Possiamo dire la nostra?
2019/1, p. 25
Quali sono le aspettative e conseguenti domande che i
giovani e le giovani religiose,(20-35 anni) aperti al domani,
pongono a sé e alle istituzioni? Sono qui riportate alcune
delle 45 e-mail pervenute.
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Aspettative dei giovani sulla VC
Possiamo dire la nostra?
Quali sono le aspettative e conseguenti domande che i giovani e le giovani religiose,(20-35 anni) aperti al domani, pongono a sé e alle istituzioni? Sono qui riportate alcune delle 45 e-mail pervenute.
Urge svestire la vita religiosa da una cultura etica arcaica, non all’altezza della coscienza morale cui lo spirito critico è giunto.
«Sono arrivata a pensare che non sia più possibile mantenere in piedi quella situazione che negli Istituti si è creata in altri tempi, in base ad altri presupposti. Sono questi che hanno portato la vita religiosa a caricarsi di principi, norme, sistemi di vita che non hanno la mutevolezza della vita, il tutto difeso da un minuzioso, vincolante apparato disciplinare e organizzativo, non più corrispondente né allo sviluppo della rivelazione, né all’attuale sensibilità evangelica».(S.D. religiosa da 7 anni)
È tempo di rimettere in linea di galleggiamento la “barca” della vita evangelica oggi “zavorrata” da lontane ortodossie i cui contorni teologici ed etici risultano «certezze che possono diventare un muro, un carcere che imprigiona lo Spirito Santo». È dunque il momento di dover “lasciare le vie di quelle epoche in cui il pensiero era chiuso, rigido, istruttivo-ascetico invece che mistico”».
Certamente non è più possibile poter dare risposte a domande nuove traendole da un repertorio culturale considerato irreformabile punto di arrivo, fino a scambiare ciò che è tipico di un dato tempo con ciò che è fondativo. Il motivo sta nel fatto che la verità evangelica non è data, in pienezza, una volta per tutte: è nel grembo della storia che c’è il seme generativo che dà corpo al «vero» e al «buono» di ogni nuova stagione. La verità dunque non si possiede ma la si cerca attraverso i segni iscritti nelle pieghe di un «qui, ora», prestando orecchio ai battiti di questo tempo. Diceva il noto teologo conciliare Y.Congar in riferimento alla vita religiosa: «la sua arcaica rigidità rischia di impedirci di essere in mezzo agli uomini come essi stessi e il Vangelo ci chiedono di esservi». Il motivo, papa Francesco lo esprime così: «La nostra vita non ci è data come un libretto d’opera in cui c’è tutto scritto, ma è andare, camminare, fare, cercare, vedere […] entrare nell’avventura della ricerca e del lasciarci cercare e lasciarsi incontrare da Dio».
È invece avvenuto per la vita religiosa che per resistere alla spirale del pensiero che via-via emergeva, è andata innalzando proprie barriere teologiche ritenute fondanti, che si sono poi consolidate in comportamenti fissati in «regole» sempre più universali tendenti a evolversi, all’interno delle convinzioni e tradizioni acquisite.
Da qui l’attesa «che ogni forma di vita consacrata si interroghi su quello che Dio e l’umanità di oggi domandano»; invito che sottende il coraggio di lasciarsi alle spalle le vie già frequentate per avventurarsi su strade sconosciute, senza lasciarsi tentare dalla conservazione tranquillizzante»
«Sale della terra
o statue di sale?
«La funzione del sale è di insaporire tutto ciò con cui viene a contatto. Allora la vita religiosa per salare non può prendere le distanze dalle dimensioni dell’esistenza, quali l’umanità, il sentimento, la passione, il desiderio, la fraternità, l’amicizia. Sono questi – ma non solo questi – gli aspetti che hanno bisogno di essere detti con parole dal sapore nuovo per poter entusiasmare le persone nelle fasi migliori della loro vita, e trasformare poi l’entusiasmo in progetti di esistenza». (N.M, religioso da 4 anni)
Per essere ciò che oggi le è richiesto, vale a dire «una scossa capace di svegliare il nostro mondo intorpidito», la vita religiosa deve imparare a stare nella «vita» prendendo le distanze da ciò che fa percepire i religiosi e le religiose come credenti senza emozioni, e volontaristi anaffettivi votati alla sofferenza piuttosto che alla festa e alla gioia. Certamente non ci sono grandi realizzazioni umane senza fatica, dedizione, sacrificio, come non ci sono mai stati dei santi senza la partecipazione alla croce di Cristo con l’accettazione della sofferenza, ma altra cosa è credere che ciò vada ricercato, senza dargli il giusto posto e avere un rapporto adeguato con questa realtà misteriosa di cui Cristo stesso nel Getsemani ha avuto paura.
Oggi il sapore della vita religiosa non passa da vigilanti fossilizzati o da gente senza passioni perché il mare della psiche di ogni persona non può essere privato di entrare in contatto con la vita, diversamente c’è languore, apatia, assenza di energia vitale, Tutti gli ideali forti richiedono passione. Questo vale per la religione come per la musica, l’arte, letteratura, politica. La svalutazione dell’ambito emozionale ed estetico a favore di una ragione intesa univocamente in senso funzionale-razionale, può compromettere quella pace e quell’equilibrio interiore che provengono dalla armonizzazione di tutto l’uomo, in tutte le sue dimensioni.
In questo cambio d’epoca, per «salare», la vita religiosa deve saper raccogliere le attese dell’attuale cultura, cosa non facile per il fatto che una data realtà, per secoli sacralizzata, è ora incapace di liberarsi da frasi e parole in disuso diventate abituali. Da qui il pericolo di coniugare l’identità – è detto nella «Evangelii Gaudium – con un «grigio pragmatismo […] nel quale tutto apparentemente procede nella normalità perché sviluppa la psicologia della tomba, che poco a poco trasforma i cristiani in mummie da museo». In un momento di passioni tristi come l’attuale, la profezia della vita religiosa sta nel saper proporre «passioni gioiose».
Quali sono le ragioni comprensibili ai giovani per le quali spendere la propria vita?
«La vita di ogni persona, specie nella giovinezza, «è attraversata da cima a fondo da questa domanda: qual è il «bello» cui voglio affidare la mia energia?» Ecco l’interrogativo che i religiosi/e dovrebbero porsi: l’immagine di vita religiosa che offriamo è vista dai giovani come un bello possibile o come un’agenzia sociale sempre più in affanno chiusa ideologicamente in se stessa?» (S.L religioso da 6 anni).
Oggi più di ieri, il «bene», per essere veramente tale ha bisogno di manifestarsi come bellezza per cui anche la scelta di appartenenza a una forma di vita da discepoli, deve provenire da esperienze concrete di vita bella conseguenti all’incontro con Colui, che dà alla vita un nuovo orizzonte, trasparente espressione della forza liberatrice e sanante di Cristo.
Già nel passato la parola con cui i Padri orientali indicavano il cammino dell’uomo verso l’armonia del vivere era «philokalia (amore della bellezza). Philokalia «non diceva passione per l’estetismo, ma indicava la bellezza del vivere». Simone Weil ha scritto: in tutto quello che suscita in noi il sentimento puro e autentico del bello c’è realmente la presenza di Dio. Con queste espressioni intendeva dire che fare esperienza di bellezza significa entrare in una dimensione di dipendenza da qualcosa di più grande di sé, che è allo stesso modo la base dell’esperienza religiosa.
Il bello porta al desiderio, che è avere un sogno che può immettere nelle cose un progetto più grande dell’oggi. È nei desideri che è possibile discernere la voce di Dio, infatti «vocazione» è in riferimento a qualcosa che a partire dalla verità profonda di sé viene percepito dalla persona come ricerca di quanto la porta il desiderio. È la forza di questo che rende possibile la tensione della vocazione per un «per sempre».
La vita religiosa “per essere trovata bella e dunque desiderabile dai giovani, deve trovare modalità nuove nel proporre inediti schemi di vita non sigillati, aperti a Dio, al mondo, alla storia. Bello è il ritratto vivo del consacrato da cui traspaia che «il divino e l’umano si abbracciano con ammirevole naturalezza», portando a essere persone serene che conoscono la gioia, la più vera, quella del cuore, quella che traspare dal viso, dalle parole e dai gesti di persone capaci di amare e di lasciarsi amare, contente di essere chi sono, dove sono e con chi sono.
Al contrario non sono belli i sistemi organizzativi complessi, che richiedono adesioni spersonalizzanti e che creano sudditanza. Non sono belli quei modelli di pensiero che faticano a muoversi in armonia con le aspirazioni profonde delle persone, perché improntati talvolta a conoscenze teorico-dottrinali del mondo stoico, tenute assieme da documenti, dichiarazioni, teorie, tendenzialmente omologanti di cui si è soltanto ricettori, silenziosi esecutori. Inoltre non è bello il quadro estetico della consacrazione impresso come un catalogo di schemi produttrici di una spiritualità vincolata a paradigmi e regole fisse, proprie di un’epoca che non c’è più.
Va infine detto che il bello per essere accolto deve essere proposto con parole nuove che in questo tempo di rivolgimento – direbbe J.F.Hölderlin - devono essere sperimentate come “venti” (ruah), respiri, brezze del mattino. Da qui la domanda: sono così le parole dominanti nella vita religiosa, oppure nei suoi linguaggi c’è poca vita, tanto ripetitivi, incapaci di parlarci davvero, tendenti in tutti i modi a far sembrare vivo ciò che è morto?
«Non ci stiamo forse limitando mediante i vincoli dell’istituzione che sa di burocrazia e per nulla di profezia?» (Card.Martini)
«L’immagine che i giovani hanno della vita religiosa è di mondo vitale o di istituzione? Qualche decennio fa, il card.Martini disse: «Quando non si ha più la capacità di evidenziare e rendere appetibile la primaria identità della vita religiosa, dietro l’angolo c’è il pericolo che l’attenzione di un Istituto si riversi su impegni dai risvolti sempre più funzionalisti che portano a sviluppare burocrazie che assorbono una grande quantità di energie». Ma sta in questo il carisma? (T.R. religioso da 13 anni).
Carismatica è quella forma di vita che non si misura in termini di Opere, di monumenti, di mezzibusti e di servizi, ma solo in termini di vitalità espressa dall’incamminarsi verso la vita di Cristo: una vita da annunciatore, da donatore di vita, da liberatore, da uomo e donna della pace, della giustizia, della misericordia.
Per troppo tempo, lasciandoci sfuggire la visione delle cose più belle, ci si è spesso portati a far vedere le dimensioni superficiali servendoci di visibilismi d’ogni specie, dimenticando un vecchio aforisma popolare che diceva:«la buona “osteria” non ha bisogno di tante insegne».
È comunque vero che tutte le istituzioni sono di loro natura esposte a divenire qualcosa di organizzativo e amministrativo, e dunque strumenti di possibile alienazione, anche perché il funzionalismo, per i suoi fini è portato a «servirsi» di tutto, anche delle persone piuttosto che «servirle».
L’istituzione è l’irrinunciabile scheletro di un corpo vivente che però dopo una certa età – analogamente al corpo umano – si porta a essere il punto più fragile, che anziché essere di aiuto alla vita della persona può diventare qualcosa che assorbe la vita in funzione di sé.
In ogni caso non possiamo ridurci a essere paghi dei trionfalismi istituzionali spesso effimeri di un non lontano passato, nei quali ora «non c’è più fervore evangelico, ma il godimento spurio di un autocompiacimento egocentrico», il tutto con quel tanto di religiosità per tacitare le coscienze e far sentire a posto.
Rino Cozza csj