Prezzi Lorenzo
Kiev-Parigi un terremoto
2019/1, p. 20
Le comunità ortodosse (250 milioni) sono seriamente minacciate dalle divisioni interne, in particolare dalla contrapposizione fra Mosca e Costantinopoli. Il riconoscimento dell’autocefalia (indipendenza) della Chiesa ortodossa in Ucraina è stato il detonatore.

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Testimoni
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Scisma nell’Ortodossia
KIEV – PARIGI
UN TERREMOTO
Le comunità ortodosse (250 milioni) sono seriamente minacciate dalle divisioni interne, in particolare dalla contrapposizione fra Mosca e Costantinopoli. Il riconoscimento dell’autocefalia (indipendenza) della Chiesa ortodossa in Ucraina è stato il detonatore.
Una falsa partenza: così si può indicare l’avvio della Chiesa ucraina ortodossa unita che nasce dal sinodo nazionale del 15 dicembre. Forse l’indicazione è troppo netta, ma se venisse confermata sul fronte occidentale dal respingimento delle indicazioni costantinopolitane per la Chiesa ortodossa di tradizione russa in Occidente si dovrebbe registrare una divisione seria nelle comunità ortodosse e un preoccupante indebolimento della primazia di Bartolomeo di Costantinopoli. (http://www.settimananews.it/chiesa/costantinopoli-lucraina-la-nuova-geografia-ortodossa).
Ucraina:
il nuovo primate
La vicenda che ha portato alla decisione di Costantinopoli di concedere il tomo dell’autocefalia alle Chiese ucraine ortodosse, comprese quelle «scismatiche» e in contrasto con la Chiesa canonica filo-russa è stata più volte raccontata (http://www.settimananews.it/ecumenismo-dialogo/ortodossia-crepe-frane/; Testimoni 10/2018 p. 26; 11/2018 p.8). Due Chiese si sono staccate dall’obbedienza a Mosca e una terza, maggioritaria, ha continuato in forma relativamente autonoma nel rapporto con l’Ortodossia russa. Su 43 milioni di abitanti i cattolici non arrivano a 5 milioni: gli altri sono ortodossi, divisi appunto in tre settori: i filo-russi hanno 11.392 chiese e 12.328 comunità; le altre due Chiese ortodosse hanno rispettivamente 3.784 chiese e 5.114 comunità (Filarete) e 868 chiese con 1.195 comunità (Macario). La domanda di autocefalia incomincia negli anni ’90 e diventa progressivamente anche un elemento di indipendenza politica dopo la guerra ai confini russi (Donbass) con oltre 10.000 morti e l’occupazione della Crimea da parte russa. L’11 ottobre Costantinopoli avvia il processo di autocefalia scatenando le ire di Mosca che scomunica Bartolomeo.
Si arriva così all’assemblea nazionale raccolta nella cattedrale di santa Sofia a Kiev il 15 dicembre nel «concilio di unificazione». Qui viene scelto come primate il metropolita Epifanio Dumenko. I 192 rappresentanti delle realtà ecclesiali lo hanno indicato con un duplice voto, sotto la presidenza del metropolita France Emmanuel, in rappresentante del Trono patriarcale. Il giovane vescovo (39 anni) ha studiato all’accademia ecclesiastica di Kiev e alla facoltà filosofica di Atene. Diacono e presbitero nel 2008, vescovo nel 2009, collaboratore stretto dell’autoproclamato patriarca di Kiev, Filarete. Anzi, considerato il suo braccio destro è certamente anche il suo candidato. Si è presentato alla folla con un diretto ringraziamento a Filarete e al presidente della Repubblica, Porochenko. Le sue prime parole si sono ispirate all’accoglienza di tutti gli ortodossi del paese. Toccherà a lui andare a Costantinopoli per accettare il tomo dal patriarca Bartolomeo il 6 gennaio 2019.
I molti dubbi
L’elezione è formalmente corretta e legittima, ma sono molti gli indicatori che ne attenuano l’evidenza. A cominciare dall’assenza vistosa dei 95 vescovi della Chiesa filo-russa. Solo due sono stati presenti e una decina di deleghe sono state annullate perché i vescovi non erano in assemblea e della cui libertà di voto si dubita. La Chiesa di Filarete si era opposta alla decisione di Costantinopoli di prevedere due votazioni segrete e universali (anche per il prete e il monaco o laico che accompagnavano tutti i vescovi) che potevano privilegiare un nome non dei loro. Il compromesso è stato di lasciare segreto e universale il primo scrutinio riservando ai soli vescovi il secondo. L’assemblea è cominciata in ritardo per l’attesa di vescovi filo-russi. Almeno un vescovo di questi ha testimoniato di pressioni dei servizi segreti per la sua presenza. Sono state rese pubbliche informazioni riservate sui vescovi assenti che solo la polizia aveva, per screditarli. La prevista quindicina dei vescovi filo-russi non si è vista. Lo sforzo di convogliare i voti su figure la cui ordinazione non fosse in discussione è andata a vuoto. Il primate Epifanio è stato ordinato dallo «scomunicato» Filarete, solo recentemente riabilitato. Inoltre ha accettato il suo statuto di primate solo in via provvisoria, in attesa di un pieno riconoscimento del patriarcato. L’autocefalia proposta all’Ucraina comporta il riconoscimento del primate, la consegna del crisma, la canonizzazione dei santi e il possibile ricorso di preti e vescovi alla sede del Fanar. Non potrà aprire parrocchie fuori dei confini dell’Ucraina. Assai simile alle disposizioni in atto a Creta, Cipro e in alcuni territori della Grecia.
Bartolomeo ha fatto il possibile per garantire la più ampia rappresentatività dell’assemblea e sperava in una elezione non schiacciata su Filarete. Ma i suoi sforzi per convincere Onufrio, il primate della Chiesa filo-russa, sono stati vani. Così la cinquantina di vescovi presenti rappresentavano le due ali «scismatiche» (40 i vescovi di Filarete e una decina quelli di Macario), ma non quella canonica. Alla fine, Bartolomeo ha accettato le decisioni dell’assemblea.
Il peso
della politica
Onufrio, il suo sinodo e i suoi vescovi hanno prima respinto la decisione di Costantinopoli di avviare il processo d’autocefalia (11 ottobre), poi rifiutato di incontrare i delegati del Trono, poi hanno declinato l’invito a un incontro con Porochenko e hanno rifiutato la lettera di invito al «concilio di riconciliazione». Considerato un uomo spirituale e pastorale il vescovo Onufrio ha finora compattato la sua Chiesa difendendo le sue comunità in nome dell’appartenenza di fede e della legittimazione canonica che nessuno gli ha negato (anche se la nuova Chiesa potrebbe dichiararlo scismatico).
Il peso della politica è piuttosto evidente. Porochenko e il Parlamento sono stati in prima fila a chiedere l’autocefalia. Il presidente è andato personalmente a discuterne a Costantinopoli, ha convocato tutti i vescovi, ha proclamato davanti a tutti la necessità del riconoscimento. È stato presente al concilio e ha accompagnato il primate davanti alla folla. Qui ha detto: «Questo giorno sacro entrerà nella storia come quello della creazione di una Chiesa autocefala unita in Ucraina. Giorno della nostra indipendenza definitiva dalla Russia». Una Chiesa «senza Putin e senza Cirillo». «L’Ucraina non berrà più il veleno moscovita dal calice di Mosca». Il concilio è stato presentato come un pilastro dell’indipendenza del paese e garantito come un questione di sicurezza nazionale. Una esposizione che trae forza dall’incombente pericolo russo. Da anni Mosca alimenta la guerra civile nel Donbass e nel 2014 ha occupato e assimilato la Crimea con continui e ripetuti scontri militari nelle acque e nei territori di confine. Putin ha minacciato Kiev di poter entrare in città in mezza giornata.
Cirillo di Mosca ha scomunicato Bartolomeo e la nuova Chiesa, denunciando le persecuzioni a cui vanno incontro i fedeli e i vescovi filo-russi. In questo senso ha scritto alle istanze internazionali, ai rappresentanti delle Chiese cristiane e i politici Macron (Francia) e Merkel (Germania). Il suo braccio destro, mons. Hilarion, ha ironizzato sugli esperti che avrebbero assicurato a Bartolomeo 25 vescovi filo-russi al concilio, come sulle statistiche che prevedevano una frana delle comunità filo-russe a vantaggio di quelle nazionalistiche. Ricordando lo «scisma dei novatori» che nel 1922 cercò con l’aiuto di Costantinopoli di delegittimare il patriarca Tichon qualifica l’attuale come pseudo-concilio. I suoi rappresentanti – dice - saranno cancellati dalla storia.
Difficile scelta
a Parigi
L’accusa di politicizzazione della Chiesa ucraina ortodossa e il timore di persecuzioni non suonano impropri, ma in bocca ai rappresentanti moscoviti hanno una credibilità modesta, considerate le loro dipendenze dal potere politico (non una sola parola critica alla guerra in Donbass e all’occupazione della Crimea) e al consenso loro fornito ai limiti legislativi verso le altre confessioni e fedi, compresa la cancellazione dei Testimoni di Geova.
Più credibili le critiche a Costantinopoli di uomini come il vescovo Anastasio di Tirana («temiamo che il risultato finale, piuttosto che l’unità degli ortodossi in Ucraina, sia la rottura dell’unità dell’ecumene ortodossa») o del metropolita Kallistos che critica sia la reazione di Mosca (non si rompe la comunione su questioni giuridiche) sia la decisione di Costantinopoli («non sono per nulla contento della decisione presa dal patriarca Bartolomeo»). Ambedue perorano la riapertura del concilio di Creta, celebrato nel 2016, con tutti i patriarchi.
Ma se in Oriente la situazione si rivela più complicata del previsto per Costantinopoli, cosa sta succedendo in Occidente rispetto alla decisione di soppressione dell’esarcato della comunità di tradizione russa in Europa? Con una decisione improvvisa il 29 novembre il sinodo di Costantinopoli scioglie l’esarcato o archieparchia (arcivescovato) della comunità di tradizione ortodossa russa in Europa occidentale e di integrarlo nelle eparchie locali (diocesi) del Patriarcato ecumenico. L’esarcato comprende 65 parrocchie, 11 chiese, 2 monasteri e 7 eremi diffusi in tutta Europa, particolarmente in Francia.
Nella complessa sovrapposizione delle giurisdizioni in Occidente, di ciascuna Chiesa ortodossa nazionale oltre a quelle direttamente dipendenti da Costantinopoli, la Chiesa di tradizione ortodossa russa nasce dai fuoriusciti russi dopo la rivoluzione del 1917, si struttura in forma autonoma negli anni Trenta del Novecento, legandosi a Costantinopoli per non dover dipendere dal patriarca di Mosca, troppo condizionato dal potere sovietico. Nel 1999 è stato riconosciuto come «esarcato permanente» da Bartolomeo di Costantinopoli. Preso alla sprovvista l’arcivescovo Giovanni di Charioupolis convoca il proprio sinodo e successivamente l’assemblea dei preti (15 dicembre). L’assemblea, a sua volta decide di riunire l’organismo decisionale di ultima istanza cioè l’Unione diocesana delle associazioni ortodosse russe in Europa occidentale, presieduta dallo stesso vescovo Giovanni. Non ci sono per ora informazioni sull’orientamento dell’assemblea dei preti, ma la scansione delle decisioni (consiglio del vescovo, assemblea del clero, assemblea di tutti i rappresentanti delle comunità) dice il legame di queste comunità con l’approccio novatore del concilio di Mosca del 1917 e la volontà di seguire con rigore gli statuti per una risposta efficace. L’assemblea generale straordinaria è prevista per il 23 febbraio 2019 a Parigi. L’arcivescovo Giovanni che non ha chiesto né l’abrogazione dell’esarcato né la sua collocazione a riposo sta costruendo una risposta corale alla revoca del tomo patriarcale del 1999. La decisione del patriarcato ecumenico risponde davvero «ai bisogni pastorali e spirituali della nostra epoca»? L’esarcato ha davanti a sé una triplice possibilità. Può accettare la decisione di Costantinopoli e far confluire le sue comunità nelle diocesi costantinopolitane già attive in Occidente. Oppure potrebbe decidere di rientrare nell’alveo della Chiesa ortodossa russa come ha già fatto la Chiesa ortodossa russa di oltrefrontiera. Ma c’è una terza opzione: quella di mantenersi autonomi in attesa che la storia definisca meglio l’orizzonte. È già successo all’esarcato negli anni fra il 1965 e il 1971. Allora il patriarcato ecumenico aveva ritirato il titolo di esarcato provvisorio per rispetto alla Chiesa russa, ma nel 1971 era tornato sui suoi passi riconoscendolo di nuovo per concedere infine uno statuto definitivo nel 1999.
Domande
sulla fede
Tutti gli elementi, sia a Kiev come a Parigi, sono ancora in movimento. Leggerli in parallelo, pur nella loro evidente distanza, favorisce la comprensione dell’intenzione del patriarcato di Costantinopoli (e di quello di Mosca), riequilibrare il peso dei due patriarcati. E fa capire anche la serietà della paura dei responsabili delle comunità ortodosse circa una frantumazione grave del corpo dell’Ortodossia. Se non si può vivere la fede senza una concreta appartenenza alla Chiesa quando essa è determinata dalla politica o da preoccupazioni di egemonia istituzionale, come evitare il profondo smarrimento dei fedeli? Così scrive La nuova Europa: «Il vero rischio – che però rappresenta anche una domanda e un monito per noi cattolici …- sembra quello di trovarsi in una situazione in cui non è più la fede a mostrare come sia possibile vivere in qualunque circostanza, ma dove sono le circostanze a dettare condizioni e modalità dell’adesione a Cristo e al suo Vangelo».
Lorenzo Prezzi