Matté Marcello
Il carcere deve avere una finestra
2019/12, p. 22
Il carcere, presentato come la soluzione dei problemi di sicurezza sociale, crea problemi ed è un problema. Ancor più se si tollerano gli abusi del potere sanzionatorio. Occorre un modello di giustizia fondato sul dialogo, sull’incontro. Non è un’utopia, ma è una grande sfida.

Accedi alla tua area riservata per visualizzare i contenuti.

Questo contenuto è riservato agli abbonati a
Testimoni
.
Associazione internazionale di diritto penale
Il carcere deveavere una finestra
Il carcere, presentato come la soluzione dei problemi di sicurezza sociale, crea problemi ed è un problema. Ancor più se si tollerano gli abusi del potere sanzionatorio. Occorre un modello di giustizia fondato sul dialogo, sull’incontro. Non è un’utopia, ma è una grande sfida.
«Le carceri devono avere sempre una “finestra”, cioè un orizzonte. Guardare ad un reinserimento. E si deve, su questo, pensare a fondo al modo di gestire un carcere, al modo di seminare speranza di reinserimento; e pensare se la pena è capace di portare lì questa persona». Con questa citazione della prof.ssa Severino, papa Francesco conclude il Discorso ai partecipanti al XX Congresso mondiale dell’Associazione internazionale di diritto penale (15/11). Una proiezione nel futuro al termine di un’analisi lucida e forte sulla condizione presente del sistema penale.
L’ossimoro
una giustizia sperequativa
L’osservazione più severa colpisce la distanza tra i nobili ideali della giustizia, alla quale si ispira il duro lavoro dei penalisti, e la realtà che interpreta troppo sovente la giustizia come restituzione del male fatto, la pena come una ritorsione. In molti passaggi si può riconoscere un riferimento esplicito alle distorsioni che il sistema penale subisce anche in Italia: «espansione dell’ambito della penalità, criminalizzazione della protesta sociale, abuso della reclusione preventiva...».
«Una delle frequenti omissioni del diritto penale, conseguenza della selettività sanzionatoria, è la scarsa o nulla attenzione che ricevono i delitti dei più potenti, in particolare la macro-delinquenza delle corporazioni. Non esagero con queste parole. ... Si tratta di delitti che hanno la gravità di crimini contro l’umanità, quando conducono alla fame, alla miseria, alla migrazione forzata e alla morte per malattie evitabili, al disastro ambientale e all’etnocidio dei popoli indigeni». A fronte di un accanimento contro il reato minore – per quanto incisivo sul malessere sociale – allo scopo di blandire la rabbia sociale.
L’eterogenesi dei fini:
il carcere crea problemi
«Fenomeni massicci di appropriazione di fondi pubblici passano inosservati o sono minimizzati come se fossero meri conflitti di interesse».
Con ciò non si vuole invocare “più carcere per tutti”. Anzi, con il papa smascheriamo la superficiale legittimazione di «una corrente punitivista che pretende di risolvere attraverso il sistema penale i più svariati problemi sociali». Il carcere, presentato come la soluzione dei problemi di sicurezza sociale, crea problemi ed è un problema. Ancor più se si tollerano gli abusi del potere sanzionatorio.
Le derive: ingiustizia,
violenza, odio
«L’uso improprio della custodia cautelare». «Le persone in custodia cautelare in carcere continuano ad essere in calo, ma l’Italia resta tra i Paesi in Europa che maggiormente ricorrono al carcere prima della sentenza definitiva, soprattutto quando gli imputati sono stranieri», riassume il XV Rapporto di Antigone. «Al 31 dicembre 2018 i detenuti in custodia cautelare in carcere erano 19.565, per una percentuale di detenuti ancora in attesa di una sentenza definitiva pari al 32,8% del totale della popolazione carceraria. La custodia cautelare in carcere colpisce maggiormente i soggetti socialmente più deboli che incorrono nelle maglie della giustizia».
«L’involontario incentivo alla violenza. In diversi Paesi sono state attuate riforme dell’istituto della legittima difesa e si è preteso di giustificare crimini commessi da agenti delle forze di sicurezza come forme legittime del compimento del dovere. È importante che la comunità giuridica difenda i criteri tradizionali per evitare che la demagogia punitiva degeneri in incentivo alla violenza o in uno sproporzionato uso della forza. Sono condotte inammissibili in uno Stato di diritto e, in genere, accompagnano i pregiudizi razzisti e il disprezzo verso le fasce sociali di emarginazione».
«La cultura dello scarto e quella dell’odio. La cultura dello scarto, combinata con altri fenomeni psico-sociali diffusi nelle società del benessere, sta manifestando la grave tendenza a degenerare in cultura dell’odio».
La contraddizione: tra fine
dichiarato e fine perseguito
Non è un appello morale, quanto civile, quello che, a partire da una cultura evangelica, spinge a superare una concezione retributiva della giustizia penale, fin qui gestita, in Italia più che in altri Paesi europei, come vendetta della società ferita dal reo. L’ideologia che si condensa nell’invocazione a “buttare via la chiave” è, appunto, ideologia che non trova riscontro nemmeno nella statistica. L’aumento delle pene, l’equazione pervasiva pena = carcere, la funzione deterrente della ritorsione penale nella convinzione che più carcere significhi più sicurezza non reggono al confronto con gli esiti effettivi.
L’Art. 27 della Costituzione, al quale si ispirano fa gli altri il Diritto penale e l’Ordinamento penitenziario, stabilisce che «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». Scopo primario delle pene (il carcere non è la sola ma quella preponderante) è dunque la rieducazione, oggi interpretata come “reinserimento” nella società, risocializzazione.
Vi è una contraddizione palese tra il fine (il recupero alla vita sociale) e il mezzo attraverso il quale si persegue (l’esclusione dalla vita sociale). Fatta salva la necessità di mettere la collettività al riparo dai violenti, ma posto che nessuno è la sua colpa e che la pena vuole restituire alla società dei “buoni vicini”, resta comunque da spiegare come mai la conduzione delle carceri – cioè dello strumento – sia affidata principalmente al personale di polizia.
Secondo il XV Rapporto Antigone, «sono 60.439 i detenuti presenti nelle carceri italiane al 30 aprile 2019». Tra il personale operativo, la polizia penitenziaria (con compiti primariamente custodiali, anche se poi di fatto svolgono preziose mansioni di rapporto diretto con i detenuti) conta 31.332 agenti effettivamente in servizio, «vale a dire quasi un agente ogni 2 detenuti». Gli operatori giuridico-pedagogici (educatori) si vedono invece affidati ciascuno 78 detenuti. Per quanti correttivi si debbano applicare a questi parametri sommari, non si giustificherà mai, davanti al dettato costituzionale, la distanza tra il fine dichiarato (rieducazione) e perseguito (custodia). E purché la custodia non diventi afflizione. Davanti alla Costituzione, nessuna qualifica, nemmeno la colpa, può giustificare una discriminazione.
Un carcere afflittivo riconsegna alla società persone che hanno sviluppato un vittimismo di risulta, spinte a cercare compensi surrogati. Se si assomma la stigmate indelebile che il carcere lascia, pregiudicando l’accesso al lavoro e all’autonomia abitativa, si può comprendere perché la recidiva per chi esce dal carcere senza essere stato accompagnato lungo un percorso di risocializzazione, sia tentato per più dei due terzi dalla recidiva.
L’invito: verso
una giustizia riparativa
«In ogni delitto c’è una parte lesa e ci sono due legami danneggiati: quello del responsabile del fatto con la sua vittima e quello dello stesso con la società. Ho segnalato che tra la pena e il delitto esiste una asimmetria e che il compimento di un male non giustifica l’imposizione di un altro male come risposta. Si tratta di fare giustizia alla vittima, non di giustiziare l’aggressore» (papa Francesco).
Un recente convegno promosso dalla Regione Emilia Romagna ha fotografato l’andamento sul territorio delle esperienze di giustizia riparativa (o restaurativa – restorative justice). Che non può e non vuole proporsi come modello sostitutivo dell’esecuzione penale (se non altro perché si fonda su presupposti di volontarietà), ma chiede di essere annoverato, a titolo non soltanto sperimentale, fra i modelli di procedura e di esecuzione penale. Se ne parla sempre più, ma i percorsi effettivi restano ancora benemeriti isolati.
«Le nostre società sono chiamate ad avanzare verso un modello di giustizia fondato sul dialogo, sull’incontro, perché là dove possibile siano restaurati i legami intaccati dal delitto e riparato il danno recato. Non credo che sia un’utopia, ma certo è una grande sfida. Una sfida che dobbiamo affrontare tutti se vogliamo trattare i problemi della nostra convivenza civile in modo razionale, pacifico e democratico».
«La giustizia riparativa è un percorso volontario lungo il quale vittima e colpevole arrivano a un incontro dove la vittima possa sentirsi riconosciuta e riparata del male subito e il responsabile possa assumere consapevolezza del male inferto» (G. Colombo): «Prima sapevo di essere un omicida, ora so di aver ucciso una persona».
La giustizia forense toglie la parola alla vittima e al colpevole, per consegnarla agli avvocati. La giustizia riparativa mira invece a fare incontrare le persone, al riconoscimento reciproco. «Voglio sapere perché mi hai fatto questo»: la risposta data personalmente a questa domanda è molto più riparatoria di ogni vendetta esercitata dallo Stato sul colpevole in nome della vittima. La giustizia retributiva appiattisce le vittime sul cliché umiliante di assetati di vendetta anziché di giustizia. La giustizia riparativa riconosce alla vittima la dignità della sua sofferenza che cerca un di più di bene anziché di male.
La conclusione: non c’è
giustizia senza civiltà
I percorsi di giustizia riparativa nuotano in acque sempre più inquinate e rarefatte. La maggior parte dell’opinione pubblica non crede alla consapevolizzazione del responsabile e, senza una precisa volontà civico-politica, non si libera dallo schema rigido del contrappasso. È sotto gli occhi di tutti che il carcere afflittivo non funziona per restituire alla società dei “buoni vicini”, e tuttavia si continua a invocare più carceri e più carcere. «È difficile rendere ragionevole il sentire» (Colombo).
Le fragilissime esperienze di giustizia riparativa arrancano contro il pregiudizio, irrazionale ma dominante, che il carcere funzioni anche come prevenzione, per la sua forza deterrente. Non si produrranno mai abbastanza tabulati statistici per dimostrare l’infondatezza del presupposto. Assistiamo anzi a una preferenza crescente per le politiche di sicurezza basate sulla repressione piuttosto che sulla prevenzione.
Agli inizi degli anni Novanta si cominciava a parlare nell’Europa continentale di “nuova prevenzione”, cioè «l’insieme delle strategie orientate a diminuire la frequenza di certi comportamenti, siano o meno essi considerati punibili dalla legge penale, attraverso l’uso di strumenti diversi da quelli penali» (P. Robert).
La “nuova prevenzione” si propone come base delle politiche di sicurezza, affidate non tanto agli organi penali dello Stato quanto a soggetti quali gli enti locali, i servizi sociali, il volontariato, i comuni cittadini. La “mediazione penale”, come forma alternativa alla giustizia forense ispirata a modelli concettuali analoghi a quelli della giustizia riparativa, è più consona al raggiungimento degli obiettivi della “nuova prevenzione”. Il modello non è riuscito a performare le politiche sociali e ha visto in questi ultimi anni la giustificazione data dall’opinione pubblica alla ricerca della sicurezza attraverso politiche repressive. La parabola italiana culminata nei “Decreti sicurezza” voluti dal ministro Salvini consegna definitivamente le politiche di sicurezza alle strategie repressive, reintroducendo anche quelle misure penalistiche alle quali le politiche di sicurezza dovevano essere alternative. «Recuperare la prevenzione sociale e le misure di giustizia riparativa nelle politiche di sicurezza urbana garantirebbe un recupero dello spirito e dei concetti originari della sicurezza come diritto per tutti, garantendo approcci non punitivi e probabilmente più efficaci» (R. Selmini).
Marcello Matté