Guerini Nico
Il Rosario preghiera del cuore (2 parte)
2019/12, p. 9
Il 1o novembre scorso il reggente della Penitenzieria Apostolica, mons. Krzysztof Nykiel, ha consegnato la bolla pontificia di indizione dell’Anno Giubilare Lauretano all’arcivescovo di Loreto mons. Fabio Dal Cin che lo ha poi letto sul sagrato della Basilica della Santa Casa, davanti a pellegrini, autorità, cittadinanza e comunità religiosa.

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Giubileo Lauretano (2° parte)
IL ROSARIO PREGHIERA
DEL CUORE
Il 1o novembre scorso il reggente della Penitenzieria Apostolica, mons. Krzysztof Nykiel, ha consegnato la bolla pontificia di indizione dell’Anno Giubilare Lauretano all’arcivescovo di Loreto mons. Fabio Dal Cin che lo ha poi letto sul sagrato della Basilica della Santa Casa, davanti a pellegrini, autorità, cittadinanza e comunità religiosa.
«Già da oltre sette secoli – ricorda il decreto – mossi da fiducia verso la Madre di Dio, alla Santa Casa di Loreto accorrono i fedeli da tutto il mondo cristiano, tra i quali appunto si celebra con singolare devozione la memoria del Verbo Divino fatto uomo nel seno di Maria. In verità Dio, ricco di Misericordia, per intercessione della Vergine Madre, non cessa di effondere benevolmente lì, in quella Casa, l’abbondanza dei celesti doni per la salute dell’anima e del corpo».
«La felice coincidenza dell’indizione del Giubileo lauretano con la festa di tutti i Santi – ha sottolineato mons. Dal Cin – ci dice il senso di questo evento, che nell’immagine del "volo" coglie la metafora della vita cristiana: tutti siamo chiamati alla santità, alla gioia vera. Abbiamo bisogno di volare alto per vedere noi stessi, la realtà, il mondo, il creato, la nostra stessa vita nella maniera giusta, dalla prospettiva di Dio, cogliendone il significato autentico».
Alla gioia del Giubileo si unisce anche il dono del Decreto della Congregazione del culto divino e la disciplina dei sacramenti che ha iscritto la celebrazione liturgica della memoria della Beata Maria Vergine di Loreto nel Calendario Romano generale che dà valore ancora una volta "universale" alla Santa Casa.
Cammino
e bellezza trasfigurata
Proponendo la seconda parte della riflessione sui misteri del Rosario di Nico Guerini, chiediamo a Maria il dono della sua tenerezza materna e il sostegno della sua speranza anche nei momenti segnati da difficoltà e sofferenze.
Da sempre la pietà cristiana, specialmente nella Quaresima, attraverso la pratica della Via Crucis, si è soffermata sui singoli momenti della Passione, intuendo che è qui il culmine della rivelazione dell’amore ed è qui la sorgente della nostra salvezza. Il Rosario sceglie alcuni momenti della Passione, inducendo l’orante a fissarvi lo sguardo del cuore e a riviverli.
1. Gesù nell’orto del Getsemani
Nella notte un Gesù in preda a paura, tristezza, tedio, angoscia. Si comprende bene tutto questo quando capita di trovarsi in situazioni simili alla sua, quando queste parole non sono delle voci di un dizionario, ma dei sentimenti che feriscono la carne. La lista delle nostre paure è molto lunga, il vuoto del tedio può apparire a volte perfino un sollievo temporaneo, l’angoscia ci soffoca. Gesù ci dice di “vegliare”, ma cosa può significare questo quando gli occhi vedono solo buio? La sofferenza estrema ci fa ritornare alla fragilità dell’infanzia: si sente il bisogno della mano di un “papà”, Abbà, come Gesù chiama suo Padre (Mc 14,36), una mano che ci protegga, che ci rassicuri, che possa trasmetterci un po’ di tenerezza. Quale volto avrà l’angelo mandato a consolarci? Verrà? E quando? Che il buon Dio ci doni, quando lo preghiamo, di sentire la sua presenza accanto a noi e a tutti quelli che sperimentano una qualche forma di “agonia”.
2. Gesù è flagellato
Questo supplizio, che mirava ad accelerare la morte del condannato, è appena menzionato nei vangeli (Mt 27,26), e però esso occupa tutto un “mistero”. La devozione medievale al crocifisso spiega questa enfasi. In effetti, la materia da contemplare comprende tutti gli oltraggi che Gesù ha ricevuto: i colpi delle sferze, gli sputi, gli schiaffi, la derisione, il disprezzo, l’abisso della desolazione. Alonso Cano (sec. XVII) ha dipinto Gesù nel pretorio, un corpo seminudo e intatto, solo, su un fondo nero, dove la “flagellazione” del titolo è appena suggerita: si intravede qualcuno a lato che sta preparando le sferze, e l’orrore è affidato all’immaginazione. È la materializzazione dell’abbandono, cui dà voce il salmo: «Mi ignorano come un morto dimenticato, come un rifiuto che si butta» (Sal 30,13). Forse solo l’umiliazione aiuta a capire cosa è l’umiltà, la sola virtù di cui non ci si può vantare (M. Bellet). Ma, a volte, basta uno sguardo di tenerezza, e la solitudine si addolcisce.
3. Gesù è incoronato di spine
Cosa aggiunge questa scena a ciò che si è già visto nel mistero precedente? Ciò che colpisce è che la stessa immagine di una “corona”, che per sé è una “vetta” che celebra un trionfo o una gloria regale, qui viene rovesciata: è il vertice della sconfitta! Gesù raggiunge il fondo dell’ignominia, l’abisso della perdita totale di rispetto e di dignità. Le autorità ebraiche pretendono che egli faccia il “profeta”, i soldati romani che egli mostri il suo potere di “re”. Gesù tace, e la sua regalità avrà il massimo punto di visibilità su una croce! La sua impotenza fa scandalo: egli non è quello che dice di essere! Ma il paradosso resta la sua verità: è il suo silenzio che parla, è la sua debolezza che ci salva, almeno per il solo fatto di condividere la nostra. Ricordo un bel libro di una benedettina inglese dal titolo: La porta della speranza, che parla di Gesù come di «un Messia fallito». La corona di spine diventerà una corona d’alloro, quella che si metteva su nude croci di pietra nell’antichità cristiana quando non si osava esporre il cadavere di un crocifisso.
4. Gesù sale al Calvario
L’inizio della Via Crucis mostra, nei vangeli sinottici, un Gesù passivo: lo «condussero» (Mc 15,20; Mt 27,31), lo «conducevano via» (Lc 23,26) per crocifiggerlo. Soltanto Giovanni scrive che «portando la sua croce, si avviò» (Gv 19,17), il che però è già una lettura teologica dell’evento. Per noi “passione” significa soprattutto sofferenza, ma si dimentica talvolta che la sofferenza peggiore è forse quando si è “passivi”, privati di libertà e di autonomia, quando non si controlla più niente, si è “condotti” da qualcuno là dove noi non andremmo mai, quando si è obbligati a “subire” in uno stato di impotenza totale. Questo è la croce, e questo spiega anche perché le regole monastiche insistono tanto sull’obbedienza, che ci fa «imitatori di Cristo» (Isacco della Stella), che si è «annientato» e ha «obbedito sino alla morte» (cf. Fil 2,6-11). Quando si arriva a questo punto ci si accorge molto presto che l’Imitazione di Cristo non è un aureo libretto da gustare nella calma tranquilla di un giardino, ma una ferita della carne, che occorre saper accogliere nella pazienza.
5. Gesù muore in croce
I vangeli ci danno tre quadri diversi di questa morte. Per Marco e Matteo è l’esperienza dell’abbandono e del vuoto: Gesù muore in una solitudine tragica in cui Dio stesso sembra scomparire. Per Luca, il Crocifisso è l’icona della pietà: in tre frasi Gesù dice il perdono, l’accoglienza, la fiducia. Giovanni invece riveste questa morte di significati teologici, anche se lascia intravedere passaggi di dolore: la separazione dalla madre, la sete, e quel «tutto è compiuto» che potrebbe esprimere il sollievo che accompagna la fine di un dolore insopportabile. Abbiamo dunque tre modi di vivere la morte: la paura di entrare nel nulla, la sofferenza che diventa una scuola di compassione, e un senso di compimento che ancora non si vede ma in cui si crede. Come una morte che è, nel contempo, il dono di un “soffio di vita” che chiamiamo lo Spirito (Gv 19,30).
Lo sguardo al cielo
«La contemplazione del volto di Cristo non può fermarsi all’immagine di lui crocifisso. Egli è il Risorto!’ » (Novo millennio ineunte, 28). Da sempre il Rosario esprime questa consapevolezza della fede, invitando il credente ad andare oltre il buio della Passione, per fissare lo sguardo sulla gloria di Cristo nella Risurrezione e nell’Ascensione.
Contemplando il Risorto, il cristiano riscopre le ragioni della propria fede ( cfr. 1Cor 15, 14), e rivive la gioia non soltanto di coloro ai quali Cristo si manifestò – gli Apostoli, la Maddalena, i discepoli di Emmaus –, ma anche la gioia di Maria, che dovette fare un’esperienza non meno intensa della nuova esistenza del Figlio glorificato.
1. Gesù risorge dalla morte
Cos’è la risurrezione? Un’idea, una dottrina, un’utopia? I vangeli ci dicono all’unanimità che si tratta di “incontri”. Da qui rinasce la speranza, che a sua volta genera la fede nella vittoria della vita sulla morte. Maria di Magdala è colei che esprime al meglio questo percorso. Non abbandona la tomba, aspetta di rivedere un volto, di tornare a sentire una voce ben nota. Ed è quello che capita. «Maria!» (Gv 20,16). Un nome, solo questo, ma è tutto! È riconosciuta, e riconosce. L’incontro con Colui che ti chiama con il tuo nome, perché ti conosce, e ti accoglie così come sei, nella tua bontà e nel tuo peccato, perché egli ti ama: ecco la risurrezione. Ogni domenica i cristiani sono chiamati a rifare questa esperienza di incontro con il Risorto: cosa ne è delle nostre eucaristie? E per il vero, ogni mattina il risveglio è una chiamata alla vita, anche nei giorni in cui non si ha voglia di alzarsi perché ci si ritrova “rivestiti di paura” (Sal 54,6). È il momento, allora, di pregare: «Al mattino fammi sentire il tuo amore, perché in te confido» (Sal 142,8).
2. Gesù sale al cielo
Parrebbe piuttosto difficile esultare per una festa che celebra una partenza! Gesù se ne va, sparisce dalla nostra vista, e ai suoi discepoli si dice che è inutile continuare a guardare il cielo: egli «ritornerà» (At 1,11). Sì, ma quando? E come? E dove? Matteo si sbarazza presto del problema: conclude il suo vangelo con parole che rassicurano: «Io sono con voi tutti i giorni» (28,20). Al presente. Il punto è dunque comprendere che questa “separazione” assicura una “unione” più profonda, universale e perpetua. Che Gesù attraversi i cieli significa che egli è dovunque, misteriosamente. L’Ascensione è il punto d’arrivo di una storia iniziata a Betlemme: là il cielo era entrato nella terra, ora è la terra che entra nel cielo (Pietro Crisologo). L’effetto è sconvolgente. Lo si può riassumere con san Paolo: «noi sappiamo che tutto concorre al bene, per quelli che amano Dio» (Rm 8,28). L’ascensione dice che, in un modo per noi incomprensibile, questo “tutto” è salvato.
3. Il dono dello Spirito Santo
Se con l’Ascensione la terra, unita al Figlio dalla sua nascita, è salita con lui al cielo, a Pentecoste è il cielo che ridiscende sulla terra e si offre agli orizzonti del mondo. La Pasqua si completa nell’Ascensione, e questa manifesta la sua efficacia nello Spirito che viene a legare la terra al cielo in nozze durature. Questo ci permette di continuare quaggiù l’opera di Gesù, dal momento che noi riceviamo il suo “soffio” vivificante, il suo Spirito, che attira la terra verso il cielo. Lo Spirito ci raggiunge nello spazio domestico di un incontro familiare del Risorto con i suoi discepoli (Gv 20,19-23), ove si rivela nella pace che irradia su gente bloccata dalla paura. Gesù, vivo, vuole vivere nei suoi amici attraverso la missione che egli affida loro, e per garantire la continuità di questa azione offre il perdono e il “Paraclito”, Colui che resta accanto a noi per difenderci, darci forza e consolarci. Dove trovarlo? Soprattutto nella Scrittura, luce che sostiene il nostro cammino.
4. Maria è assunta in cielo
I grandi cistercensi, che amavano contemplare la bellezza della vita celeste, hanno consacrato numerosi sermoni a questo mistero che ci mostra il primo frutto concreto della discesa dello Spirito. Se nel Cristo colui che “risale” al cielo è qualcuno che di là proviene, in Maria, sua madre, che è terrestre come noi, è la “terra” che è afferrata da Dio e posta accanto al suo trono. E dunque i misteri della gloria riguardano tutti noi. È bene notare che quella tra Gesù e Maria è una riunione d’amore. Aelredo di Rievaulx ha detto che la ragione dell’Assunzione corporale di Maria è dovuta al fatto che il “corpo” della madre non poteva sopportare di essere separato dal corpo del suo figlio in attesa della risurrezione finale! È un dono della spiritualità cistercense quello di immergere la bellezza delle verità di fede nella tenerezza delle relazioni umane. È confortante indugiare su questa conclusione, perché Maria è la “madre”, oltre che del Capo, pure di tutti noi!
5. Maria regina e madre di misericordia
Il medioevo usava dipingere l’incoronazione della Vergine in un’atmosfera di fasto regale. È anche l’epoca che ci ha dato quelle celebri antifone mariane in cui Maria è salutata come «Regina dei cieli e signora degli angeli», ma soprattutto come «Regina, Madre di misericordia», come dice la più conosciuta e la più cantata. Il privilegio che porta Maria a regnare accanto a Dio si trasforma in dono che dilata sulla terra la sua potenza di intercessione, di soccorso, di protezione: una regalità materna, una maternità regale, «vita, dolcezza e speranza nostra». Si canta la Salve Regina nei monasteri alla fine della giornata, quando una sola lampada nella chiesa illumina una statua o un’icona della Vergine. È una preghiera che si estende dal “grido” (clamamus) al “sospiro” (suspiramus), voce che dal nostro “esilio” invoca la sua presenza, quando la luce diminuisce e il giorno si accorcia. Con la dolcezza di Maria nel cuore, entriamo tranquilli nella notte.
Nico Guerini