Matté Marcello
Una Chiesa che "è" in carcere
2019/1, p. 12
Il punto unificante e qualificante degli interventi e dei sette laboratori si può riscontrare nel carattere emblematico che assumono la presenza e il servizio della Chiesa in carcere. Quale Chiesa è possibile in un mondo che isola, individualizza, priva della libertà?

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Testimoni
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Convegno cappellani e operatori pastorali nelle carceri
UNA CHIESA CHE “È”
IN CARCERE
Il punto unificante e qualificante degli interventi e dei sette laboratori si può riscontrare nel carattere emblematico che assumono la presenza e il servizio della Chiesa in carcere. Quale Chiesa è possibile in un mondo che isola, individualizza, priva della libertà?
Il titolo che si è dato il Convegno nazionale dei cappellani e degli operatori pastorali nelle carceri – “Chiesa riconciliata in carcere. L’operosità della fede, la fatica della carità e la fermezza della speranza” – era abbastanza spazioso da consentire ampie opzioni di manovra. Nello stesso tempo, ha definito un punto di partenza stringente: non si parla più di una Chiesa che “va” in carcere per svolgervi un servizio di evangelizzazione e promozione umana, ma di una Chiesa che “è” in carcere e ha bisogno di essere raggiunta e riconosciuta.
Una Chiesa riconciliata,
conciliare, non conciliante
Una Chiesa riconciliata è l’obiettivo, a volte raggiunto stando ai resoconti delle esperienze, di una triplice tensione. Una attraversa le persone, che hanno bisogno di riconciliazione con il proprio passato di colpa; che non significa narcotizzare l’ansia o banalizzare il reato. Al contrario, significa assumere la responsabilità delle proprie azioni, senza cercare razionalizzazioni o giustificazioni, ma nello stesso tempo sottrarsi alle reazioni istintive – di altri o di se stessi – che tendono a inchiodare al passato.
Si tratta di essere riconcilianti, non concilianti. È necessario per questo intraprendere percorsi laboriosi di bene, meglio se in forma riparativa, attraverso i quali fare esperienza che il bene è possibile e doveroso per tutti. Ma per nessuno è possibile da soli: anche la riconciliazione con se stessi e con la propria storia passa dal potersi specchiare in relazioni pulite, ha bisogno di alimentarsi alla comunione. Extra ecclesia, nulla salus: salvando il principio dogmatico da ogni interpretazione fondamentalista o anche solo integralista, è un principio base quello che porta a considerare necessaria la comunione per la salvezza.
Una seconda tensione si trova nel rapporto fra sé e gli altri, la comunità civile che è stata ferita dal reato. La comunità ecclesiale porge sempre anche un servizio di valenza civile. La riconciliazione che si vuole offrire e incoraggiare come Chiesa mira a ricostruire il tessuto civile insieme a quello ecclesiale. È limitativo per la stessa comunità ecclesiale pensare si possa dispensare misericordia senza che questa non comprenda in se stessa giustizia. È ancora diffusa la mentalità secondo la quale la misericordia è vista come il “di più” che i discepoli di Gesù offrono – bontà loro – rispetto al “minimo” della giustizia oltre la quale l’amministrazione civile della giustizia non riuscirebbe ad andare. O la misericordia è forma della giustizia o si snatura. O la misericordia è azione politica oltre che spirituale (cioè coinvolge tutte le dimensioni della persona) o resta pia opera consolatoria. Dio solo sa quanto ci sia bisogno di consolazione, tanto più all’interno di un carcere, ma noi sappiamo bene di quanto sia necessario che questa consolazione non costituisca una tacita legittimazione del sistema. Si deve convertire il singolo colpevole, ma anche la società e la cultura sono chiamate a continua conversione, per non sentirsi semplicemente autorizzate dalla propria presunta innocenza ad esercitare una giustizia immiserita a vendetta retributiva.
Una terza tensione è quella che pone ogni soggetto ecclesiale che opera in carcere di fronte all’interrogativo ineliminabile, anche se talvolta non ascoltato: e la vittima? Operare per la riconciliazione significa mantenersi in azione sulla spola che va dal colpevole alla vittima. Consapevoli che nella comunità credente – tanto più nella Chiesa “cattolica” – hanno cittadinanza l’uno e l’altra.
Una Chiesa emblematica,
non bella né brutta copia
Il punto unificante e qualificante degli interventi e dei sette laboratori si può riscontrare nel carattere emblematico che assumono la presenza e il servizio della Chiesa in carcere.
Quando incontro i ragazzi delle scuole, ad esempio, per sensibilizzare sul tema carcere e giustizia, è mia premura augurare ai ragazzi di non avere mai a che fare con il carcere; ma li ammonisco anche sempre che non potranno mai esimersi da quello che il carcere rappresenta. Il carcere è la risposta in cemento armato – una delle tante risposte possibili, che noi spesso trasformiamo nell’unica risposta – ai dilemmi che attraversano la vita di tutti.
Quale salvezza è possibile e sensato annunciare quando siamo stati irretiti nell’esperienza del male, sia colpevole sia innocente? davvero c’è una salvezza per i colpevoli che non sia anche salvezza per gli innocenti, e viceversa? Come si rapporta la società civile con la parte di sé che ha posto una frattura e si è resa colpevole? si limiterà ad ampliare il solco? il rapporto con la parte “oscura” di sé dice sempre molto della maturità civile raggiunta da una società; si capisce di più da come castighi i “cattivi” che da come premi i “buoni”, e soprattutto da come fai la divisione fra i due. Come si limitano reciprocamente libertà personale e libertà civile? come si influenzano reciprocamente le scelte personali e le pressioni del contesto? Come si rapporta la comunità dei credenti nei confronti di chi è pubblicamente giudicato colpevole e perfino ecclesialmente scomunicato? quale Chiesa è possibile in un mondo che isola, individualizza, priva della libertà? Quali significati “laboriosi” assume in questo ambiente l’invito “ad uscire”?
Una Chiesa che ha consapevolezza della propria origine dalla misericordia del Padre: irrimediabilmente colpevole, ma perdonata, che al giudicare preferisce tessere trame di riconciliazione. Una Chiesa “conciliare”, dove non ci sono ruoli ingessati né classi stagne nel dare e nel ricevere, nel perdonare e nell’essere perdonati. Una Chiesa riconciliata ma non conciliante nella denuncia e nella profezia.
Imputati
Dovremmo dubitare del nostro discepolato se non fossimo giudicati in qualche modo “colpevoli” dal vangelo di Gesù. In questi tempi nei quali va montando una cultura – non solo politica – che legittima l’egoismo, il fondamentalismo condannatorio, un uso vendicativo della “giustizia”, il discepolo di Gesù è imputato. Perché si rifiuta di accettare che l’aggettivo colpevole diventi sostantivo. Perché è politicamente ostinato nella critica a una giustizia che legittima la risposta al male con un altro male e persegue un modello nel quale al male si risponde con un progetto laborioso – per entrambe le parti – di bene. Perché crede fermamente che solo la carità non avrà mai fine e in nome di questa respinge ogni sentenza di “fine pena mai”. Perché crede in un Dio che non butta mai via la chiave e che anche quando usa parole severe di condanna apre sempre un percorso di ravvedimento.
Il vangelo della misericordia è molto politico. E non è ingenuo. Saccentemente ingenua è invece la convinzione, tanto diffusa quanto ideologica, che l’unica risposta al male commesso sia la “giusta” retribuzione con un altro male. Mentre tutte le indagini sono a negare l’assunto. Ma disponiamoci in proposito a stare sul banco degli imputati, visti i marosi tra progetti di riforma della giustizia abortiti e quelli sottoscritti dal “contratto” giallo-verde.
Nel carcere, forse più che altrove, è sostanziale che la Chiesa sappia assumere un volto riconciliato, dove le diversità sono rispettate e valorizzate, mai contrapposte. Ci si è detto che su questo c’è ancora del cammino da fare. «Nel carcere abbiamo la ricchezza della presenza di molti movimenti religiosi; quando c’è armonia e voglia di camminare insieme, sono di grande aiuto e sostegno, sia per la catechesi che nell’aiutare i ristretti nelle loro primarie necessità. Ma in alcune parti e in diversi carceri notiamo le difficoltà di un cammino sereno, sperimentiamo anche una Chiesa frammentata, causata dalla chiusura di alcuni movimenti» (dalla Sintesi dei laboratori).
Alibi
Non è di poco conto il processo di conversione richiesto ai modelli di annuncio e di Chiesa. Siamo stati per molto, troppo tempo tra i primi a scagliare pietre, salvo poi soccorrere il lapidato per curargli le ferite. Come in ogni tempo, ci sembra che il nostro sia funestato da un male debordante, e che davvero i deboli, i poveri, gli indifesi siano sempre più minacciati, anzi perseguitati. Non possiamo restare sordi, ciechi e muti davanti alle forme ributtanti come a quelle “banali” del male che infierisce sui più esposti. Ma il male avrà incassato un punto in più se l’indignazione farà da alibi all’uso della violenza per combattere la violenza, del male per combattere il male.
Per tanto, troppo tempo un’imbarazzante teologia della soddisfazione ci ha chiesto di offrire dolore a un Padre che sarebbe stato appagato nella sua ira soltanto dal sangue del Figlio. E questa teologia ha costituito l’alibi più coriaceo alla legittimazione di una giustizia retributiva e afflittiva. Per la quale la pena – intesa come afflizione – conterrebbe in se stessa una forza salvifica.
La prima “uscita” alla quale è chiamata la Chiesa in carcere è la liberazione dalle gabbie teologiche e catechistiche che lasciano al “braccio secolare” la (presunta) soddisfazione da dare alla vittima con la sofferenza imposta al colpevole, riservando alla propria missione un’azione consolatoria che rinforza il modello.
Sono tante le implicazioni nell’azione “pastorale” in carcere (e fuori): i percorsi catechistici come i percorsi di reinserimento, la partecipazione a progetti di giustizia riparativa e mediazione penale come la cura delle relazioni interpersonali (fra i temi dei laboratori).
Uscire da una proposta troppo “tollerante” nei confronti di una religione superstiziosa per ricuperare – sempre daccapo – una religiosità incarnata, senza automatismi devozionali e densa invece di tutta la speranza operativa di chi ripone fiducia nel Padre di Gesù, che non abbandona mai chi se ne va né mai si sostituisce a lui.
Complici
Un invito alla “complicità” è venuto dal card. Montenegro nell’omelia della celebrazione finale. Complicità non certo con il male né con i responsabili di reato, ma complici della misericordia divina. Anzi, della giustizia divina, che è alleata (intimamente complice) della radicale redimibilità di ogni persona. Farsi complici dei progetti di bene assunti. La complicità è più profonda della pur generosa assistenza o accompagnamento, perché implica comunione di destini. È grazie alla “complicità” di Cristo con il peccatore (ognuno di noi), non per un’azione estrinseca, che noi tutti siamo liberati e perciò salvati.
Marcello Matté