Buccellato Giuseppe
La sfida: vino nuovo in otri vecchi
2019/10, p. 40
Forse la sfida è proprio questa: abbandonare l’illusione che davvero si possa rifondare la vita religiosa, e convivere con molto amore con una dolce nostalgia dei tempi che furono, senza illudersi che tutto possa cambiare dall’oggi al domani.

Accedi alla tua area riservata per visualizzare i contenuti.

Questo contenuto è riservato agli abbonati a
Testimoni
.
Beata debolezza
LA SFIDA: VINO NUOVOIN OTRI VECCHI
Forse la sfida è proprio questa: abbandonare l’illusione che davvero si possa rifondare la vita religiosa, e convivere con molto amore con una dolce nostalgia dei tempi che furono, senza illudersi che tutto possa cambiare dall’oggi al domani.
«Egli mi ha detto: “Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza”. Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie debolezze, negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: infatti quando sono debole, è allora che sono forte» (2Cor 12,9-10).
«Grazie Signore perché scegli ciò che è debole per confondere i forti, ciò che è stolto per confondere i sapienti, ciò che è niente per ridurre al niente le cose che sono. Grazie perché, in un mondo dove bisogna essere sempre competitivi, nascondere ogni fragilità, la tua Parola ci ricorda che proprio la nostra debolezza è la nostra forza. Questa umile profezia è quella che le nostre povere spalle possono reggere ed è una profezia comprensibile e sostenibile per tutti. Se Dio ha scelto noi come profeti, come potrà non amare gli altri?» (p. Luigi Gaetani, Cism).
È un dato di fatto la constatazione che da alcuni decenni nelle riviste specializzate e nelle monografie sulla vita religiosa si è parlato sempre più spesso della necessità di una nuova pentecoste nella vita religiosa.
«Sembra che il rinnovamento iniziato con il Concilio Vaticano II – sottolineava più di vent’anni or sono un intervento dell’Unione dei Superiori Maggiori – continui ad essere un’alba eccessivamente lunga; non riesce mai a spuntare il giorno. Si intuiscono molte cose, ma le tenebre impediscono ancora di vedere il loro profilo». Osserva a questo proposito Gerald Arbuckle: «Alla stregua di ammalati ci siamo sottoposti a una “dieta” di capitoli e programmi di rinnovamento, di indagini sociologiche… nondimeno continuiamo a peggiorare» .
L’istanza di trasformare la crisi attuale in un tempo di grazia e di rinascita viene sottolineata, con diverse prospettive e accentuazioni; proviamo a illustrarle con cinque sostantivi che iniziano tutti con la “R”...
- R come Rinnovamento. Qualcuno si limita a parlare della necessità di un rinnovamento della vita religiosa, della necessità di individuare alcuni elementi per favorire una ripresa, una ri-acquisizione della loro particolare identità da parte delle diverse famiglie religiose.
- R come Rifondazione. Altri autori preferiscono parlare, in modo più radicale, della necessità di una vera e propria rifondazione della vita religiosa. L’uso di questa espressione ha origine nel Nuovo mondo. «In America – osserva Fabio Ciardi – quando un edificio è vecchio … lo si abbatte senza rimpianti e se ne costruisce uno nuovo. Se l’edificio abbattuto aveva un qualche interesse storico lo si ricostruisce di sana pianta. Ecco perché, secondo certi nordamericani, anche la vita religiosa più che restaurata, rinnovata, aggiornata, va radicalmente rifondata, ossia ricostruita dalle fondamenta, dopo averla abbattuta».
- R come Riforma. Per altri un autentico rinnovamento deve passare, inevitabilmente, da una rottura con i vecchi modelli. Si rendono pertanto necessarie delle, se pur dolorose, riforme. Parecchi nuovi ordini e congregazioni hanno avuto origine dal desiderio di un piccolo gruppo di religiosi di ritornare al carisma del fondatore in modo più autentico e radicale; è quello che è accaduto più volte nella storia dei francescani e di molte altre famiglie religiose.
-R come Rievangelizzazione. In modo ancora più estremo si sente anche, a volte, sottolineare la necessità di una rievangelizzazione della vita religiosa. Ha scritto, ad esempio, il Rettor Maggiore dei Salesiani don Pascual Chávez nella lettera Sei tu il mio Dio, fuori di te non ho alcun bene del 2012: «La vera sfida attuale della vita consacrata è quella di restituire Cristo alla vita religiosa e la vita religiosa a Cristo, senza darlo per assicurato».
-R come Riformattazione. È una felice espressione utilizzata da Fratel MichaelDavide nel suo interessantissimo volume dal titolo Non perfetti ma felici. Per una profezia sostenibile della vita consacrata.
«Sarebbe veramente stolto – scrive il monaco benedettino – davanti a un computer che non risponde ai comandi buttarlo, per andare a comprarne un altro, prima di essersi chiesti se non basterebbe riformattarlo piuttosto che buttarlo e ricomprarlo. Per uscire dalla parabola, è necessario rendersi conto che qualcosa rischia di essersi inceppato nel normale funzionamento della vita consacrata, ma questo non significa che debba essere “buttata”, ma semplicemente riformattata per poter ricominciare a funzionare al meglio. Ci sono dei «malfunzionamenti», o dei malware spirituali, o problemi al software che hanno bisogno di un ripristino. Un’operazione che esige un momento di sospensione radicale che richiede l’archiviazione dei dati già acquisiti in un file a parte, per poterli poi rimettere in circuito, facendoli funzionare in modo sicuro e persino migliorato, sicuramente più adeguato»
In sostanza si tratta di introdurre un nuovo sistema operativo, senza rinunciare ai files faticosamente acquisiti negli anni, evitando il rischio di vecchie contaminazioni, ma senza rinunziare, per inserire i nuovi dati, a continuare ad utilizzare il buon vecchio computer, a cui siamo affezionati, pur conoscendone i limiti.
Questo mi pare richieda quel pizzico di santa ostinazione che ci spinge, quasi in contrasto con la nota metafora evangelica, a continuare a mettere vino nuovo in otri vecchi…
Il vecchio
è gradevole…
«Nessuno versa vino nuovo in otri vecchi; altrimenti il vino nuovo spaccherà gli otri, si spanderà e gli otri andranno perduti. Il vino nuovo bisogna versarlo in otri nuovi. Nessuno poi che beve il vino vecchio desidera il nuovo, perché dice: «Il vecchio è gradevole!» (Lc 5,37-39).
Per molti esegeti è chiaro che gli interlocutori di Gesù non erano disposti al cambiamento, a bere il vino nuovo; dunque “si rifugiano” nel dolce sapore del vino vecchio, si aggrappano alle loro tradizioni, non vogliono cambiare.
Ciononostante mi sembra che il dato sia innegabile: il vino vecchio è più buono! «Voi avete – scriveva Giovanni Paolo II nella esortazione Vita consecrata – una gloriosa storia da ricordare e da raccontare». «Raccontare la propria storia – ha ribadito papa Francesco nella lettera apostolica inviata nel 2014, in occasione dell’anno della vita consacrata – è indispensabile per tenere viva l’identità, così come per rinsaldare l’unità della famiglia e il senso di appartenenza dei suoi membri. Non si tratta di fare dell’archeologia o di coltivare inutili nostalgie, quanto piuttosto di ripercorrere il cammino delle generazioni passate per cogliere in esso la scintilla ispiratrice, le idealità, i progetti, i valori che le hanno mosse, a iniziare dai Fondatori, dalle Fondatrici e dalle prime comunità».
Forse la sfida è proprio questa: abbandonare l’illusione che davvero si possa rifondare la vita religiosa, e convivere con molto amore con una dolce nostalgia dei tempi che furono, senza illudersi che tutto possa cambiare dall’oggi al domani. Del resto, senza presunzione, dobbiamo constatare che ci sono carismi che rischiano l’accanimento terapeutico, nel desiderio di tenerli in vita a tutti i costi, mentre ce ne sono altri che non hanno bisogno di rianimazione, che sono vivi e vegeti, che rispondono ottimamente anche alle mutate caratteristiche di questa nostra particolarità postmoderna. È un buon punto di partenza ed una buona ragione per non disperare…
La speranza è che il vino nuovo che cerchiamo di introdurre non sia tanto annacquato da non mettere per nulla in crisi la resistenza degli otri. La crisi ci vuole. «Tutto il mondo, in questo momento, è in un tempo di crisi – sono parole di papa Francesco–. E la crisi, la crisi non è una cosa brutta. È vero che la crisi ci fa soffrire, ma dobbiamo, dobbiamo saper leggere la crisi. Questa crisi, cosa significa? Che cosa devo fare io per aiutare a uscire dalla crisi?».
Questo atteggiamento è positivo, nella misura in cui mi aiuta a ripetermi che è Dio il Signore della storia, che non devo sentire le mie incoerenze come responsabile della crisi della vita religiosa, ma che posso imparare ad operare positivamente nella giusta direzione. «Perché questa riformattazione possa compiersi – scrive ancora Fratel MichaelDavide – è necessario superare quel sottile complesso di colpa che amareggia troppo spesso il cuore dei consacrati che si sentono come responsabili di questa interruzione di continuità, spesso non dovuta, se non in minima parte, alla loro responsabilità».
Ci vuole coraggio, il coraggio di imparare a convivere con questo senso di precarietà, di ritornare a dipendere da quanto è più forte di noi. È un nuovo stato di grazia, è il tempo della Fede; già, perché l‘uomo nella prosperità non comprende (cf. Sal 48,8), mentre il lasciare spazio a questa spiritualità della diminuzione, senza perdere la speranza, feconda la convinzione che la nostra storia non è nostra, ma appartiene a Dio. Continueremo ad esistere, se questo è nei suoi progetti…
Non siamo
migliori
Il primo malware da controllare, per evitare una improduttiva riformattazione del vecchio personal computer, è quello della presunzione di essere migliori.
Una chiave di lettura in vista di una più illuminata teologia della vita consacrata può essere fatta a partire da quello che i documenti del magistero…non dicono più.
È sufficiente scorrere la lettera apostolica indirizzata da Francesco ai consacrati nel 2014 per rendersi conto che sono scomparse praticamente tutte le espressioni che per secoli sono state adoperate per descrivere la vita consacrata: consigli evangelici, stato di perfezione, speciale consacrazione, seguire Dio più da vicino… Ciascuna di queste espressioni contiene una minaccia per la nostra integrità spirituale. La dottrina delle due vie, in particolare, fondata su una scadente esegesi del si vis («Se vuoi essere perfetto…») di Mt 16,21, ha spaccato in due la nostra ecclesiologia per secoli.
Scriveva con stringente chiarezza san Giovanni Crisostomo nel secolo IV: «È un errore grossolano credere che altro si richieda da colui che vive nel mondo e altro dal monaco. La differenza tra di loro consiste nel fatto che il primo è sposato e il secondo no. Per tutto il resto essi sono sottoposti ad obblighi comuni… Tutti devono elevarsi alla medesima altezza. È stato un errore funesto credere che soltanto il monaco sia tenuto ad una più grande perfezione».
Qualcuno, nel corso dei secoli, si è spinto più oltre, cercando di dimostrare che non solo la vita religiosa, e in particolare i tre voti, non dischiudono un cammino di perfezione, ma che il progetto di vita dei religiosi contiene in sé qualcosa di anti-evangelico. Tra i tanti potremmo citare Martin Lutero, che, ad un certo momento della sua vita, nel suo De votis monasticis, iniziò a scagliarsi con violenza contro «la menzogna e l’inganno» della vita religiosa.
«Il Vangelo – afferma ad esempio Lutero a proposito del voto di obbedienza – ordina di cedere, di sottomettersi, di obbedire a tutti. Invece questa gente che professa i consigli non si sottomette né ai propri uguali né a coloro che le sono inferiori, ma unicamente al proprio superiore; non in tutto, ma solo in certe cose… Di che cosa fa dunque voto un monaco? Se ne cogli il senso lo puoi esprimere come segue: “Mio Dio, per mezzo di questo voto io mi impegno verso di te a non voler essere sottomesso a tutti, come vuole il tuo vangelo, ma soltanto al mio superiore e per di più solo in conformità alla regola prescritta”. Essi, così, professando l’obbedienza negano l’obbedienza».
La stessa scandalizzata severità Lutero esprime anche a riguardo della povertà. A tutti e non soltanto a pochi, infatti, è prescritto, e non soltanto consigliato, «di conservare lo spirito libero nel nostro commercio con le cose, di servirsi di queste ultime e di dominarle, di non diventare loro schiavi, di non attaccare loro il proprio cuore, di non confidare e di non mettere la propria gloria nelle ricchezze».
La radicalità evangelica, dunque, è di ogni autentico discepolo, e non una prerogativa di pochi eletti… Per ricomprendere l’identità della vita religiosa bisogna accettare la fatica di cercare in un’altra direzione.
Da una radicalità ostentata
a una profezia sofferta
Scrive ancora Fratel MichaelDavide: «Il cambiamento e la conversione, che vengono richiesti ai consacrati del nostro tempo per essere fedeli all’eternità di Dio e al claudicante cammino della storia, è la rinuncia a una radicalità ostentata, per vivere – patire sarebbe il verbo più adeguato – una profezia sofferta come quella di Elia, di Geremia, di Osea... del Battista fino a Gesù di Nazaret».
Si tratta, in sostanza, di rinunziare ad una pretesa superiorità morale, condita di una certa dose di narcisismo, per accogliere la debolezza, il fallimento, per assumere serenamente la propria povertà e imparare a costruire a partire da questa: a livello personale, ma anche nel nostro modo di considerare la realtà delle nostre congregazioni.
Nel volume Il coraggio di avere paura l’autore, il domenicano Marie Dominique Molinié, ha una singolare intuizione. Volendo descrivere le tappe della vita spirituale, p. Molinié delinea tre diverse figure o livelli di crescita: il giusto, il peccatore, il bambino. Attenzione: proprio in quest’ordine!
«All'ultimo posto – scrive – ci sono coloro che vanno chiamati giusti. Essi accolgono la Parola, ma non hanno radici perché non hanno l'intensa consapevolezza di aver bisogno di una misericordia infinita: contano sulla misericordia e sulla loro giustizia. A costoro verrà dato uno strapuntino nel Regno dei Cieli.
Un gradino sopra troviamo i peccatori. La loro superiorità consiste appunto nella coscienza che hanno bisogno di essere perdonati: sono appesi alla misericordia. Per questo sono accolti molto meglio dei giusti, vedi la Maddalena, il buon ladrone, il figliol prodigo... (cf Lc 8, 2; 23, 39-43; 15, 11-32).
Questo ci conduce al vertice dell'aristocrazia del cielo: i peccatori avranno una poltrona in platea, ma i bambini saranno nel palco reale, seguiranno l'Agnello ovunque vada e canteranno un cantico che nessuno può cantare (cf. Ap 14, 34) […]. Nel giorno del giudizio, Egli darà appena un'occhiata a tutto ciò che ci affligge e ci inquieta nella nostra vita: è miseria, e la miseria è fatta per la Misericordia come il grano per il mulino. Il segreto del Vangelo è dunque l’aristocrazia dei piccoli e dei peccatori».
Le considerazioni del padre domenicano sembrano paradossali. Mentre siamo stati sempre inclini a pensare il cammino spirituale nella sequenza bambino, peccatore, giusto, dopo i primi necessari entusiasmi, dobbiamo imparare a scoprire che la sequenza è capovolta: giusto, peccatore, bambino. È l’esperienza di Pietro, che soltanto grazie al suo fallimento e al suo rinnegamento della salvezza, è pronto a diventare una pietra su cui la fede dei fratelli può poggiarsi. Quel perdono è una grazia impagabile!
Scrive a questo proposito Fratel MichaelDavide: «Non siamo né migliori né peggiori dei nostri padri, ma cerchiamo di stare al nostro posto come sentinelle di un’aurora che viene comunque, anche quando la notte sembra più lunga del solito. Se si entra in questa logica si sarà più liberi da ansie di prestazione spirituali e meno vittime di angosce pastorali: più “bambini” secondo il vangelo e meno leoni».
La persona, così, sperimenta con gratitudine uno spazio libero per Dio, nato dalla lotta al proprio egocentrismo e dalla liberazione progressiva dai suoi sogni di perfezionismo. Quella povertà, prima sofferta e combattuta, è ora scoperta ricca di senso e viene integrata nella propria vita: come affermava parecchi anni or sono il gesuita Michel Rondet, la santità desiderata diventa allora una povertà offerta.
Rilassiamoci: la profezia non siamo noi! Il Papa lo ha ricordato, qualche tempo fa, ai vescovi dell’Asia:
«Gesù ha lottato tanto con questa gente che si nascondeva dietro le leggi, i regolamenti, le risposte facili... Li ha chiamati ipocriti. La fede per sua natura non è centrata su se stessa, la fede tende ad “andare fuori”. Cerca di farsi comprendere, fa nascere la testimonianza, genera la missione. In questo senso, la fede ci rende capaci di essere al tempo stesso coraggiosi e umili nella nostra testimonianza di speranza e di amore. San Pietro ci dice che dobbiamo essere sempre pronti a rispondere a chiunque ci domandi ragione della speranza che è in noi (cf. 1Pt 3,15). La nostra identità di cristiani consiste in definitiva nell’impegno di adorare Dio solo e di amarci gli uni gli altri, di essere al servizio gli uni degli altri e di mostrare attraverso il nostro esempio non solo in che cosa crediamo, ma anche in che cosa speriamo e chi è Colui nel quale abbiamo posto la nostra fiducia (cf. 2Tm 1,12)».
Scrive Luigi Maria Epicoco nel suo Solo i malati guariscono: «Per noi le cadute sono tragedie, per i bambini sono tentativi. Noi costruiamo fiumi di ragionamenti, i bambini non perdono di vista la cosa più semplice, che è rialzarsi […]. Forse ci farà male ammetterlo ma queste esperienze di delusione, di dolore, di ritorno non solo ci feriscono, ma ci rendono anche e soprattutto autentici. L’autenticità è ciò che rimane di te quando hai perduto tutto».
Una santità
più umana
Il compito che oggi ci aspetta, dunque, è quello di continuare a scommettere sulla nostra povertà e, ciononostante, sulla possibilità di continuare ad essere decisivi per la vita delle persone che ci sono state affidate. È perché siamo malati continuamente guariti che siamo in grado di contemplare, comprendere e curare con tenerezza le ferite degli altri. «Spesso questo lavoro – si legge in Per vino nuovo otri nuovi – coincide con quella classica seconda conversione, che si impone in momenti decisivi della vita, come l’età di mezzo, una situazione di crisi o anche il ritiro dalla vita attiva, per malattia o anzianità».
Ha scritto efficacemente Padre Mauriello, nella lettera di presentazione dell’Anno Vocazionale Camilliano che si è appena concluso: «Siamo chiamati ad essere segno di fraternità stando insieme non a partire da ciò che ci unisce e ci rende uguali, ma mostrando che il Vangelo ci permette di stare insieme, di sopportarci e persino di apprezzarci a partire dalle nostre distanze. Che profezia sarebbe oggi quella che segnalasse la comunione del paradiso terrestre? È invece profezia poter dire che ci è concesso di vivere insieme da differenti. Siamo chiamati a quel servizio della carità che consiste nel toglierci i calzari di fronte all’unico terreno sacro che esiste, l’uomo, in particolare l’uomo ferito, sofferente, emarginato, colpito e derubato come l’uomo che scendeva da Gerusalemme a Gerico. Possiamo dire, con franchezza, sull’esempio del nostro padre Fondatore, sempre in ginocchio davanti a Dio e sempre in ginocchio davanti all’uomo: ecco a cosa siamo chiamati. Non preghiamo per diventare più pii o più Religiosi, ma semplicemente più umani».
Non ci sfugga la forza trasformante di questi due obiettivi:
- imparare a vivere insieme da differenti;
- imparare a desiderare una santità più umana…
Quello che ci viene chiesto non è di essere perfetti o di diventare dei modelli, ma soltanto di essere dei poveri rasserenati o dei peccatori perdonati, capaci, questo sì, di solidarietà con quanti incrociano la nostra strada. Non dobbiamo mostrare agli altri quello che siamo, ma, semmai, quello in cui crediamo e non dobbiamo nemmeno essere degli uomini guariti per incominciare ad essere dei buoni guaritori.
Basterebbe, forse, imparare ad essere autentici, sapere perché (o per chi…) facciamo veramente le cose che diciamo di fare per Dio, invocare da Lui quella verità su noi stessi che può renderci finalmente liberi e felici: non perfetti, ma felici!
Credo sia questa la seconda conversione, che può fare ripartire noi e le nostre vecchie istituzioni; credo sia questo il vino nuovo che possa essere riversato nei nostri cari otri vecchi. Senza il pericolo che, rovinosamente, si spacchino…
Epilogo
“Lo so. È tutto sbagliato. Noi non dovremmo nemmeno essere qui. Ma ci siamo. È come nelle grandi storie, padron Frodo.
Quelle che contano davvero. Erano piene di oscurità e pericoli, e a volte non volevi sapere il finale. Perché come poteva esserci un finale allegro? Come poteva il mondo tornare com’era dopo che erano successe tante cose brutte?
Ma alla fine è solo una cosa passeggera, quest’ombra. Anche l’oscurità deve passare. Arriverà un nuovo giorno.
E quando il sole splenderà, sarà ancora più luminoso.
Quelle erano le storie che ti restavano dentro, che significavano qualcosa, anche se eri troppo piccolo per capire il perché.
Ma credo, padron Frodo, di capire, ora. Adesso so.
Le persone di quelle storie avevano molte occasioni di tornare indietro e non l’hanno fatto.
Andavano avanti, perché loro erano aggrappate a qualcosa.
“Noi a cosa siamo aggrappati, Sam?”
“C’è del buono in questo mondo, padron Frodo.
È giusto combattere per questo…”
Giuseppe Buccellato SDB