Cavallari Giordano
Nel cuore dell'Amazzonia
2019/10, p. 35
Padre Corrado Dalmonego è giunto per la prima volta in Amazzonia nel 2002, da seminarista. Dopo aver concluso la teologia, è ritornato nella stessa missione presso il popolo Yanomani

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Testimoni
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Intervista a p. Corrado Dalmonego della Consolata
NEL CUORE
DELL’AMAZZONIA
Padre Corrado Dalmonego è giunto per la prima volta in Amazzonia nel 2002, da seminarista. Dopo aver concluso la teologia, è ritornato nella stessa missione presso il popolo Yanomani.
Caro padre Corrado puoi dire qual è la tua missione nella foresta?
Da circa 12 anni sono membro dell’equipe missionaria che è impegnata, in nome della diocesi di Roraima, accanto al popolo Yanomami, un popolo indigeno che abita un ampio territorio sulla frontiera del Brasile col Venezuela. A partire dalla nostra presenza alla missione di Catrimani, conviviamo con le comunità e lavoriamo in accordo con i leader indigeni. Le azioni che noi, missionari e missionarie della Chiesa Cattolica, svolgiamo, possono essere riassunte come segue.
C’è una azione culturale di valorizzazione delle lingue, delle tradizioni e delle conoscenze del popolo, di promozione del dialogo; comprende la produzione di materiali didattici, la partecipazione a incontri di discussione sulle politiche e le pratiche educative, la formazione degli insegnanti Yanomami, la realizzazione di attività di ricerca condotte dai giovani in dialogo con gli anziani.
C’è poi un’azione per la salute del popolo, per la vita buona e la sovranità alimentare; comprende l’accompagnamento del lavoro del personale addetto all’assistenza sanitaria e la formazione degli stessi Yanomami. C’è quindi un’azione sul territorio per una relazione costruttiva con la società circostante; comprende la realizzazione di incontri che consentono lo sviluppo della autonomia decisionale del popolo col sostegno delle associazioni indigene.
Azione fondamentale è il dialogo interculturale e interreligoso, con la valorizzazione del senso religioso proprio del popolo e nella promozione della convivenza tra le diversità. Un’attenzione particolare è dedicata anche al ruolo della donna Yanomami, con la creazione di spazi propri. Curiamo l’azione di comunicazione e di informazione fra popolo indigeno e società non indigena, con la produzione di notiziari e documentari.
Religiosità
e annuncio del Vangelo
Puoi dire in qualche riga qual è la religiosità Yanomami, se esistono comunità cristiane Yanomami e come avviene, se avviene, il passaggio? Il missionario come interviene?
Gli Yanomami vivono fortemente la propria spiritualità. I riferimenti a ciò che noi saremmo portati a considerare “soprannaturale” sono molto frequenti, quotidiani e immanenti. Narrano e trasmettono cosmogonie, storie delle origini e degli ancestrali, narrative che dicono come «il mondo è» e che indicano il comportamento da adottare. Riconoscono di essere stati «messi al mondo» da colui che ancora invocano quando ne hanno bisogno.
La vita degli Yanomami ha un momento alto nella celebrazione di un rituale chiamato reahu: è una festa, un’occasione di coltivare relazioni sociali, di rinvigorire i riferimenti spirituali e di “porre in oblio” le ceneri dei morti, concludendo il lutto e riconducendo la comunità all’armonia.
In diverse regioni, anche gli Yanomami, come tanti popoli indigeni, sono stati raggiunti da missionari di diverse denominazioni cristiane: evangelici, pentecostali o cattolici. Nei diversi luoghi, a seconda delle condizioni del contatto, dell’epoca, e delle teorie e pratiche missionarie dei diversi gruppi religiosi, sono stati portati avanti processi diversi di evangelizzazione. In alcune zone, i missionari ritengono di avere dato origine a comunità cristiane e gli Yanomami si auto-definiscono cristiani.
Ogni situazione è differente dalle altre: alle volte i missionari hanno condannato tradizioni ed espressioni religiose indigene; alcuni hanno provocato una rottura e dato origine a ferite ancora aperte; altre volte hanno cercato di stabilire un dialogo con la cultura e la spiritualità nativa, iniziando un lungo processo per dare vita ad una “Chiesa autoctona”.
Qual è dunque il tuo modo di sentirti missionario di Cristo per il popolo della foresta con cui condividi buona parte del tuo tempo?
Mi sento missionario di Cristo in una missione che si fa incontro, presenza, solidarietà, servizio e dialogo. È una grazia poter vivere qualcosa simile a ciò che hanno vissuto Gesù e gli apostoli nella Chiesa delle origini. La nascita del Figlio di Dio, l´incarnazione, è il paradigma della missione. Gesù ha incontrato molte persone: quest’incontro non lasciava mai indifferenti, sia quando il Maestro invitava a far parte del gruppo (“vieni e seguimi”), sia quando restituiva la persona alla sua vita precedente (“vai e non dirlo a nessuno”).
Il cammino della missione è un percorso di grande sforzo, ma non è l’imposizione di un programma predefinito. I missionari entrano, quando sono accolti, in un mondo differente, con atteggiamenti di dialogo e di condivisione.
Amazzonia
minacciata
La foresta, in ragione di una accresciuta sensibilità ambientale, è oggetto di tante, interessate, attenzioni: cosa sta effettivamente accadendo nella parte di foresta che tu conosci?
Sì, tante interessate attenzioni e tanti interessi in gioco e conflitti di interesse e progetti con interessi propri. Ci troviamo in un contesto di grandi conflitti. Dove vivo siamo angustiati e cerchiamo di reagire alla distruzione ambientale, al disboscamento e agli incendi, alla violenza contro i popoli indigeni a cui viene proposta la revisione delle demarcazioni delle terre. I grandi progetti del capitale stanno producendo effetti devastanti per l’ambiente e per le popolazioni: costruzione di strade, agro-business, sfruttamento minerario, centrali idroelettriche…
L’interesse di avere una tua testimonianza in questo periodo è evidentemente collegato con il Sinodo. Come lo valuti? Cosa ti aspetti?
Il processo sinodale è un momento di grazia! Qui è stato preparato sin da quando papa Francesco il 15 ottobre 2017 ne annunciò la realizzazione: un’assemblea speciale del Sinodo dei vescovi per la pan-Amazzonia, al fine di riflettere sul tema dei nuovi cammini per la Chiesa e per un’ecologia integrale. Molte riflessioni sono state condotte tra i gruppi e le Chiese locali per raccogliere contributi e quale occasione di maturazione delle comunità.
È importante e bello cercare di costruire una “Chiesa con volto amazzonico” o con “volti amazzonici”. Non si tratta di una rivoluzione, ma di continuare ciò che Gesù ha iniziato: ascoltare i sogni, le speranze e le angustie di chi vive, lotta e prega in Amazzonia, al fine di contribuire alla costruzione del regno di Dio in questa porzione del Creato.
Il Sinodo, oltre a essere una grazia e un dono, è anche un impegno e una responsabilità. Veramente le sfide sono tante: sfide per la conservazione della vita minacciata dei popoli e degli ecosistemi; sfida per la Chiesa che è chiamata a annunciare e testimoniare la persona di Gesù e il regno di Dio. La Chiesa non è indifferente a nulla che abbia a che vedere con la vita, perciò deve assumere la sua veste profetica e samaritana.
Un ulteriore impegno per la Chiesa risulta dal fatto che questo Sinodo si propone di trattare questioni che sorgono in un contesto particolare, ma che possono avere una risonanza e una rilevanza universale.
Siamo invitati ad ascoltare, ad apprezzare la saggezza degli altri, a metterci in dialogo, ad aprirci a relazioni interculturali, a scoprire la presenza di Dio in tutto il creato, a essere misericordiosi e a collaborare fra noi per costruire pace, comunione e convivenza.
E ora una domanda conclusiva sui ministeri: nell’Instrumentum laboris si parla di una Chiesa dal volto indigeno, si accenna alla proposta di nuovi ministeri e di un ministero ufficiale che possa essere conferito alla donna. In altri testi, ho letto che si sta parlando di viri probati. Cosa pensi e auspichi in proposito?
L’Instrumentum laboris preparato per il Sinodo parla del cammino verso una Chiesa «dal volto amazzonico e indigeno», nella scia del lungo percorso intrapreso dalla Chiesa per portare il Vangelo presso popoli e culture. È il lungo cammino dell’incarnazione! Se desideriamo che la parola del Signore sia importante per ciascuna comunità, dobbiamo accettare che innanzitutto sia comprensibile.
Il problema non è solo linguistico, la Parola può risultare significativa calandosi nella vita delle persone. Non dobbiamo temere di portare avanti gli aggiornamenti che il concilio Vaticano II suggeriva e che caratterizzano una Chiesa creativa. Questo significa anche pensare alla organizzazione delle comunità cristiane.
Fra i suggerimenti offerti ai padri sinodali, risultanti dall’analisi fatta allo specchio dalle stesse comunità ecclesiali amazzoniche, c’è l’impegno a superare il clericalismo, a evitare l’omogeneizzazione culturale, a promuovere vocazioni autoctone, a valorizzare il protagonismo dei laici, a «studiare la possibilità di ordinazione sacerdotale degli anziani» indigeni, persone mature e responsabili, stimate dalle comunità, a identificare un tipo di ministero che possa essere conferito alle donne, perché sono le donne che oggi portano avanti le comunità. Insomma ci sono molte questioni in gioco.
Molte comunità si ritrovano per pregare e per studiare la Parola e il sacerdote può visitarle forse una volta all’anno. Questa è la realtà. È necessario dunque aprirsi alla possibilità di forme ministeriali a cui non siamo abituati.
La legittimità di una Chiesa autoctona si fonda nell’ecclesiologia pluriforme che il concilio Vaticano II ha riscattato, con il ritorno alle fonti bibliche e patristiche. Forse si tratta di riconoscere quali sono i ministeri ufficiali e i servizi ecclesiali che molte persone delle nostre comunità già svolgono. Sono ipotesi da prendere sul serio perché possono contribuire alla costruzione di una Chiesa dal volto più umano e prossimo alla realtà della gente.
Giordano Cavallari