Cozza Rino
Curate l'amicizia
2019/11, p. 24
Il patrimonio di sapienza della vita consacrata non può essere quello bloccato su un modello di società fuori del tempo. Ci è chiesto di umanizzare le nostre comunità, curare l’amicizia tra noi e che la comunità non sia un purgatorio, ma una famiglia.

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Testimoni
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Papa Francesco ai religiosi
CURATEL’AMICIZIA
Il patrimonio di sapienza della vita consacrata non può essere quello bloccato su un modello di società fuori del tempo. Ci è chiesto di umanizzare le nostre comunità, curare l’amicizia tra noi e che la comunità non sia un purgatorio, ma una famiglia».
In questo cambio d’epoca l’istituzione religiosa non ha saputo interpretare il grido di dignità a cui non è più in grado di dare una risposta pari al bisogno, perché non più capace di raccogliere le «attese identitarie» dell’attuale cultura.
Da qui l’urgente bisogno di «ricominciamento» per non finire a essere un tesoro nascosto sotto il grigiore di parole e di frasi fatte per altre stagioni culturali.
Ricominciare da dove? In questo ci è di aiuto ciò che papa Francesco va dicendo: «Ci è chiesto di umanizzare le nostre comunità, curare l’amicizia tra voi … e che la comunità non sia un purgatorio, ma sia una famiglia».
Mi soffermo a riflettere, per parti, su queste indicazioni, le quali vengono a dire che il patrimonio di sapienza della VC non può essere quello bloccato su un modello di società fuori del tempo e su un modello di atteggiamenti che non esprimono più un valore.
« … Umanizzate
le comunità …»
Questa espressione viene a dire che oggi non c’è nient’altro che tenga assieme al di fuori di forme comunitarie che siano nel contempo sacramento di umanizzazione. Per esserlo, la vita discepolare richiede una nuova forma di comunitarietà in cui sia possibile un umanesimo misurato su Cristo, innervato nei principi vitali della umanità, solidarietà, prossimità, amicizia.
Scrive il teologo L. Aróstequi: i consacrati/e «grazie alla vita comunitaria devono potersi sentire umanizzati e maturati nella loro personalità, nella loro capacità di giudizio, nella loro libertà di espressione e di azione, promossi nelle loro doti di iniziativa e di responsabilità». Tutto questo in risposta al desiderio di autenticità, di realizzazione, in fedeltà anche a se stessi cioè alla propria verità e al nome scritto da Dio in ognuno.
Oggi, anche nella VC, la domanda spirituale non è più soltanto di orientamento etico comportamentale, ma esprime il bisogno di rivelare se stessi, di non perdersi, di pacificazione e di senso. Una spiritualità dunque «più in sintonia con l’immagine autonoma e attiva della persona umana in quanto protagonista della propria storia». Di conseguenza il modello formativo dei consacrati/e «non può prescindere dal far interagire e dialogare tra loro le due componenti essenziali d’un cammino di crescita: la dimensione spirituale e umana».
« … vivete con sincerità
le amicizie … »
Sul piano della vita relazionale – dice ancora il Papa – l’umanizzazione dovrebbe portare anche «a vivere con sincerità le amicizie, che sono un reciproco custodirsi nella confidenza, nel rispetto e nel bene». Evidentemente non sono le amicizie di un club di mediocri in cui ci si chiude agli altri, ma quella che è un misto di fiducia, comunanza di interessi e di gusti, coincidenze di vedute, incremento del desiderio di solidarietà, di fraternità. Oggi nella vita religiosa non si sta assieme per farsi dei meriti o per rendere maggiormente produttivo il lavoro apostolico, ma per arrivare ad amare e sentirsi amati: questo esprime il bisogno di avere un significato per gli altri e viceversa rendersi conto che gli altri hanno un significato per me. È questo che fa vivere la fedeltà alla vocazione.
Soprattutto oggi il sapore della vita consacrata non passa da gente senza «sentimenti». Tutti gli ideali forti li richiedono. La svalutazione dell’ambito emozionale a favore di una ragione intesa univocamente in senso funzionale-razionale, può compromettere quell’equilibrio interiore che proviene dalla armonizzazione di tutto l’uomo, in tutte le sue dimensioni. Allora anche nella VC, come lo spirito si alimenta di ideali, la psiche si nutre di alimenti che chiamiamo «sentimenti», ambito un tempo diffidato a favore di una ragione intesa univocamente in senso funzionale-razionale. C’è in questo dire, l’affermazione che non è possibile la salute umana negando i sentimenti, respingendo la loro espressione, perché, costituzionalmente, siamo tutti mendicanti di un senso dell’umano.
Una certa vita religiosa diceva che «basta avere per amico Dio», ma per godere Dio bisogna anche aver affinato l’amicizia amando gli amici. S. Teresa affermava che l’amicizia non è semplicemente un fatto sentimentale ma molto di più: è un fatto rivelativo, un luogo teologico. Infatti “amico” è un nome di Dio e l’amicizia rivela qualcosa di Gesù di Nazareth il quale ha avuto amicizie profonde, da strappargli lacrime tenerissime, come nel caso di Lazzaro. Altre volte a rinfrancare il cuore e le forze di Gesù è l’amicizia di Maria e Marta di Betania, e delle varie donne fattesi discepole.
È anche la storia di s. Francesco – scrive E.Ronchi – il quale nel momento del congedo dalla vita convoca l’amicizia dicendo a Jacopa: “portami quei biscotti con i quali ti prendevi cura di me”. Non dei biscotti aveva desiderio Francesco ma della mano che li porgeva. Neppure della mano aveva bisogno, ma del cuore che guidava la mano.
Il dire di Gesù: «da ciò riconosceranno che siete miei discepoli se vi amate gli uni gli altri…» invita ad un amore plurale perché la ricchezza dell’esistenza è data dalla polifonia degli affetti (Bonhoeffer). Senza polifonia rimane la monotonia, noia del vivere.
In questo sta un tratto dell’identità del consacrato/a, nell’essere trasparenza esemplare di una persona che vale quanto vale il suo cuore, senza risvolti egoistici, senza pretese immature, capace di quell’amore e di quell’ amicizia che rende colma e bella la vita degli altri e la propria. E questo per affermare che l’amore di Dio non può essere espresso unicamente in termini teologici ma anche con le ragioni dell’umano.
« … Il monastero non sia
un purgatorio …»
La parola «purgatorio» rimanda a un luogo di espiazione, dunque di sofferenza. Da qui quell’ideale di salvezza cui tendere, dato nel passato dalla manifestazione più o meno radicale dell’immagine sacrificale che ha segnato la vita religiosa per molti secoli. Non stupisce allora che il giudizio di Nietzsche sui religiosi e preti sia stato detto così: «molti di loro hanno sofferto troppo, così da fare soffrire gli altri».
Oggi perché l’evangelismo non pulsi in forma attrattiva soltanto altrove, è necessario che l’idealità non sia posta nella «maxima poenitentia», ad esempio della «vita communis», ma in quel modo di essere che faccia intravedere l’evangelii gaudium di un insieme di persone che non sia del tutto virtuale.
Non paradisiaco, e dunque non desiderabile ai fini del ben-essere, è anche l’assetto istituzionale riconoscibile da vari termini di intonazione burocratico-gerarchica che rimandano a un apparato che facilmente pecca di centralismo e curialismo gerarchico. Nel XVI secolo, Filippo Neri, consapevole di ciò, volle che in riferimento alla sua famiglia oratoriana, «la vita comune fosse regolata in forma collegiale e democratica», e che in questa «i membri fossero tutti eguali e il preposito il primo tra gli eguali». Questo nasceva dal rendersi conto che non poche delle difficoltà comunionali possono essere date da un modello di comunità sbilanciato sul versante strutturale-gerarchico, secondo cui deve esserci un superiore (termine antievangelico) e nella piramide, uno «più» superiore dell’altro, logica che porta a che ci siano gli inferiori in posizione di «sudditi», termine ancora presente nell’attuale codice di diritto canonico (can.630 §4). Si proponeva così di ricombinare in modo creativo e responsabile il principio di fraternità, la quale per essere vera deve farsi carico di una fraternità non di sudditi, né di «figli» ma di uguali perché fratelli.
Siamo nella società contrapposta alla società della prima modernità in cui i ruoli e le classi sociali reggevano la persona. In ogni caso, oggi più di ieri, sia l’identità che l’unità di un gruppo, non sono dati da un elemento istituzionale, ma da un senso di appartenenza che passa attraverso i rapporti personali primari: è in questa pienezza di relazione anche umana che passa la salvezza dell’uomo storico.
L’attrattività della vita religiosa futura dipenderà da tutto ciò, sviluppato in nuove forme sociali rispettose di alcune caratteristiche della cultura post-moderna. Si tratta allora di rimettere l’accento sul primato delle relazioni tra i soggetti; di intraprendere percorsi innovativi di socialità nuova in luoghi e forme che siano comunità di senso ove sia possibile dare voce alle differenti forme di bisogno e domande di significato, per sperimentare nuove configurazioni di lavoro apostolico, di azione sociale e stili di vita, altri da quelli dati, che abbraccino la libertà dei singoli e la socialità.
« …ma sia una famiglia.»
All’interno del processo sopra indicato, la forma di modello comunionale che esprime visibilmente quanto detto e che agevola il convergere di comunità e comunione, è data dalla fraternità che è altra cosa di un insieme di persone che si configura come un semplice assemblaggio umano.
Dire fraternità è dire famiglia, l’unica capace di generare e rigenerare quella comunione che fa attenti al riconoscersi dai volti e non dai ruoli e dalle maschere. È la famiglia che orienta alla bellezza del vivere, a partire dal custodire la qualità dell’umano, in tutta la sua ricchezza, sensibilità, impulso vitale, desiderio, emozioni, bisogno di festa. Da qui l’urgenza di fraternità costruite sul paradigma relazionale della famiglia con parole e comportamenti tipici degli ambienti familiari, amicali, empatici, piuttosto che quelli modellati in profili sacro-formali oppure aziendali, tenendo conto inoltre che per le generazioni più giovani, se la comunità vuole essere famiglia non può riproporre quel modello in cui è norma «la dipendenza come valore indiscutibile e sacralizzato», questo non è il modello di famiglia delle nuove generazioni, per le quali c’è stato il passaggio ad una famiglia fondata sulla relazione e su patti di reciprocità.
Allora mai come oggi nella VC siamo pungolati a essere nuovi con il trovare nuove tracce di senso che ne rendano evidente la funzione di segno, di sale e di fermento, per il fatto che l’esperienza comunitaria di fede viene sempre più ricercata in «punti di cristallizzazione segnati da relazioni interpersonali e processi di riconoscimento affettivamente significativi e sempre meno nell’esperienza di vita religiosa». I modelli di fraternità che rispondono alla concezione della persona ripensata alla luce dell’attuale cultura sono quelli in cui tutti i membri, uguali agli altri nella dignità come nei diritti e nei doveri, sollecitano nell’altro le sorgenti della comunione a cui si arriva abilitandosi alle relazioni che nascono dall’incrociare sguardi, preoccupazioni, desideri, riflessioni.
Dunque la VC, per esserci nel futuro non ha che la scelta di ritornare a prendere sul serio il rivoluzionario ordinamento di vita della comunità proposto da Cristo, secondo cui, nel gruppo dei discepoli la relazione tra essi rifiuta in maniera categorica qualunque forma di superiorità, escludendo così nella vita della comunità ogni somiglianza, in maniera radicale, con il sistema di potere e di sottomissione in uso nella società, in fedeltà al tuttora disatteso mandato di Gesù: «tra voi non sia così».
In questo è riposto il futuro della VC; quel futuro che oggi non attende più.
Rino Cozza csj