Chiaro Mario
San Francesco e il Sultano
2019/11, p. 15
Nell’ultima edizione del Festival Francescano si è detto che “Attraverso parole” posso incontrare l’altro e che “attraverso parole” per incontrare l’altro. La testimonianza del gesuita p. Paolo Bizzeti, Vicario apostolico dell’Anatolia

Accedi alla tua area riservata per visualizzare i contenuti.

Questo contenuto è riservato agli abbonati a
Testimoni
.
Festival francescano
SAN FRANCESCO
E IL SULTANO
Nell’ultima edizione del Festival Francescano si è detto che “Attraverso parole” posso incontrare l’altro e che “attraverso parole” per incontrare l’altro. La testimonianza del gesuita p. Paolo Bizzeti, Vicario apostolico dell’Anatolia.
Nato nel 2009 per celebrare gli 800 anni dell’approvazione della prima regola di Francesco d’Assisi, l’undicesima edizione del Festival Francescano (“Attraverso parole” Bologna, 27-29 ottobre 2019), organizzato dal Movimento Francescano dell’Emilia Romagna, ha fatto riscoprire e attualizzare i valori del Santo Patrono d’Italia, nella convinzione che essi aiutano ad affrontare e a superare le tante crisi – di identità, politiche, di valori, ambientali – che caratterizzano la nostra quotidianità.
Parole piene di senso
e di responsabilità
Esattamente 800 anni fa, nella città di Damietta, posta sul delta del fiume Nilo, Francesco da Assisi, che dieci anni prima aveva istituito una forma di vita religiosa basata su povertà, carità e fraternità, si recò dal sultano al-Malik al-Kamil, nell’ambito della quinta crociata. Fu questo un esempio di come Francesco intendeva il dialogo, come avrebbe scritto due anni dopo: «I frati poi che vanno fra gli infedeli, possono comportarsi spiritualmente in mezzo a loro in due modi. Un modo è che non facciano liti o dispute, ma siano soggetti a ogni creatura umana per amore di Dio e confessino di essere cristiani. L'altro modo è che, quando vedranno che piace al Signore, annunzino la parola di Dio» (Regola non bollata c. 16).
I promotori dell’evento bolognese hanno anche voluto ripercorrere la traiettoria della parola “dialogo” nel vocabolario ecclesiale, a partire da papa Paolo VI, che la introdusse come neologismo nella lettera enciclica Ecclesiam Suam (1964). In seguito papa Giovanni Paolo II, il 27 ottobre 1986, esaltò la forza del dialogo, invitando proprio ad Assisi per la prima volta i rappresentanti di tutte le grandi religioni mondiali: in uno storico incontro inaugurò lo “Spirito di Assisi”. Su questo solco, si è mosso infine papa Francesco recandosi nella penisola arabica per affermare il coraggio dell’alterità, che comporta il riconoscimento dell’altro e della sua libertà, e il conseguente impegno a spendersi perché i suoi diritti fondamentali siano sempre affermati.
Ad Abu Dhabi, papa Francesco e il Grande Imam di Al-Azhar hanno firmato il Documento sulla Fratellanza Umana, nel quale si legge: «Il dialogo tra i credenti significa incontrarsi nell’enorme spazio dei valori spirituali, umani e sociali comuni, e investire ciò nella diffusione delle più alte virtù morali, sollecitate dalle religioni».
Nel Festival si sono svolti molti e disparati eventi per esplicitare che il dialogo non è fatto per convincere né per convertire, che non va confuso con la negoziazione o la ricerca di consenso, che è inscritto all’interno dell’esperienza di fede generata dall'incontro con l’Altro che, nella sua misericordia, ci viene a cercare. «Lontani dalle corride mediatiche alle quali siamo oramai purtroppo abituati e ancor di più dai “selfie monologhi” che imperversano sui social, la nostra manifestazione cercherà di essere una cornice adeguata per un confronto tra posizioni anche molto distanti tra loro, e che per dialogare arrivano a pagare prezzi anche molto alti. Per rendere nuovamente possibile l’incontro fra persone, occorre ritornare ad usare parole che siano cariche di senso e gravi di responsabilità. “Attraverso parole” posso incontrare l’altro e “attraverso parole” per incontrare l’altro» (Manifesto scientifico del Festival).
Le sfide del dialogo
in Medio Oriente
Incalzati anche dai recenti drammatici eventi sull’invasione militare della Siria settentrionale da parte della Turchia, ci sembra utile riportare alcuni aspetti della testimonianza sul dialogo dal punto di vista dell’attuale Vicario apostolico dell’Anatolia, il gesuita mons. Paolo Bizzeti, raccolta durante uno dei momenti del Festival dedicati all’incontro tra san Francesco e il Sultano. Mons.Bizzeti ha iniziato sottolineando l’etimologia della parola ‘dialogo’, dia-logos: se vogliamo dialogare occorre correre l’avventura del parlare, di dire una parola che attraversa uno spazio e stabilisce una relazione. «Quando parliamo di dialogo dobbiamo prima di tutto domandarci non cosa pensa l’altro o chi è l’altro, ma chi sono io. Penso che è impossibile dialogare senza avere una propria identità. Le difficoltà che noi oggi abbiamo nelle relazioni tra cristiani e musulmani dipendono dal fatto che molti cristiani non sanno bene chi sono, oppure appiccicano l’identità del cristiano a questioni assolutamente secondarie. Per cui c’è chi pensa che essere cristiano vuol dire appendere un crocifisso in una sala, avere un rosario in mano ecc. Se questi sono gli elementi che fanno l’identità cristiana, non c’è nessuna possibilità di dialogo con l’islam».
Occorre dirsi cosa vuol dire essere discepoli di Gesù Cristo, cosa significa cioè applicare a noi quel nome che ad Antiochia sull’Oronte nel I secolo la gente ha dato ai discepoli del Signore. Non sono stati infatti i cristiani ad autodefinirsi. Dunque, dirsi cristiani ci mette in riferimento con il vangelo di Gesù, con i tratti della sua persona che non possiamo inventarci, ma che dobbiamo scovare e contemplare nella lettura quotidiana della sua Parola. Così, prima di dialogare con l’altro, sarebbe bene che ciascun cristiano incominciasse a dialogare con il Cristo, il Messia!
Le lezioni
della storia
A questo punto, il Vicario dell’Anatolia ha affermato che «la storia ci consegna tutta una serie di paure, di problematiche, di prese di posizione che prima di tutto avvengono tra di noi e che poi noi proiettiamo sugli altri. Quando sento ancora dire, anche da persone colte, che il tracollo del cristianesimo in Medio Oriente è dovuto all’avanzata dell’islam nel VII secolo, rimango atterrito di fronte a tale ignoranza. Noi abbiamo alcune statistiche. Per esempio, nel XVI secolo Solimano il Magnifico fece un censimento degli abitanti dell’impero: oltre un quarto di questi abitanti era cristiano. Ancora agli inizi del 1900 un quarto degli abitanti della Turchia era cristiano. Anche dopo la seconda Guerra mondiale i cristiani erano più del 20%. Se oggi i cattolici in Turchia sono lo 0,02% dipende non dalle persecuzioni ma – è dimostrabile storicamente – dipende da accordi politici tra le grandi potenze europee e la nascente repubblica turca che hanno prodotto uno scambio di popolazioni».
Soggiace a tutta questa complessa realtà, sempre secondo mons. Bizzeti, il problema della verità e del voler determinare chi la possiede e chi non ce l’ha. «I cristiani sin dai primi secoli si sono divisi e io oggi lo sperimento in Turchia. Le varie confessioni cristiane sostanzialmente vivono tranquille e qualche volta si riesce a collaborare. Per un semplice motivo: siamo pochi, poveri e non contiamo niente! Ma quando eravamo forti, ricchi e potenti, abbiamo fatto la guerra. Non dobbiamo dimenticare che il patriarca di Costantinopoli chiese al cristianesimo occidentale di essere aiutato di fronte all’avanzata dei Turchi, ma a Roma si preferiva il turbante dei turchi alla tiara degli ortodossi. Questa è la verità! Una verità che affonda le sue radici sin dall’inizio del cristianesimo. E stando in Turchia mi rendo sempre meglio conto che Gesù Cristo alla fine ha fatto un’unica preghiera: che rimangano uniti! Perché ha capito che questo era il punto decisivo». Emerge il problema di fondo non chiarito: qual è il piano di Dio, qual è la volontà di Gesù Cristo? Quale tipo di Chiesa ha fondato? «Forse la chiamata alla salvezza, che è per tutti e che Dio sicuramente offre a tutti, l’abbiamo confusa con il diventare tutti come noi. E, possibilmente, non solo cristiani ma cattolici. Un anziano missionario cappuccino, al termine della sua vita, con candore confessava pubblicamente che era partito – con altri missionari dall’Italia in Turchia – pensando di andare a convertire i musulmani ma, accorgendosi che essi non si convertivano, ha cominciato a cercare di convertire gli ortodossi al cattolicesimo. Perché l’importante è riempire le chiese, le nostre istituzioni, le nostre liturgie. Noi abbiamo un problema non risolto sul potere! Abbiamo un problema sull’accettare che la Chiesa sia il granello di senape, il piccolo gregge, il lievito nella pasta».
Il dialogo
a caro prezzo
Padre Bizzeti ha concluso affermando che c’è, da una parte, un progetto tipo Babele circa il dialogo e, dall’altra parte, un progetto tipo Pentecoste. Il progetto babelico consiste nell’avere una sola lingua: grazie alla tecnologia oggi abbiamo quasi la possibilità di raggiungere quest’obiettivo. Il progetto demoniaco di Babele (letteralmente “la porta di Dio”) è insieme imperialistico e religioso: oggi prende le sembianze della globalizzazione scientificamente attuata, che però finisce per generare i nuovi nazionalismi. Anche i cristiani sono ammalati di questo sogno religioso societario (si sentono i migliori), ma anche del sogno illuministico di una verità che vale per tutti. «Noi in nome della vera religione, della vera civiltà siamo disponibili a dividerci, ad alzare muri, a interrompere il dialogo. Quando si arriva sul piano della vita concreta in mezzo alla gente in Turchia, ti accorgi che tutte le nostre belle definizioni e distinzioni esplodono… Il Signore è molto semplice: alla fine non guarderà ad appartenenze o a non appartenenze… ma ci chiederà se abbiamo compreso la sua vita così a fondo da comprendere che quell’uomo detenuto in galera ha il suo volto. Quando io vedo nel paese dove vivo che ci sono dei giornalisti, degli avvocati, dei magistrati, dei professori universitari che sono disponibili ad andare in galera, a perdere tutto quello che hanno, a rimetterci la vita, perché non vogliono venire a compromessi col potere, mi domando: ma chi è il vero martire? Io, che tutto sommato sono garantito… oppure quel musulmano o quell’agnostico o quell’ateo che per difendere la verità di un fatto è disponibile ad andare in galera? Chi è il vero martire, cioè il testimone della verità?... Vorrei che non si dimenticasse che la stragrande maggioranza delle persone uccise dall’Isis sono musulmani». Con papa Francesco siamo invitati a praticare il dialogo della vita e a ricordare che c’è un martirio che ci accomuna.
Mario Chiaro