Dall'Osto Antonio
Francesco negli Emirati arabi
2019/1, p. 9
Dal 3 al 5 febbraio 2019, il papa, accogliendo l’invito dello sceicco Mohammed bin Zayed Al Nahyan, Principe ereditario di Abu Dhabi, visiterà Abu Dhabi (Emirati Arabi Uniti), per partecipare all’Incontro interreligioso internazionale sulla fratellanza umana.

Accedi alla tua area riservata per visualizzare i contenuti.

Questo contenuto è riservato agli abbonati a
Testimoni
.
La prima volta che un Papa giunge in queste terre
FRANCESCO
NEGLI EMIRATI ARABI
Dal 3 al 5 febbraio 2019, il papa, accogliendo l’invito dello sceicco Mohammed bin Zayed Al Nahyan, Principe ereditario di Abu Dhabi, visiterà Abu Dhabi (Emirati Arabi Uniti), per partecipare all’Incontro interreligioso internazionale sulla fratellanza umana.
Si tratta della prima visita in assoluto di un Pontefice nella penisola arabica. In questo territorio di oltre 900.000 kmq: dal 2003 opera il vescovo mons. Paul Hinder, cappuccino svizzero. Svolge la sua attività nel cercare di promuovere, nella misura del possibile, la vita della Chiesa, in un ambiente completamente impregnato di islamismo. Di frequente visita i fedeli, sia nelle comunità e sia negli incontri maggiori come nella Conferenza giovanile cattolica dell’Arabia che è tenuta recentemente.
Stando alle cifre riportate sul proprio sito (datate 31/12/2017) la comunità cristiana è composta da 998,550 fedeli cattolici, suddivisi in 16 parrocchie e assistiti da 18 preti diocesani, 49 sacerdoti appartenenti a Istituti religiosi, 1 diacono permanente, 1 religioso professo e 50 religiose. I cristiani sono tutti lavoratori immigrati e il loro numero è in crescita costante. Sono impiegati nell’edilizia, nel lavoro domestico ma anche nelle scuole e nei servizi. Provengono da oltre 100 paesi ma in particolare da Asia, India e Filippine, poi da Africa, Europa e Usa. Non mancano fedeli di lingua araba, arrivati da Giordania, Libano e Siria.
Ma come si presenta questa comunità cristiana in questo territorio e in quali condizioni politiche? Come esercita mons. Paul Hinder, dal 2011 vicario apostolico dell’Arabia meridionale, il suo ministero pastorale? Lo descrive lui stesso in questa intervista che ha rilasciato ad Abu Dahbi a Matthias Altmann, e pubblicata in katholisch.de il 2 novembre scorso.
Mons. Hinder come è andato l’incontro con i giovani alla Conferenza giovanile?
È stata una circostanza vivace con dei giovani molto entusiasti. Vi hanno partecipato 1.500 giovani di diversi paesi della penisola arabica. Sono rimasto stupito dell’allegria che hanno irradiato. Le due giornate si sono svolte all’insegna della parola dell’angelo a Maria. “Non temere, perché hai trovato grazia presso Dio”. Uno degli scopi dell’incontro era di rafforzare la fede dei giovani che vivono in una terra estranea ai cristiani, e promuovere la solidarietà tra di loro. Devono sentire di non essere soli, ma testimoni insieme del Signore.
Contemporaneamente alla Conferenza si è concluso a Roma il sinodo dei giovani. Che cosa preoccupa i giovani cattolici dell’Arabia Saudita?
Anzitutto un grande ruolo hanno le preoccupazioni quotidiane. Per alcuni, a seconda dell’età, in primo piano è la carriera: per esempio, come proseguire gli studi o quale università poter frequentare. Per gli altri, uno dei principali problemi è il lavoro: riusciremo a trovare un’occupazione? Possiamo conservarla? Nella penisola arabica la fluttuazione delle forze di lavoro è infatti molto alta.
Gli Emirati Arabi Uniti, l'Oman e lo Yemen – stati che appartengono al suo Vicariato apostolico – non sono proprio dei paesi in cui si presume una presenza cristiana cattolica. Da dove vengono queste persone?
Sono tutti migranti che per un certo tempo si sono stabiliti qui. Solitamente torneranno in patria oppure continueranno ad andare avanti. Ma ci sono qui anche quelli che fanno già parte della seconda generazione. Provengono in gran parte dall’ area asiatica, per esempio dall’India o dalle Filippine. Alcuni dal Medio Oriente, come i cristiani di lingua araba della Siria, del Libano o della Giordania. Abbiamo anche un numero crescente di africani e anche di nord e sudamericani. In gran parte si tratta di persone della classe media o degli strati più bassi della società: operai o occupati in lavori domestici.
Tra i cattolici ci sono grandi differenze sociali?
Rispetto ad altri paesi, penso che ci sia un relativo equilibrio. Ma in genere non si guarda alla povertà della gente. Negli Emirati arabi Uniti non esiste una visibile miseria. Ma a volte abbiamo a che fare con persone che hanno grandi problemi finanziari. Nella misura delle nostre possibilità cerchiamo di aiutarle. A volte l’aiuto consiste semplicemente nel dire loro che la cosa migliore è di tornare in patria. È sempre meglio che rimanere qui e continuare a indebitarsi ed eventualmente anche finire in carcere.
Il territorio di cui lei è responsabile è enorme. Oltre agli incontri come quelli della Conferenza dei giovani, come fa a rendersi presente tra i fedeli?
Visito molto spesso le comunità. Oltre alla visita pastorale annuale, in cui rimango almeno tre quattro giorni nelle parrocchie – e in quelle più grandi anche una settimana – mi rendo presente all’occasione in certe circostanze particolari. Celebro personalmente le messe delle cresime. Inoltre mi tengo in contatto con i gruppi cattolici. Soprattutto nelle situazioni di minoranza per i fedeli del luogo è essenziale che il loro vescovo sia presente, li ascolti e non abbia paura di contattarli.
Come è la vita delle comunità in questa assoluta situazione di diaspora?
Abbiamo dei centri parrocchiali. Negli Emirati Arabi Uniti abbiamo attualmente otto parrocchie e la nona sarà presto eretta nella regione occidentale di Abu Dhabi. Queste sono parzialmente grandi parrocchie; quella della cattedrale di Abu Dhabi è una comunità enorme. Più grande ancora è St. Mary’s, a Dubai, che comprende 300.000 cattolici. Naturalmente è una grande sfida organizzare in questi luoghi le Messe. Inoltre, ci sono centinaia di volontari che ogni settimana tengono la catechesi a circa 10.000 bambini. I volontari compiono davvero un lavoro logistico meraviglioso. Noi li sosteniamo il più possibile.
Come vive la gente la propria fede – in particolare rispetto agli stati tradizionalmente cristiani?
Il fatto di essere esposti in un’altra cultura – con un’altra religione di maggioranza – esercita certamente un effetto stimolante. Alcuni preti di sostegno dell’India o delle Filippine mi hanno detto che i loro compatrioti vivono qui la fede più intensamente che non nei loro paesi di origine. La situazione minoritaria costituisce per molti una provocazione che li induce ad approfondirla. La gente è anche motivata a collaborare. Le nostre chiese sono normalmente piene, a volte persino strapiene. Quando si vede l’entusiasmo della gente, è una gioia celebrare con loro la Messa. Anche nelle conversazioni si avverte in loro un impegno a voler vivere una relazione con Cristo.
Gli Stati del Medio Oriente non sono certo dei pionieri in fatto di libertà religiosa. Quanto è pericoloso qui essere cristiani?
Dipende dal paese. Negli Emirati Arabi Uniti non c’è alcun problema. Io come cristiano posso muovermi ed esprimermi liberamente, soltanto non posso svolgere attività missionaria tra i musulmani. Ciò è strettamente proibito. I segni religiosi, nella misura in cui non sono provocatori, possono essere esibiti. Molti cristiani hanno appeso nello specchietto retrovisore della loro auto un rosario. Io posso senza alcun problema andare per le strade col mio abito. In altri paesi del Medio Oriente è diverso come, a mio parere, in Arabia Saudita.
I fedeli hanno paura di attacchi musulmani?
Qui negli Emirati arabi Uniti siamo per ora in una situazione fortunata, nel senso che la situazione per quanto riguarda la sicurezza è molto buona. Qui mi sento sicuro come in Svizzera, forse anche di più. Ma ciò non vuol dire che in altri paesi sia lo stesso.
Per gli Stati Uniti e l’Europa gli stati arabi sono dei partner economici e commerciali importanti. Tuttavia sono governati in gran parte in maniera autocratica – cosa che contraddice in particolare i valori occidentali. Il mondo occidentale come dovrebbe trattare con gli stati arabi?
Non posso dare a questo riguardo nessun consiglio. Sono solo, a volte, un po’ sorpreso come questi stati rapidamente cedano quando si tratta di soppesare gli interessi economici con i valori fondamentali. Mi chiedo se non ci vorrebbe un po’ più di coraggio e di resilienza.
Lo Yemen è da anni teatro di guerra. Una coalizione di diversi stati arabi combatte laggiù contro i ribelli Houthi. Anche gli Emirati Arabi Uniti partecipano all’alleanza militare. Quanto è grande la sua speranza di un rapido armistizio?
Non credo che la guerra giunga presto a una rapida conclusione perché i fronti sono irrigiditi e nessuna parte può permettersi o vuole perdere la faccia. Se fosse messo a punto un compromesso in cui ciascuna parte può sentirsi vittoriosa, si potrebbe giungere a un rapido armistizio e in seguito a un trattato di pace definitivo. La gente dello Yemen ha bisogno di pace in modo da poter ricostruire lentamente un paese distrutto.
Lo scorso anno lei ha compiuto 75 anni. Ha raggiunto il limite di età per i vescovi. Quanto rimarrà ancora in Medio Oriente?
In occasione del mio 75° compleanno ho presentato a Roma le mie dimissioni. Ma non so ancora come andrà. Sono sicuro che si stia già cercando un successore. Ma ci vorrà ancora del tempo. Il Vaticano è chiaramente del parere che non ci sia alcuna fretta. Ma quando sarà l’ora, mi ritirerò in Svizzera per vivere nella mia provincia cappuccina.
Era da tempo che mons. Paul Hinder aveva invitato il Papa negli Emirati Arabi Uniti. Dopo aver saputo che questa visita si compirà, ha affermato che questa visita costituisce “un passo importante e un contributo alla comprensione reciproca alla pace del Medio Oriente”.
a cura di A. Dall’Osto