Prezzi Lorenzo
La teologia india oggi
2019/11, p. 1
Per i popoli indigeni Dio si declina con «vita», è definito con termini che indicano «la fecondità del tempo», «la pioggia», «le nuvole» che fecondano la terra. Dio è anche la donna che partorisce.

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Testimoni
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Intervista a p. Eleazar al sinodo sull’Amazzonia
LA TEOLOGIA
INDIA OGGI
Per i popoli indigeni Dio si declina con «vita», è definito con termini che indicano «la fecondità del tempo», «la pioggia», «le nuvole» che fecondano la terra. Dio è anche la donna che partorisce.
Padre Eleazar López Hernández, di etnia Zapoteca (Stato di Ozxaca), è indicato come uno dei pochi teologi indigeni del Messico. Lui, che da molti anni lavora al riscatto della cultura india anche nella Chiesa, si definisce un «partero», un ostetrico della teologia india. Lo incontro in una pausa dei lavori del Sinodo dei vescovi sull’Amazzonia, al quale partecipa come esperto.
Padre Eleazar López Hernández, che cosa è oggi la teologia india?
Dobbiamo distinguere diversi momenti. Prima dell’arrivo degli europei non c’erano «interferenze», le popolazioni avevano rapporti tra di loro, ed erano capaci di costruire una civiltà ed una religione. In modo specifico esprimevano il loro rapporto con Dio, la natura e la vita. Era teologia, anche se non lo sapevano. Ma era così.
All’arrivo degli europei le religioni autoctone sono state duramente attaccate. Ma non sono scomparse, non è scomparso lo sforzo di amalgamare l’esperienza religiosa con la proposta cristiana. Da qui nasce la teologia india.
All’inizio c’è stato uno scontro, per definire o stabilire quale fosse il «vero Dio»: si accusavano i popoli indigeni di non conoscerlo. In seguito l’atteggiamento è cambiato, indirizzandosi verso un diverso rapporto con la proposta cristiana e anche qui attraverso varie fasi: giustapposizione, sovrapposizione, sostituzione, fino alla sintesi teologica. Il Dio indigeno, «teot», con i suoi diversi nomi, è il Dio cristiano.
Il primo testo cristiano che possediamo si chiama Nican Mopohua, o relazione dell’apparizione della Vergine di Guadalupe. Per gli indios non si tratta «soltanto» di Maria, per gli indigeni è la Madre Terra, Dio stesso nel suo volto materno. La Chiesa nel suo insieme ha tardato a comprenderlo, ma con Giovanni Paolo II abbiamo un Papa che parla della Vergine di Guadalupe nei termini di «volto materno di Dio». La Chiesa d’altro canto ha avuto difficoltà a incorporare la sapienza dei popoli nella teologia.
La teologia in Occidente è intesa come razionalizzazione, elaborazione intellettuale o concettuale di una ricerca appunto intellettuale. In questi decenni abbiamo lavorato molto per far capire che non c’è contraddizione. Dobbiamo mostrare chi è Dio per noi, senza la pretesa per questo di riuscire a dire l’ultima parola, ma incorporando la proposta cristiana nella nostra vita. Come si dice: quello che si riceve, lo si riceve secondo la capacità del recipiente – quidquid recipitur ad modum recipientis recipitur – e così si comportano i popoli indigeni. Il Vangelo di Gesù si riceve nella vita dei popoli indigeni. Il Vangelo di Gesù – Dio ci ama, ha un progetto nella storia e per ognuno di noi – il popolo lo comprende nella sua esperienza e nella sua storia: Dio è con noi, non è arrivato con gli europei; era con noi.
Negli ultimi cinquant’anni siamo andati avanti. Il Concilio, come i Padri della Chiesa, ha parlato dei «semi del Verbo» per indicare gli aspetti positivi delle diverse culture, ponendo la cultura cristiana in collegamento con le altre, nel dialogo.
Nel modo indigeno si fa attraverso le espressioni della religiosità popolare, vivendo la presenza di Dio con i simboli già presenti. Questa sintesi non è arrivata alla struttura della Chiesa per una mediazione. Fin dagli anni Sessanta abbiamo avuto vocazioni indigene al sacerdozio, alla vita consacrata, al diaconato. E noi primi a entrare in seminario ci siamo dovuti spogliare della nostra identità per poter far parte della Chiesa.
Dagli anni Settanta, dopo Medellin, la Chiesa si è aperta e allora abbiamo avviato un lavoro per riprendere l’identità indigena nella Chiesa. Abbiamo costituito un ponte, dal lato dell’istituzione, per estendere l’azione della Chiesa ai nostri popoli. All’inizio certamente c’era un clima di sfiducia, di attacco, con l’accusa di tornare al paganesimo. E tuttavia possiamo leggere le stesse Scritture, la stessa dottrina, gli stessi dogmi, dalla nostra prospettiva. E infine ora siamo in un momento nuovo: crediamo nello stesso Dio che ha creato la Terra, gli alimenti, ha un progetto sull’umanità. È lo stesso Dio, non un altro. Con questo Sinodo ci troviamo di fronte ad un enorme passo in avanti. Pensi al mio caso: sono stato segnalato per la verifica della mia ortodossia ed oggi mi trovo al Sinodo come invitato ufficiale. Abbiamo la possibilità di avviare un dialogo fruttuoso, comprendendo sempre meglio come il Dio dei nostri popoli sia lo stesso Dio Padre di Nostro Signore Gesù Cristo.
La prospettiva di dialogo che lei delinea, in che modo fa parte della formazione teologica del clero? È entrata nei seminari, oggi?
Ha ragione, sono i problemi che stiamo affrontando. Non è possibile un dialogo senza una formazione adeguata. I seminari servono per formare, per ascoltare, ricevere gli apporti delle popolazioni e delle società, trovare momenti di convergenza. I seminari devono cambiare e alcuni lo stanno già facendo perché la Chiesa deve conoscere la sapienza indigena. Sono decisamente convinto che ci impoveriamo, come umanità, se assumiamo una prospettiva unica, su un unico modello di sviluppo.
La prospettiva unica finora ci ha portato alla crisi che stiamo vivendo, alla distruzione della vita. I popoli indigeni hanno una sapienza capace di aiutare l’umanità nella crisi globale e di relazioni che stiamo attraversando. L’Europa, l’Occidente, è bravo ad elaborare teorie, ma serve la pratica ed è la sapienza che possiedono i popoli indigeni. Abbiamo anche una proposta per la teologia. Nel Sinodo la proposta è chiara: la formazione avvenga attraverso un atteggiamento di apertura e dialogo. La proposta cristiana può essere inclusiva; la Parola di Dio include tutti i popoli. Gesù, il Verbo, si è incarnato ed è una realtà che appartiene ai popoli indigeni. Pertanto serve un altro tipo di formazione.
Nel dibattito che avviene sui mass media si parla più spesso di temi molto specifici – celibato e viri probati, ad esempio – trascurando aspetti più sostanziali. La sua opinione?
Il tema del celibato sacerdotale è una forte tradizione della Chiesa. In Occidente il ministero sacerdotale è celibatario. Da noi abbiamo avuto l’esperienza formativa di un clero indigeno nel seminario di Santa Cruz; un’esperienza molto positiva, con una preparazione accurata dei candidati. Ma nessuno di loro venne ordinato perché si disse all’epoca che nessuno rispettava la castità. È possibile modificare la norma? È una disciplina, una esigenza canonica. E comunque come le dicevo quell’esperienza terminò.
Naturalmente la mia opinione è che comunque la motivazione per rifiutare le ordinazioni poteva essere di natura – come dire – pretestuosa. Nel senso che quei sacerdoti entravano – cambiandola – nell’esperienza coloniale, cambiavano la relazione coloniale. Si disse che i nostri sacerdoti non erano all’altezza ma non era vero allora come non è mai vero. È vero solo nell’idea dei «vincitori» secondo cui i «vinti» non possono stare al loro stesso livello di preparazione.
Oggi la situazione è cambiata. Siamo nella Chiesa ed insistiamo affinché si agisca considerando la maniera dei nostri popoli. Nel dibattito sui viri probati, inoltre, dobbiamo tenere presente che la persona sposata guarda alla realtà in un altro modo, secondo un altro approccio, come insegna l’esperienza dei diaconi indigeni, quasi tutti sposati. E la comunità riconosce la loro piena integrazione. Dunque la Chiesa può modificare la regola canonica che lei stessa si è data? Eccezioni le abbiamo: gli anglicani rientrati nel cattolicesimo, il clero cattolico di rito orientale, dunque casi specifici per specifiche regioni o situazioni, fattibili seguendo analisi di casi speciali. La reazione vivace viene dai settori conservatori perché si pensa che l’esercizio della sessualità sia contraria a Dio. Davvero si può pensare così? La sessualità trasmette la vita, il matrimonio è un sacramento! Dunque a mio avviso serve dialogo, unito ad una visione adeguata a situazioni concrete, per un’analisi accurata dei diversi aspetti in campo.
Lei parla di vita, della sapienza delle popolazioni indigene, di uno sguardo e una visione capace di intervenire nella crisi mondiale (modello di sviluppo, sfruttamento dell’ambiente…). Papa Francesco parla in proposito di bioetica globale, intendendo l’interesse della Chiesa verso le problematiche ambientali e di tutte le fasi della vita delle persone. Qual è un approccio possibile a partire dalla riflessione dei popoli indigeni dell’America Centrale e Latina?
Per i popoli indigeni Dio si declina con «vita». Dio è definito con termini che indicano «la fecondità del tempo», «la pioggia», «le nuvole» che fecondano la terra. Dio è anche la donna che partorisce, Dio è matrice di vita, genera costantemente la vita. Ogni donna nella sapienza indigena rappresenta Dio che porta la vita. Dio è rappresentato con le parole «vento» e «immenso» e nella rappresentazione dei popoli indigeni l’universo è una realtà di vita. Nella lingua zapoteca Dio è «datore di vita» e Gesù stesso come sappiamo dice di essere venuto perché si abbia la vita e il Regno è promessa di vita e giustizia, di pace. In Occidente si parla di ecologia, un termine nuovo nel linguaggio occidentale, antico per gli indigeni: la nostra presenza deve contribuire alla vita del pianeta. L’esperienza indigena è molto profonda nella difesa della vita umana e dell’ambiente.
Fabrizio Mastrofini