Ferrari Gabriele
Hai fatto bene, p. Eugenio
2019/12, p. 10
Il 27 ottobre ci ha lasciato p. Eugenio Melandri. La sua scelta della politica attiva fu causa di sofferenza, ma lui ha sempre vissuto da Saveriano. Cito a senso o memoria, credo dal libro del Siracide: «La persona si conosce veramente solo al momento della sua morte». È così – credo – per padre Eugenio Melandri (21 settembre 1948 – 27 ottobre 2019). A funerali ormai celebrati, mi accingo a scrivere queste righe che sgorgano da una folla di ricordi che in questi ultimi anni si sono accumulati risvegliando insieme quelli passati e che mi fanno vedere qualcosa della verità di padre Eugenio Melandri.

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“Hai fatto bene, padre Eugenio”
Il 27 ottobre ci ha lasciato p. Eugenio Melandri. La sua scelta della politica attiva fu causa di sofferenza, ma lui ha sempre vissuto da Saveriano.
Cito a senso o memoria, credo dal libro del Siracide: «La persona si conosce veramente solo al momento della sua morte». È così – credo – per padre Eugenio Melandri (21 settembre 1948 – 27 ottobre 2019).
A funerali ormai celebrati, mi accingo a scrivere queste righe che sgorgano da una folla di ricordi che in questi ultimi anni si sono accumulati risvegliando insieme quelli passati e che mi fanno vedere qualcosa della verità di padre Eugenio Melandri. Ho letto sui giornali titoli del tipo: “il prete rosso”, “il compagno Melandri” ecc.
Denunciare l’antiregno
Ma chi era Eugenio Melandri? Lo dico subito: era un mio confratello oltre che un carissimo amico, del quale sono stato superiore generale e con il quale e per il quale ho anche sofferto…, ma che, proprio per questo, mi era molto caro e dal quale ho sempre ricevuto un grande affetto.
Eugenio era nato a Brisighella (provincia di Ravenna) il 21 settembre 1948. Entrato fra i Missionari Saveriani a vent’anni, aveva emesso i voti perpetui proprio nelle mie mani a Parma il 5 novembre 1973. Dopo l’ordinazione presbiterale, era stato destinato all’animazione missionaria in Italia; aveva diretto la rivista dei Saveriani che si chiamava ancora Fede e civiltà ma alla quale dette presto un altro nome, Missione oggi.
Come animatore missionario ebbe subito la percezione che annunciare il Vangelo del regno e non denunciare insieme l’“antiregno”, le situazioni cioè di ingiustizia strutturale e le connivenze civili ed ecclesiastiche con il potere che opprimeva i poveri, era una contraddizione intollerabile per noi missionari.
Questa convinzione lo portò a parlare chiaro e a denunciare le connivenze della politica nostrana che parlava di cooperazione internazionale ma non si impegnava per la giustizia nel mondo, anzi contribuiva a consolidare le strutture ingiuste con il commercio delle armi e con progetti di carattere umanitario che, tuttavia, finivano per fare gli interessi del nostro Paese e delle nostre istituzioni, aggravando la condizione dei poveri nel mondo.
La giustizia e la pace, il disarmo e il sostegno ai paesi in via di sviluppo, divennero il suo campo di missione che condivise con padre Alex Zanotelli, facendo con lui un binomio che i politici di allora temevano più del diavolo.
Questo impegno lo portò alla convinzione che bisognava impegnarsi in politica per cambiare la realtà del mondo. Per questo si candidò nelle file di Democrazia proletaria nelle elezioni europee del 1989 e poi al Parlamento italiano per Rifondazione Comunista. Per questa decisione dovette, a malincuore, lasciare il ministero presbiterale.
L’ho dovuto accompagnare nel travaglio di quella scelta con lunghe discussioni fino quando venne, sofferta, la sua decisione. Dovette uscire dall’Istituto, ma fu la sua libera scelta. Non abbandonò, tuttavia, il suo impegno, quello di sempre, per le stesse finalità e, malgrado le delusioni avute in politica, continuò a lavorare per il regno di Dio.
Fu tra i fondatori di Chiama l’Africa, direttore della rivista Solidarietà internazionale del CIPSI, fu anche assessore alla Cultura nel Comune di Genzano (Roma). Rimase sempre attivo in Pax Christi, dove trovò il suo grande amico don Tonino Bello, il vescovo di Molfetta leader del pacifismo cattolico, e il vescovo Luigi Bettazzi, storico presidente di Pax Christi. Partecipò attivamente al movimento Beati i costruttori di pace e pellegrinò a Sarajevo e in Bosnia negli anni ’90 e collaborò con il Gruppo Abele di don Ciotti.
Ha vissuto da Saveriano
In questi ultimi anni la malattia, un tumore al pancreas, che nei suoi messaggi agli amici chiamava il “drago” (copiando il termine da padre Turoldo), lo riportò a casa nella sua Famiglia missionaria che lo accolse con grande fraternità e gli prestò le cure necessarie come se sempre fosse rimasto a casa.
In effetti, Eugenio non aveva mai lasciato i Saveriani: «Mi sono sempre sentito e ho vissuto come un Saveriano», ha detto in una recente intervista a Filippo Vendemmiati. Ed è vero, lo posso confermare. Anche se, per anni, non ci siamo visti che raramente, tuttavia le nostre strade ogni tanto si incrociavano e sempre è rimasta viva l’amicizia e soprattutto la sua devozione per il sottoscritto («Scusami, ti ho fatto tanto soffrire», era un ritornello…) fino all’ottobre 2018, quando mi annunciò che era malato. Ormai si trovava a casa nostra, era rientrato dai Saveriani in Romagna e la malattia non gli faceva più paura, era felice di essere venuto a casa: «Mi hanno invitato…» mi disse tra le lagrime.
Mi comunicò su Facebook e poi al telefono la lieta notizia della sua visita al papa e anche la proposta fattagli dall’arcivescovo di Bologna, Matteo Zuppi, di reintegrarlo nel ministero presbiterale.
«Un regalo inatteso», mi disse, di cui però non si sentiva degno, tanto che volle confrontarsi con me sull’opportunità di accettare la proposta. Mi chiese un colloquio a quattr’occhi e io andai a trovarlo lo scorso aprile, di ritorno dal Burundi: «Ma farò bene? io che ho preso un’altra strada…». Lo rassicurai: era un passaggio provvidenziale del suo viaggio saveriano, un segno del Signore che apprezzava il suo lavoro e lo riportava come un fratello nella sua famiglia.
La pratica della reintegrazione, propiziata dall’arcivescovo di Bologna, Matteo Zuppi, giunse con grande rapidità a termine e domenica 20 ottobre 2019, giornata missionaria mondiale, Eugenio celebrò una nuova «prima messa». Avrebbe voluto celebrarla sulla tomba di don Tonino Bello, ma la malattia stava accelerando il suo corso.
“Hai fatto bene”
Se n’è andato la domenica seguente 27 ottobre, a settantun anni appena compiuti, come un atleta che taglia il traguardo della tappa finale.
Padre Eugenio Melandri, il “missionario disobbediente”, come qualcuno l’ha chiamato, poteva dire con Pasternak di «aver vissuto la sua vita sino all’ultimo istante». Ha avuto la gioia di tornare a celebrare l’eucaristia, la seconda grande gioia nell’ultima tappa della vita dopo quella dell’incontro con il papa Francesco a Santa Marta il 19 ottobre 2018: «Hai fatto bene».
Si era presentato a Francesco come un ex prete, uscito dal ministero per entrare in politica, e quando padre Silvio Turazzi, che era con lui, aveva completato la presentazione di Eugenio dicendo che aveva però continuato a lavorare molto per le missioni, il papa dopo un breve silenzio, tenendogli la mano e fissandolo negli occhi, gli aveva detto: «Hai fatto bene». Eugenio si era sentito approvato e ringraziato.
Che cosa ci insegna? Ci ha «insegnato a vivere con passione, ma anche come si muore. Con la gioia dentro…» ha detto don Renato Sacco coordinatore di Pax Christi.
Avremo tempo di riflettere e di capire il senso di questo itinerario – per certi – tortuoso, ma, per chi l’ha conosciuto da vicino, lineare e fedele alla propria vocazione, un percorso in grande onestà fino alla fine.
Personalmente posso dire di averlo accompagnato nel travaglio delle decisioni e di essere stato testimone della sua passione per la giustizia e la liberazione dei poveri.
Posso forse vantarmi (ma in fondo è stato solo il mio dovere di fratello!) di averlo difeso dagli strali della Santa Sede, perché ero convinto – e tutt’ora lo sono – della bontà delle sue intenzioni come pure del fatto che Eugenio ha richiamato la Chiesa, e in essa noi missionari, alle esigenze “politiche” della missione e a certe verità scomode e impegnative che, per paura o per pigrizia, facciamo scivolare al margine della nostra coscienza.
E come tutti i profeti, arrivato con anticipo, ha dovuto soffrire, perché negli anni ’80-90 ha visto più lontano dei pastori e dei suoi superiori e fratelli e per questo non è stato sempre e da tutti compreso, ma osteggiato e anche condannato. Ora il suo messaggio è chiaro. Troppo tardi? Sì e no, perché quello che ci ha fatto capire è oggi confermato dallo stesso ministero. I metodi sono spesso sbagliati, ma la sostanza è vangelo: «Hai fatto bene», gli ha detto il papa. E anche noi lo ripetiamo oggi, con il rimpianto di non averlo capito a tempo.
Gabriele Ferrari