Migrazioni e passaggi di civiltà
2019/1, p. 28
Anziché essere protetti, rafforzati, estesi, quei diritti sono
stati apertamente attaccati oppure nascostamente minati.
Non solo nei regimi totalitari, ma anche nelle democrazie
liberali.
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A 70 anni dalla dichiarazione ONU dei diritti umani
MIGRAZIONI
E PASSAGGI DI CIVILTÀ
Anziché essere protetti, rafforzati, estesi, quei diritti sono stati apertamente attaccati oppure nascostamente minati. Non solo nei regimi totalitari, ma anche nelle democrazie liberali.
Settant’anni fa, il 10 dicembre 1948, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite votava la Dichiarazione universale dei diritti umani a ridosso della barbarie della seconda guerra mondiale. Purtroppo, «anziché essere protetti, rafforzati, estesi, quei diritti sono stati apertamente attaccati oppure nascostamente minati. Non solo nei regimi totalitari, ma anche nelle democrazie liberali… Che ne è ad esempio del diritto alla libertà, alla vita, al movimento? Nella nuova età dei muri e del filo spinato questi diritti sono sistematicamente violati. Anzi la violazione è eretta a sistema politico. La libertà di muoversi si arresta al confine. Sempre più acuto è il contrasto, lasciato in eredità dalla Rivoluzione francese, fra i diritti dell’uomo e quelli del cittadino. I diritti umani valgono solo se si possiedono i privilegi del cittadino. Chi non ha cittadinanza, un passaporto da esibire, lo scudo di uno Stato-nazione, non ha protezione giuridica. Di nuovo: è lo Stato sovrano che detta legge. Lo aveva denunciato Hannah Arendt reclamando, con una formula divenuta celebre, un “diritto ad avere diritti”. Perché si tratta del diritto all’appartenenza, la cui negazione costituisce la frontiera della democrazia» (Donatella di Cesare, Il naufragio dei diritti umani (anche) nelle democrazie liberali, “Corriere della Sera” 10/12/2018).
Un fenomeno epocale
e irreversibile
L’evidenza della crescente violazione del diritto alla libertà di movimento ha generato un costante monitoraggio da parte di organismi civili ed ecclesiali per denunciare con forza le letture distorte del fenomeno migratorio. Il Centro Studi e ricerche IDOS, nel suo 28° Dossier statistico immigrazione 2018, riporta dati inoppugnabili. Secondo l’ONU, dei 7mld e 600 mln di persone oggi nel mondo oltre 1 su 30 è un migrante: si tratta di 258mln di individui, il 3,4% di tutti gli esseri umani. Si stima che nel 2050, quando gli abitanti del pianeta saranno 9,8 mld, i migranti saranno 469mln. Dei suddetti attuali 258mln di migranti, l’81,6% è rappresentato da abitanti del Sud del mondo e la stragrande maggioranza (circa 230mln) è costituita da migranti “economici” e loro familiari. L’ineguale distribuzione dei beni e delle ricchezze resta, dunque, una delle principali concause delle migrazioni globali: ancora oggi oltre i due quinti (43%) dell’intera ricchezza del pianeta, è appannaggio di quel sesto di popolazione (17% cioè 1,2mld di persone) che abita il Nord del mondo, mentre i rimanenti 6,3mld di persone che popolano il Sud si spartiscono il restante 57% di risorse. Una sperequazione che diventa sempre più ampia! Ma non sono solo le ragioni economiche a determinare le migrazioni: i cosiddetti migranti “forzati” sono saliti a 68mln nel 2017 e, di questi profughi, la parte maggioritaria è costituita da sfollati interni (oltre 40mln), mentre quelli che emigrano in altri paesi sono 23mln, costituiti da rifugiati (la stragrande maggioranza) e richiedenti asilo. I restanti 5 mln sono sfollati o rifugiati palestinesi. Si tenga dunque bene a mente che, nel mondo, da almeno 20 anni gli sfollati interni aumentano più dei profughi che lasciano il proprio paese, ad attestare le crescenti difficoltà, anche per chi fugge da un immediato pericolo di morte, a uscire dai confini del proprio paese per cercare riparo. D’altra parte, contrariamente a quanto comunemente si pensa, nel mondo l’accoglienza dei rifugiati grava in misura massiccia (85% dei casi) sui paesi in via di sviluppo: per il quarto anno consecutivo, a causa della guerra nella confinante Siria e degli accordi con l’UE, è la Turchia a ospitarne il numero maggiore (3,5mln, cui si aggiungono 300mila richiedenti asilo), seguita da Pakistan (1,4mln quasi tutti afghani), Uganda (1mln e 350mila, tra questi 1mln proviene dal Sud Sudan e 230mila dalla Repubblica Democratica del Congo), Libano (1mln, in maggioranza siriani), Iran (980mila, per lo più afghani).
In un simile contesto, il motto “aiutiamoli a casa loro” – con il quale molti vorrebbero liquidare subito il “problema” dell’immigrazione chiudendo le frontiere –, mentre richiama giustamente la necessità di sostenere di più la cooperazione internazionale, non avrebbe effetti apprezzabili proprio per le dimensioni e il carattere strutturale e multidimensionale del fenomeno e delle sue cause: si richiederebbe in ogni caso l’affiancamento di politiche di gestione dei flussi e di integrazione dei migranti, armonizzate però a livello internazionale. In questo senso, l’ultima relazione della Commissione parlamentare JoCox sulla xenofobia e il razzismo attesta che l’Italia è il paese del mondo con il più alto tasso di disinformazione sull’immigrazione. Secondo un sondaggio del 2018 dell’Istituto Cattaneo, gli italiani risultano essere i cittadini europei con la percezione più lontana dalla realtà riguardo al numero di stranieri che vivono nel paese, credendo che ve ne siano più del doppio di quelli effettivamente presenti. In realtà nell’Ue a 28 Stati, i cittadini stranieri sono circa 39mln (7,5% della popolazione complessiva): L’Italia, con circa 5mln di residenti stranieri (8,5% della popolazione), viene dopo la Germania (che ne conta circa 9mln) e il Regno Unito (circa 6mln), mentre supera la Francia (4,6mln) e la Spagna (4,4mln).
Un nuovo linguaggio
per le migrazioni
Luca Sciullo, presidente IDOS, ha ricordato che di ritorno dal viaggio in Irlanda (agosto 2018) papa Francesco ha dichiarato che “un paese che non ha la possibilità di integrare i migranti, non dovrebbe neppure accoglierli”, spiegando di aver maturato questa convinzione dopo aver constatato che gli attacchi terroristici di Bruxelles erano stati compiuti da giovani di origine straniera emarginati e ghettizzati, sebbene vivessero in Belgio da anni. «In questo modo, il Papa ha inteso ribadire che il tasto nevralgico per garantire la sicurezza all’interno delle nostre società multiculturali e per salvaguardare la coesione sociale negli Stati è l’integrazione». Contro la logica dell’integrazione in Italia invece si parla ancora in termini d’invasione, di clandestini, di extracomunitari; con tutta una serie di affermazioni quasi dogmatiche che circolano tra la gente: gli stranieri ci rubano il lavoro, evadono le tasse, aumentano la delinquenza, importano malattie, erodono le risorse delle Stato, ci passano avanti nell’assegnazione dei benefici assistenziali ecc. ecc.
Su questi stereotipi ha ragionato il 27° Rapporto Caritas-Migrantes2017-18 intitolato “Un nuovo linguaggio per le migrazioni”, concludendo che siamo di fronte a una “emergenza culturale”: è necessario mettere in campo tutte le risorse educative capaci di stimolare il necessario approfondimento rispetto a temi così cruciali e di accompagnare le comunità cristiane verso l’acquisizione di una nuova “grammatica della comunicazione” aderente ai fatti e rispettosa delle persone. Secondo il Rapporto,«colpisce constatare che la sensazione di minaccia alla sicurezza e all’ordine pubblico ricondotta all’immigrazione sperimenta dal 2013 una crescita costante. Nel corso del 2017 i telegiornali di prima serata si soffermano per lo più sui flussi migratori (40%), riservando quasi la metà delle notizie ai numeri e alla gestione degli sbarchi sulle coste italiane. Un ulteriore 34% dei servizi telegiornalistici è dedicato a questioni che mettono in relazione immigrazione, criminalità e sicurezza. Per trovare il primo tema dotato dei caratteri di “buona notizia” è necessario scendere al terzo posto, dove si colloca il racconto dell’accoglienza, al quale nel 2017 è riservato l’11% delle notizie».
«Certamente non posso tacere – ha detto don Francesco Soddu, direttore di Caritas Italiana – la mia apprensione verso la diffusa tendenza, anche a livello istituzionale, a costruire luoghi comuni sui migranti e su coloro che lavorano per accoglierli e tutelarli. Quante voci, minacce, provocazioni abbiamo ascoltato negli ultimi tempi a proposito di immigrati, rifugiati e organizzazioni non governative, dipinti come il nemico contro cui scaricare tutte le ansie e le paure contemporanee. Quante volte la solidarietà è stata messa in discussione e con lei tutti coloro che fino a ieri pensavano di operare per il bene comune. Bene comune e solidarietà, che è opportuno ricordare, stanno alla base della buona politica e della Costituzione del nostro paese. Sarebbe difficile contare le parole d’odio che in Europa o in America stanno connotando il dibattito pubblico su questi temi. Un dibattito, peraltro, che viene alimentato quotidianamente attraverso una narrazione distorta». Sembra insomma che si stiano gettando le basi per una società escludente, dove domina la paura alimentata e sostenuta dalle menzogne, le fake news. L’Italia è «il paese delle mezze verità, dove vale più l’inganno camuffato da “buon senso” che non la realtà delle cose. Dire che i migranti muoiono per causa dei trafficanti, senza aggiungere che indebolire il dispositivo di salvataggio significa aumentare le probabilità di morti in mare, è come dire una mezza verità. Raccontare che tutte le realtà di accoglienza lucrano è come dire un’altra mezza verità, consapevoli che solo una minima parte delle cooperative è stata indagata e condannata». L’esigenza di ridurre la distanza fra il percepito e il reale sul tema delle migrazioni è un’urgenza ineludibile, poiché è oggetto di una politicizzazione che porta a contrapposizioni ideologiche più che a ragionare di possibili soluzioni.
Dimenticati ai confini
dell’Europa
Per ribadire l’importanza di una narrazione “dal vero”, il Centro Astalli ha presentato il report Dimenticati ai confini d’Europa, realizzato in collaborazione con il Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati (JRS) e l’Istituto di formazione politica Pedro Arrupe di Palermo, per raccontare l’esperienza dei migranti forzati che sono riusciti ad arrivare in Europa negli ultimi tre anni. L’obiettivo della ricerca è dare voce alle esperienze di migranti e rifugiati, per rendere chiaro il nesso tra quello che hanno vissuto e le politiche europee che i governi hanno adottato. Il report si basa su 117 interviste realizzate nell’enclave spagnola di Melilla, in Sicilia, a Malta, in Grecia, in Romania, in Croazia e in Serbia. «Ciò che emerge chiaramente dalle interviste… è che il momento dell’ingresso in Europa, sia che esso avvenga attraverso il mare o attraverso una foresta sul confine terrestre, non è che un frammento di un viaggio molto più lungo e estremamente traumatico. Le rotte che dall’Africa occidentale e orientale portano fino alla Libia sono notoriamente pericolose, specialmente per le donne, spesso vittime di abusi sessuali o costrette a prostituirsi per pagare i trafficanti. L’accesso al territorio europeo è una delle principali sfide per i richiedenti asilo, che non hanno quasi nessun modo di viaggiare legalmente». A volte, anche dopo essere riusciti ad accedere al territorio, i migranti non vengono pienamente informati su diritti e modalità di presentazione della domanda di asilo. Dalle interviste realizzate risulta chiaramente che la mancanza di informazioni chiare e comprensibili al momento dell’arrivo è uno dei motivi principali per cui molti non presentano domanda di asilo e finiscono per cadere nell’illegalità. A volte i migranti, anche quando si trovano geograficamente in territorio europeo, devono affrontare una quantità di frontiere invisibili che dividono di fatto l’Europa: le condizioni di accoglienza inaccettabili che spesso li porta sulla strada; la detenzione come pratica comune in diversi paesi europei, che riduce la possibilità di ottenere protezione internazionale. In realtà è proprio il Regolamento di Dublino a spingere le persone all’irregolarità: le condizioni di accoglienza inadeguate e il difficile accesso alla procedura d’asilo inducono molti a cercare protezione in altri Stati della UE, contando su conoscenti o parenti. Così, alle frontiere della UE, e talora anche a quelle interne, c’è una vera e propria emergenza dal punto di vista della tutela dei diritti umani. L’assenza di vie legali di accesso per i bisognosi di protezione li costringe ad affidarsi ai trafficanti su rotte sempre più lunghe e pericolose, pagando cifre esorbitanti. «I tentativi di UE e Stati membri di chiudere le principali rotte non proteggono la vita delle persone, come a volte si sostiene, ma nella maggior parte dei casi riescono a far sì che la loro sofferenza abbia sempre meno testimoni».
Mario Chiaro