dipendenza è l’alcolismo; un’altra è quella della pornografia, oggi soprattutto digitale e fruibile sul web; un’altra ancora in grande sviluppo in alcuni paesi è la ludopatia, cioè la dipendenza dal gioco d’azzardo, nelle varie sue forme più semplici o elaborate; una “classica” forma è la tossicodipendenza, con il mutare delle sostanze, secondo gli anni e le “mode”; un altro esempio infine è la dipendenza patologica dal cibo, che assume la forma della bulimia o, paradossalmente, anche quella dell’anoressia».
«Vanno resi coscienti e affrontati per tentare un percorso di recupero della propria libertà. Talvolta l’individuo “difficile” all’interno della fraternità è solo l’elemento “sintomatico” di un sistema problematico, l’anello debole di una catena che richiede attenzione. In questi casi la catena che deve essere presa in esame è l’insieme della fraternità, con i suoi stili relazionali. E anche qui ritorna evidente la necessità di chiedere l’aiuto altrui».
«Una proposta di aiuto, in questi casi, dovrebbe venire dai confratelli e dal responsabile della comunità. Certamente non siamo chiamati ad essere indiscreti o ad essere invadenti, esiste però un livello di coinvolgimento fraterno al quale nessun membro della comunità può sottrarsi. Se ci si accorge del problema di un fratello, oltre a parlarne con l’interessato, sarà utile parlarne con il responsabile della fraternità, in maniera costruttiva, come forma di aiuto al fratello… Non bisogna dimenticare tuttavia che anche la fraternità non può sempre arrivare a risolvere o affrontare correttamente tutti i problemi dei frati: talvolta la forma più amorevole di occuparsi di un confratello è quella di accompagnarlo a chiedere l’aiuto di un espertoۚ».
Nell’ultima parte, il sussidio della commissione propone una specie di cammino fatto insieme per guardare avanti. Le riflessioni e gli interrogativi vogliono essere un invito a entrare in dialogo ai vari livelli dell’Ordine sul tema degli abbandoni senza cadere nelle trappole del moralismo o allarmismo e senza rimanere in un atteggiamento di indifferenza di fronte all’esperienza difficile che un’uscita rappresenta per tutti i frati coinvolti.
In sintesi:
– Approfondire l’integralità della formazione permanente e iniziale: «Il concetto di formazione integrale riveste la massima importanza, in quanto è la stessa persona nella sua totalità, con tutto ciò che è e con tutto quello che possiede, a essere al servizio del Signore e della comunità cristiana. Il chiamato è un ‘soggetto integrale’, ossia una persona prescelta a raggiungere una solida interiorità, senza divisioni e dicotomie. Per giungere a tale obiettivo è necessario adottare un modello pedagogico integrato: un cammino che consenta alla comunità educativa di collaborare all’azione dello Spirito Santo, garantendo il giusto equilibrio tra le diverse dimensioni della formazione».
– Un modello relazionale dell’autorità e la necessità di preparare dei Ministri, Guardiani, formatori, guide spirituali, animatori vocazionali.
Seguono alcune proposte concrete. In particolare: riflettere, condividere sulla crisi come opportunità di una “seconda decisione vocazionale”; proporre delle fraternità per un periodo di “rinnovamento francescano”. «I dati statistici fanno però vedere un picco delle uscite tra i frati dai 35 ai 50 anni d’età. I motivi di questo fenomeno possono essere vari: un primo bilancio della vita vissuta fino a quel momento, una crisi di mezza età, un carico di lavoro eccessivo, la consapevolezza che i tempi per iniziare una “second life” si stanno stringendo, ecc. Al riguardo si potrebbe riflettere su e come poter offrire ai frati in questo periodo un momento di “sosta” , di introspezione e di “rinnovamento francescano”. Inoltre, sarebbe importante presentare questa proposta come un’opportunità aperta a tutti i frati che desiderano approfondire la loro conoscenza del carisma francescano in dialogo con la loro conoscenza di sé. La motivazione per prendersi questo tempo di “verifica” del proprio cammino vocazionale dovrebbe dunque essere positiva, con un programma di accoglienza, animazione della preghiera e accompagnamento che sia attraente per i frati. Si potrebbe offrire questo periodo di “rinnovamento francescano” p.e. in un momento di transizione da un compito ad un altro o da una comunità a un’altra (che talvolta sono anche momenti di crisi o almeno di bilancio della vita finora fatta).
Infine, suggerisce il sussidio: elaborare programmi per la preparazione specifica dei ministri e guardiani.
La commissione al termine del suo lavoro, conclude: «Legarsi in maniera definitiva e dire in libertà il proprio “sì” non riesce facile a nessuno, dato il carattere frammentario della nostra vita, e se ci riusciamo, è solo dovuto a Gesù Cristo, che si è donato senza riserve per diventare il “sì definitivo” del Padre a questo mondo (cf Gv 3,16). La fedeltà vocazionale è solo possibile per chi è in grado di scoprire in Cristo il “tutto nel frammento” della sua vita (cf. H.U. von Balthasar). In questo senso ci auguriamo che l’incompletezza di questo sussidio possa diventare un’opportunità per ciascuno dei destinatari, suscitando nuove domande, nuove riflessioni, una maggiore sensibilità nei confronti del tema, e non da ultimo, una disponibilità ad agire, dove e quando è possibile. Se questo avverrà, l’obiettivo di questo sussidio sarà stato ampiamente raggiunto».
a cura di Antonio Dall’Osto