Chiaro Mario
Terra bruciata
2019/11, p. 31
Da almeno trent’anni si discute di degrado ambientale e di deforestazione. Su tali questioni, oggetto di tanti vertici mondiali, prevale sempre la logica economicistica. La terra va protetta dai diktat del business globale. Urge un impegno contro landgrabbing e deforestazione.

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Testimoni
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Nuova forma di colonialismo
TERRA
BRUCIATA
Da almeno trent’anni si discute di degrado ambientale e di deforestazione. Su tali questioni, oggetto di tanti vertici mondiali, prevale sempre la logica economicistica. La terra va protetta dai diktat del business globale. Urge un impegno contro landgrabbing e deforestazione.
In un nostro precedente articolo (cf. Testimoni 10/2019 pp. 29-31) si è riflettuto sul Messaggio della Cei in occasione della Giornata nazionale per la custodia del creato (1° settembre), dal quale emerge la richiesta dei presuli italiani alle comunità cristiane di impegnarsi in particolare contro pratiche che degradano e distruggono la biodiversità, come il landgrabbing, la deforestazione, la proliferazione delle monocolture, il crescente consumo di suolo, l’inquinamento che lo avvelena.
Landgrabbing, nuova forma
di colonialismo
Si parla di landgrabbing (accaparramento delle terre) quando una larga porzione di terra considerata “inutilizzata” è venduta a terzi, aziende o governi di altri paesi senza il consenso delle comunità che ci abitano o che la utilizzano per coltivare e produrre il loro cibo. L’aspirazione alle tre “T“: tierra, techo, trabajo (terra, tetto, lavoro) – espressa dai movimenti sociali di tutto il mondo e fatta propria da papa Francesco – appare oggi particolarmente a rischio. L’alienazione di vaste porzioni di territorio nei paesi più poveri non è un fenomeno recente e lo sfruttamento agricolo, basato su monocolture da esportazione, ha segnato la lunga stagione dello sviluppo. L’introduzione di colture originariamente non presenti nei diversi territori (es. arachide del Senegal, palma da olio del sud-est dell’Asia, o soia in America Latina) ha trasformato molti sistemi produttivi, con gravi conseguenze sociali. Oggi assistiamo alle lotte per una riforma agraria che redistribuisca ai piccoli contadini le risorse fondiarie concentrate nelle mani di pochi proprietari (latifondisti locali). Sono forme di rivendicazioni in posizione di maggiore debolezza quando la terra sottratta si trova nelle mani di compagnie transnazionali, spesso protette da accordi tra gli stessi Stati. Il rispetto soprattutto dei diritti dei popoli indigeni è uno dei pochi baluardi all’avanzata inarrestabile dell’agribusiness (insieme di attività di produzione agricola, trasformazione industriale, distribuzione e consumo di prodotti alimentari), un modello di sfruttamento e di concentrazione della proprietà della terra anche su risorse naturali patrimonio di tutta l’umanità.
La subdola prepotenza
dei più forti
Negli ultimi anni il fenomeno dell’accaparramento della terra viene paradossalmente promosso come portatore di sviluppo e di modernità, mentre in molti casi rappresenta un pericolo per le popolazioni, negando loro la possibilità di decidere modelli di produzione e lo stesso insediamento nel territorio. Le popolazioni pastorali e agropastorali, le popolazioni indigene, i cosiddetti “senza terra” sono coloro che con difficoltà possono disporre di un titolo fondiario, oppure l’hanno perduto, e sono condannati a subire la prepotenza del più forte. Così si evidenziano nuove dinamiche: a) l’acquisizione di risorse fondiarie destinate alle coltivazioni per la produzione di agrocombustibili (es. mais per alimentazione animale o per produzione di bioetanolo da usare in miscela per carburanti): questo è il frutto paradossale dell’aumento dei prezzi dei combustibili e della propaganda mirata che presenta uno sviluppo più “verde” con sfruttamento delle risorse agro-geologiche come modo efficace per l’uso di terreni altrimenti improduttivi; b) la produzione di cibo per fare fronte a necessità interne di Paesi dove c’è una difficoltà nell’approvvigionamento alimentare: una vera e propria forma di ‘esternalizzazione’ della produzione alimentare (vedi Cina, India, Arabia Saudita e altri della regione del Golfo Persico); c) l’uso delle risorse fondiarie come investimento speculativo, ad opera di grandi investitori internazionali, a partire dall’esplosione della bolla speculativa sui prodotti alimentari nel 2007. Elemento trainante della crisi alimentare è stato l’aumento della richiesta di cereali da parte di “economie emergenti”, come Cina e India. Unita all’aumento demografico, la crisi alimentare ha prodotto enorme difficoltà nel soddisfare la popolazione per quanto riguarda i beni primari. In seguito, anche l’aumento del prezzo del petrolio ha avuto come conseguenza l’aumento dei costi di produzione, interessandosi maggiormente ai biocarburanti la cui materia prima di produzione viene da alimenti come cereali e soia. La terra appare davvero un bene materiale versatile: al momento dello scoppio della bolla dei mutui subprime negli USA, gli investitori di tutto il mondo hanno ritirato i loro capitali dal settore immobiliare, indirizzandoli in versanti più sicuri, come petrolio, oro, terreni e quindi anche in alimenti primari come i cereali.
La lotta contro
il Land Grab
Dal 2008, molti gruppi della società civile e le reti transnazionali hanno richiamato l’attenzione sulla nascita di nuovi conflitti provocati da specifici investimenti agro-transnazionali, che investono il tema della scarsità di risorse e del loro utilizzo. Queste forme d’investimento hanno come strategia essenziale l’acquisizione di vaste aree di terreno, anche poggiandosi su una dubbia base giuridica etichettata Land Grab. La ripartizione in percentuale per continente dei contratti di acquisizione della terra su larga scala assegna il primato all’Africa (51%), seguono le Americhe col 16%, l’Asia oltre il 13%, l’Europa circa il 12%, l’Oceania vicina all’8% (dati Land Matrix solo per contratti transnazionali conclusi e operativi). Gli investitori sono i privati e anche gli Stati, ma anche i fondi d’investimento europei e americani sono particolarmente attivi.
Siamo di fronte a un fenomeno globale costituito da flussi veloci d’investimenti in beni agricoli mediante i quali vengono spostate ampie strutture di potere. Gli investitori promettono la creazione di nuovi lavori, l’importazione di strutture tecnologiche all’avanguardia, prospettando un aumento di profitti per i cosiddetti “Paesi target”: nella realtà siamo di fronte a una “nuova forma di colonialismo”, che nella maggior parte dei casi si disinteressa del contesto dove si va a operare, provocando deforestazioni o impoverimenti dei suoli coltivabili, attraverso uso di monocolture ed espropriazione di terre appartenenti a comunità che vivono lì da secoli e che sopravvivono grazie ad essa. I contratti trasparenti sono solo la parte emersa dell’iceberg. L’Oxfam (confederazione internazionale di organizzazioni non profit) ha stimato in più di 2mln di chilometri quadrati le terre sottratte, di cui i due terzi in Africa.
Anche in Europa crescono fenomeni simili: per esempio un gruppo di deputati tedeschi ha denunciato le trattative per la cessione di vaste aree del territorio ucraino, condotte all’ombra della guerra e che coinvolgono multinazionali del cibo transgenico (Monsanto). Secondo l’osservatorio Farmlandgrab, 17mln di ettari in Ucraina sono già controllati da imprese straniere, più della metà del territorio coltivabile. Proprio in Ucraina, nel 2013, l’agenzia governativa cinese XPCC ha ottenuto un leasing di 50 anni su 3mln di ettari: probabilmente il più grande caso di “landgrab” registrato. Sono grandi transazioni che decidono sul destino di intere popolazioni, a loro insaputa.
Deforestazione:
emergenza silenziosa
A questo punto, si può affermare che il landgrabbing rischia di avere un impatto maggiore del cambiamento climatico sull’ambiente e sulla vita dei più poveri. Infatti, secondo un Rapporto di Land Coalition (enti della società civile e organizzazioni contadine), le aree coperte da foresta (e progressivamente deforestate) costituiscono un terzo delle cessioni di terreni.
Le foreste attualmente coprono circa il 30% della massa continentale del mondo (National Geographic), preservando l’80% della biodiversità della terra e accogliendo 300mln di persone tra cui circa 60mln di indigeni. Tra le foreste pluviali del pianeta, la più grande è quella tropicale dell’Amazzonia: 7mln di kmq con un’area boschiva di 5,5mln di kmq. Ad essa si aggiungono la foresta del Congo, la foresta Tongass a sud-est dell’Alaska e quella del Xishuangbanna in Cina. Esse offrono il 20% dell’ossigeno del pianeta; assorbono il CO2, prevenendo il surriscaldamento globale; favoriscono le piogge; offrono il 20% dell’acqua dolce del mondo, reintegrando le falde acquifere; bloccano vento ed erosione del suolo; forniscono alimenti e sono una riserva di medicine naturali e di risorse rinnovabili, attorno alle quali si creano posti di lavoro. Nonostante ciò, la loro preservazione non sembra un obiettivo prioritario per i responsabili politici mondiali. Eppure, secondo il Programma Onu sull’ambiente, ogni anno la terra perde almeno 7mln di ettari di foreste vergini (all’incirca l’area del Portogallo). In questo contesto, si stima che circa il 40% delle popolazioni in condizione di povertà estrema nelle aree rurali (250mln di persone) vivano in savane e zone forestali (circa 160mln in Africa, 85mln in Asia e 8mln in America Latina). Sono persone e comunità che si affidano alle foreste per trovare forme di sussistenza e un minimo di sicurezza alimentare (cf. The State of the World’s Forests, FAO 2018). Si stima anche che il comparto produttivo forestale fornisca tra i 40 e i 60mln di posti di lavoro attraverso settori quali l’agroforestazione, la valorizzazione lavorativa femminile, la gestione sostenibile delle risorse idriche, il turismo responsabile, la conservazione del territorio, la tutela della biodiversità. Il 33% della popolazione mondiale (circa 2,4mld di persone) utilizza il legno per cucinare, bollire l’acqua e riscaldare le proprie case. Nel mondo, 840mln di persone raccolgono legna e carbone per uso personale. Il legno procura oltre la metà delle forniture nazionali di energia primaria in 29 Paesi, di cui 22 nell’Africa subsahariana. Complessivamente, le foreste forniscono circa il 40% delle energie rinnovabili globali sotto forma di combustibile legnoso, tanto quanto l’energia solare, idroelettrica ed eolica combinate.
Da almeno trent’anni si discute di degrado ambientale e di deforestazione. Su tali questioni, oggetto di tanti vertici mondiali, prevale sempre la logica economicistica, con la dimensione finanziaria e speculativa che diventa la principale preoccupazione e priorità. Per la foresta amazzonica e gli altri grandi ‘biomi’ (complesso di comunità animali e vegetali) del mondo c’è una sfida strutturale e globale che ha bisogno d’interventi concreti e di attenzione costante di media, di attori internazionali e di opinione pubblica. In questo senso il Sinodo speciale sull’Amazzonia si presenta come l’occasione fondamentale per la Chiesa e per i credenti di schierarsi dalla parte dei più deboli e di avanzare proposte coraggiose e dirompenti a loro favore.
Mario Chiaro