Chávez Villanueva Pascual
Giovani e vita consacrata
2018/9, p. 39
Una delle domande in vista del Sinodo riguarda anche la vita consacrata e il problema vocazionale in particolare. Su questo argomento riprendiamo ciò che don Pascual Chávez (SDB) ha scritto in un lungo intervento pubblicato su Sequela Christi.

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Problemi e sfide nel nuovo umanesimo
GIOVANI
E VITA CONSACRATA
Una delle domande in vista del Sinodo riguarda anche la vita consacrata e il problema vocazionale in particolare. Su questo argomento riprendiamo ciò che don Pascual Chávez (SDB) ha scritto in un lungo intervento pubblicato su Sequela Christi.
Nella sue riflessioni p. Chávez affronta direttamente la sfide e le difficoltà dei giovani d’oggi “per, con e nella” vita consacrata. Il discorso è collocato nel contesto più ampio del “nuovo umanesimo”, presente nel mondo d’oggi, per scoprire “dove si trovano i problemi, le fide ma anche le opportunità dei giovani nei confronti della vita consacrata”; e nello stesso tempo entro il problema del rapporto dei giovani con la religione.
Dopo una panoramica del nuovo umanesimo, e prima di affrontare direttamente il tema dei giovani e la vita consacrata, presenta un quadro su “I giovani e la religione”. Cita anzitutto uno studio sul difficile rapporto tra i giovani e la fede, di don Armando Matteo, che conosce bene il pianeta giovani perché è stato per anni assistente ecclesiastico nazionale della FUCI. Nel suo libro "La prima generazione incredula"1 fa un'analisi dalla quale risulta che ci troviamo di fronte alla prima generazione incredula perché non ha vissuto il processo di socializzazione religiosa che avveniva in famiglia fino agli anni '50 del secolo scorso. I motivi sono molteplici in particolare il venir meno di un orizzonte culturale, già sopra descritto, in cui la fede dava significato e orizzonti di comprensione e senso al mondo. Di questo mutamento culturale il '68 è un inizio ed esempio.
Più avanti l'autore cita tutte le battaglie perse da parte della Chiesa negli ultimi 400 anni, da Galileo agli inizi del comunismo, al modernismo, ecc. fino ad arrivare ad affermare che è importante invertire la linea di tendenza perché si rischia non solo di spezzare l'anello della trasmissione della fede, il che di fatto già accade, ma addirittura che scompaia il cristianesimo in Europa.
L'ironia della sorte è che la Chiesa si presenta come il luogo per “vivere e testimoniare la fede” a chi ancora non crede e non sa chi è Dio, perché questo richiede di avere un riferimento al trascendente. Invitiamo i giovani a dire preghiere ed essi non sanno e non sentono il bisogno di pregare. Perciò la Chiesa dovrebbe anzitutto divenire il luogo dove imparare a incontrare Dio in Cristo, a fare esperienza del suo amore, il luogo in cui imparare a credere prima che il luogo dove celebrare il credere.
La Chiesa afferma di preoccuparsi dei giovani, ma è organizzata con riti e orari per adulti e vecchietti: Messe, processioni, parole e catechesi con orari rigidi e per un pubblico forzato mentre i giovani partecipano solo se si sentono attratti e se ci si adatta alle loro esigenze.
La concausa di questa interruzione della trasmissione della fede è individuata nella società in genere che, da un lato, osanna la giovinezza e, dall'altro, la guarda con invidia, soprattutto tra gli adulti che rubano spazi e risorse destinate ai giovani; adulti quasi invidiosi della giovinezza perduta, adulti che hanno rinunciato ad essere adulti, cioè a fare della propria vita un dono per altre generazioni. I giovani, dal loro canto, privati di spazi e futuro, si abbandonano all'effimero o alla devianza come alcool e droghe, segno di questo malessere più generale.
In linea con il progetto storico di Chiesa di papa Francesco, che punta questa nuova tappa dell'evangelizzazione sul kerygma, ci vuole una Chiesa che si metta a dare tempi e spazi ai giovani, con voglia di ascoltarli senza risposte prefabbricate ed impegno ad accompagnarli come compagni di cammino, rivisitando strutture, distribuzione del personale ed orari. È una sorta di nuova “geografia della salvezza”. È, come detto prima, una questione di primaria importanza, di sopravvivenza del cristianesimo in Europa. Occorre essenzializzare fede e strutture e dedicare tempo al primo annuncio, prima che alla ritualità della fede.
Il nuovo umanesimo ha bisogno di un cristianesimo che riscopra con i giovani e per i giovani la carica umana e umanizzante del cristianesimo e con persone che abbiano il coraggio di fare insieme ai giovani ciò che annunciano: creare delle comunità alternative che vivano ciò di cui parlano, rinuncino all'idolatria del denaro e del potere e sperimentino la libertà di essere amati da Dio e quindi la capacità di amarsi e amare.
Un cristianesimo non più cronologico, fondato su un insieme di riti di passaggio legati alle tappe della vita, ma "kairologico". Questo comporta l'inventare kairoi, cioè "occasioni aperte a tutta la gamma di credenti di oggi: iniziative personalizzate grazie alle quali ciascuno possa calibrare la propria relazione con Dio prima che alla dottrina, alla causa del Regno prima che alle questioni morali, al senso della prossimità prima che alla ritualità ecclesiale".2
Un cristianesimo che si preoccupi più della trasmissione della grammatica della vita cristiana che non dell'indicazione di un modello unico di dichiarazione della propria fede. La fede non è uniforme: è sempre espressione della libertà del singolo, che, attraverso percorsi sotterranei e spesso complessi, si converte all'amore. Alcune comunità come Bose, Taizé e Camaldoli hanno fatto, secondo l'autore, questa essenzializzazione della fede e una felice sintesi con il contesto postmoderno.
È ovvio, dunque, che in una società sempre più secolarizzata e post-cristiana, come questa dell'Europa, la religione si sia indebolita nell'esperienza dei giovani e nella loro visione delle cose. Non è da meravigliarsi che l'universo simbolico religioso diventi per loro sempre più estraneo, e non solo per un problema di linguaggio – anche se questo è anche vero – ma per la difficoltà di credere in tutto quanto la fede afferma, celebra e chiede di vivere. Pensiamo solo alla questione della creazione, della Trinità, dell'incarnazione, della redenzione, del cielo... Sono cose tutte che, alla luce della ragione, sembrano non resistere alle evidenze razionali e restano come opinioni, scelte e valori personali, rispettabili, ma che non hanno nessun influsso nella vita politica e sociale.
A ciò si aggiunge la convinzione sempre più estesa che ci siano molte vie verso la verità religiosa, che tutte le religioni hanno un legame culturale e che dunque tutte siano valide, ma sempre come scelta personale, convinti che la religione ormai ha smesso d'essere il principio organizzativo della vita morale e sociale.
La realtà innegabile, agli occhi di tutti, è l'abbandono della Chiesa e delle sue strutture, come quella dell'oratorio, da parte dei giovani.
Questa diagnosi è riaffermata da due ultimi studi sociologici sui giovani e la fede. Mi riferisco all'indagine promossa dall'istituto Giuseppe Toniolo e raccolto da Rita Bichi nel suo libro "Dio a modo mio. Giovani e fede in Italia"3 e a quello di Franco Garelli dallo scottante titolo "Piccoli atei crescono. Davvero una generazione senza Dio?"4 I risultati dell'indagine ci dicono che la maggioranza dei giovani crede in Dio ma conosce poco Gesù, ama il Papa ma si chiede a cosa serva la Chiesa e ne fatica a comprendere il linguaggio, pensa che sia bello credere, ma prega a modo suo e non va a Messa, confonde la fede con l'etica. Raccontano l'incontro di fede come "obbligatorio", con la frequenza al catechismo, fatto "di regole e principi". Da notare che fondamentale per loro è la figura del sacerdote che segue i ragazzi, che i luoghi di cui i giovani hanno un buon ricordo sono la parrocchia e l'oratorio. L'inizio del cammino di fede si ha grazie alla famiglia ma, dopo la cresima, nella maggioranza dei casi, si ha un distacco dalla fede o dalla religione. Intorno ai venticinque anni, è però possibile un riavvicinamento dei giovani, spesso grazie all'incontro con una persona o per un evento importante.
Garelli, da una parte, riconosce che la rappresentazione che sempre più spesso viene data delle nuove generazioni è quella di atei, non credenti, increduli dovuta alla negazione di Dio e all'indifferenza religiosa che sta crescendo sensibilmente tra i giovani, anche per il diffondersi di un "ateismo pratico" tra quanti mantengono un legame labile con il cattolicesimo. Tuttavia, in linea con quanto detto sopra, la domanda di senso è vivace. Per molti il sentimento religioso si esprime nella propria interiorità personale, passando da una dimensione verticale (lo sguardo alla trascendenza) ad una orizzontale (la ricerca dell'armonia personale). Tenendo presente questo profondo mutamento, il volume mette in luce il "nuovo che avanza" a livello religioso.
Che stima hanno i giovani della vita consacrata?
A questo punto, la domanda è: qual è la stima hanno i giovani della vita consacrata? Anche se in Spagna, partecipando all'Assemblea della CONFER nell'ottobre 2014, prima di un mio intervento, una suora presentò il risultato di una sua ricerca sul posto che occupa la vita religiosa nell'immaginario dei giovani, che mi lasciò sbalordito nel sentire che stava proprio all'ultimo posto delle loro preferenze come scelta di vita, con espressioni dure come "a che serve in questo tempo la vostra vita?", "è uno spreco". Penso che i giovani, nell'insieme, abbiano simpatia per le scelte coraggiose che la vita religiosa comporta, ma non ci si identifichino più e pensino che essa non meriti la loro considerazione.
Il fatto evidente è che persino gli animatori, quelli che sono più vicini a noi, più coinvolti nella missione, si sentono bene con noi, partecipano a molte delle nostre attività, ma non vogliono essere religiosi. Non stupisce il fatto che le GMG siano piene di giovani entusiasti ma i seminari e le case di formazione siano vuote?
Le ragioni possono essere tante, culturali soprattutto, nel senso che in una società che ha fatto della libertà, del diritto a autodeterminarsi e autorealizzarsi un assoluto, della sessualità e del piacere un vero culto, e della ricchezza ciò che rende più agevole la vita, diventa assai difficile che l'obbedienza, castità e povertà possano essere visti come valori e, soprattutto, come scelte di vita.
Ma tra le ragioni c'è pure la mancanza di conoscenza di quello che costituisce l'identità dei consacrati, identificati sovente non per quello che sono ma per quello che fanno. I giovani e i nostri più immediati collaboratori ammirano la nostra instancabile laboriosità, ma non riescono a vedere le motivazioni più profonde: l'Assoluto di Dio, il fascino di Cristo, l'impegno per il suo Regno! E questa confusione tra 'missione' - essere testimoni e portatori dell'Amore di Dio - e 'servizi', educativi, sanitari, sociali, ha fatto sì che i giovani vedano i religiosi sempre meno presenti nelle opere, anche per il numero sempre più ridotto di personale e/o li trovino facendo servizi sociali che possono essere fatti dai laici. Anzi, nella pratica sono loro a portarle avanti, e alla gente interessa, in genere, più che rimanga l'opera per il servizio che offre che la permanenza dei consacrati e del loro carisma!
Ci sono pure visioni della realtà completamente diverse. Per quanto riguarda l'etica, "come mettere d'accordo l'idea cristiana del peccato in quanto trasgressione con la mentalità dei giovani che vede nella trasgressione l'unico contenuto della libertà?". E in riferimento al pensiero, "mentre la vita religiosa fa riferimento alla cultura storica, filosofica, umanistica, i giovani appartengono alla cultura tecnologica", che è una vera e propria visione della realtà e una filosofia della vita.5
E, ripeto, non è solo questione di linguaggio o di modalità della comunicazione, ma di valutazione delle esigenze strutturali della vita religiosa tanto distanti dalla sensibilità dei giovani di oggi: "la vita religiosa comporta la scelta univoca di un preciso impegno, mentre i giovani risultano sempre disponibili a passare dall'uno all'altro, con una mobilità sociale e ideale finora sconosciute", vale a dire "il diritto alla reversibilità" che postula la provvisorietà della scelta. "Diversa poi è la concezione del tempo della vita. I religiosi provengono da una cultura per la quale la storia si presenta come un disegno avviato verso un fine e il presente ha solo il valore di un punto strumentale di passaggio. Nei giovani invece il presente assume paradossalmente un valore inestimabile. Poco importa che la storia sia orientata ai fini ultimi; ciò che conta è l'oggi... per cui l'impegno verso una scelta che dura una vita.., è un modello che esce dal loro orizzonte".6
Last but not least, troviamo tra le ragioni, e non indifferenti, quelle interne alla vita consacrata, per cui non si può scaricare tutta la perdita del suo fascino a fattori esterni come la cultura imperante. In effetti, è fuori dubbio che atteggiamenti e comportamenti fuorvianti dei membri degli Ordini, Congregazioni e Istituti, come gli abusi sessuali contro minorenni e la loro gestione da parte dell'autorità competente, la mediocrità, l'imborghesimento, l'individualismo, il calo della vita spirituale, la mancanza di slancio missionario, hanno privato la nostra vita consacrata dell'incanto, all'interno delle istituzioni, e della credibilità all'esterno d'esse. L'incanto e la credibilità provengono dalla bellezza e radicalità dell'esperienza di Dio in Cristo che riempie il cuore di felicità, dalla gioia che porta con sé la fraternità, dalla pienezza che dà la totale consegna agli altri.
Come comunicare al giovane la bellezza e la validità della vita consacrata?
Penso che il linguaggio, verbale e gestuale, di Papa Francesco ci metta sulla strada giusta: ascolto empatico, immensa simpatia, accoglienza incondizionata, cordialità vera, apertura d'animo, rinuncia ad ogni tipo di dogmatismo e rigidità, verità avvolta da carità, chiara scelta per l'uomo sofferente, con l'atteggiamento misericordioso di Gesù, portatori della gioia del Vangelo.
L'unica campagna vocazionale che voglia essere visibile, credibile e feconda sarà la stessa vita dei consacrati, la testimonianza di una vita buona, bella, felice, che fa vedere persone pienamente realizzate in Cristo vivendo in comunità che siano veri focolari e non alberghi, portatori di un carisma e non semplici agenti di servizi, in uscita alle periferie esistenziali del mondo, sempre attenti ai bisogni dell'uomo e lasciandosi guidare dallo Spirito.
E la mediazione privilegiata non può essere altra che l'accompagnamento dei giovani nella ricerca del senso della vita e nella maturazione di progetti di vita condividendo con loro l'arte di insegnare a vivere, insegnare a con-vivere, insegnare a cercare la verità, insegnare ad essere felici. Mi azzardo quindi ad offrire alcuni spunti a modo di indicazioni.
Curare lo sviluppo integrale dei giovani
Ci vuole un tipo di educazione che previene il male attraverso la fiducia nel bene che esiste nel cuore di ogni giovane, che sviluppa le sue potenzialità con perseveranza e con pazienza, che ricostruisce l'identità personale di ciascuno. L'obiettivo è formare persone solidali, cittadini attivi e responsabili, persone aperte ai valori della vita e della fede, uomini e donne capaci di vivere con senso, con gioia, con responsabilità e competenza. Tradurre nell'oggi questa scelta richiede di assumere alcune opzioni fondamentali.
Accompagnare i giovani è aiutare ciascuno a diventare pienamente persona attraverso l'emergere della coscienza, lo sviluppo dell'intelligenza, la comprensione del proprio destino, cioè il senso della vita. Attorno a questo nodo si raccolgono i problemi e si scontrano le diverse concezioni dell'educazione.
Si avverte oggi una specie di scompenso tra libertà e senso etico, tra potere e coscienza, tra progresso tecnologico e progresso sociale. Tale scompenso è sovente indicato con altre espressioni: la corsa all'avere e la disattenzione verso l'essere, il desiderio di possedere e l'incapacità di condividere, il consumare senza riuscire a valorizzare. Si tratta di polarità ricche di energie, se la persona riesce a comporle. Sono distruttive, se si cambia la gerarchia dei valori e soprattutto se quella principale viene negata o appiattita. Fattori strutturali, correnti culturali, forme di vita sociale possono spingere fortemente in una direzione. L'accompagnamento richiederà sempre un atteggiamento positivo di discernimento, proposta e profezia. Presento alcune di queste polarità alle quali dobbiamo fare attenzione per poter rinnovare la nostra proposta educativa e mettere i ragazzi in condizione di fare scelte di vita coraggiose e impegnative, in qualsiasi stato di vita.
Complessità e libertà
Molti hanno l'impressione che viviamo in un mondo estremamente confuso a riguardo di ciò che è bene e di ciò che è male. I sociologi parlano di complessità, una situazione sociale e culturale dove molti sono i messaggi, molti i linguaggi con cui tali messaggi vengono comunicati, molte le concezioni di vita che vi stanno alla base, diverse e autonome le agenzie che se ne fanno promotrici, innumerevoli e incompatibili gli interessi che le spingono. E non c'è un'autorità capace di proporre autorevolmente e far accettare una visione comune del mondo e della vita umana, un sistema di norme morali, una visione dell'esistenza, un prezzario di valori comuni.
In queste condizioni i processi formativi risultano difficili. Gli adulti non si sentono in possesso di un patrimonio culturale sicuro. Il tempo per consegnarlo è poco e le interferenze sono innumerevoli. Il pacchetto di proposte di valori non sempre attira né viene capito nel suo insieme. La capacità propositiva tentenna e senza questo il giovane resta in balia delle proposte che provengono da altre 'agenzie educative'.
La conseguenza più vistosa per tutti, ma specialmente per le generazioni giovani, è il travaglio di orientarsi nella molteplicità di stimoli, problemi, visioni, proposte. Appaiono confuse le varie dimensioni della vita e non è facile cogliere il loro valore.
La debolezza della comunicazione culturale da parte della famiglia, della scuola, della società, dell'istituzione religiosa provoca difficoltà nel progettare la propria vita. Ciò si manifesta nella resa di fronte a conflitti e frustrazioni, nella fatica a prendere e mantenere decisioni a lungo termine, nel rinvio delle scelte di vita, nel non riuscire a riconoscersi nei modelli di identificazione che la società offre.
Il problema educativo dell'identità non è nuovo. In tutte le epoche i giovani hanno dovuto affrontarlo per rendersi consapevoli del proprio essere e collocarsi in forma positiva nel sistema sociale.
Nuova è la situazione nella quale esso oggi si plasma. Si combinano infatti diversi fattori che presentano simultaneamente vantaggi e difficoltà. Da una parte ci sono offerte più abbondanti e maggiore libertà. Sembra come se si dicesse al giovane: "scegli e fai da te". È una promessa di autonomia e una garanzia di autorealizzazione, ma in solitudine. Il deficit oggi non è di libertà, ma di consapevolezza e responsabilità, di sostegno e accompagnamento.
Presto perciò la persona si scontra con i propri limiti e contro le barriere che le oppone la società postindustriale: la concorrenza e la selezione in ogni ambito, il mercato del lavoro, il prolungamento della dipendenza, la ristrettezza degli spazi di partecipazione pubblica, la mancanza di alternative alla sua portata.
Ciò dà origine a un sentimento di precarietà che rende i giovani vulnerabili alla manipolazione, che nella nostra società agisce attraverso diversi canali. I processi di persuasione, orientati all'acquisizione di prodotti, determinano non poche delle loro preferenze, non solo di prodotti ma di modelli: il tipo d'uomo e di donna, l'immagine della bellezza e della felicità, la scala di valori, le forme di comportamento e la collocazione sociale. Questo ovviamente porta a ridurre i giovani ad essere dei perfetti consumatori, invece di protagonisti della propria vita e della società.
Soggettività e verità
L'emergere della soggettività è una delle chiavi per interpretare la cultura attuale. Essa è legata al riconoscimento della singolarità di ogni persona e del valore della sua esperienza e interiorità. Viene rivendicata da quei gruppi che per molto tempo si sono sentiti "oggetto" di leggi, di imposizioni di identità o di convenzioni sociali, che impedivano loro di esprimersi. Lasciata però al proprio dinamismo, senza riferimento alla verità, alla società e alla storia, la soggettività non riesce a realizzarsi e scivola verso lo smarrimento nelle scelte da fare e il "nihilismo", quell'«ospite inquieto», come è stato chiamato da qualche sociologo italiano, che certamente non orienta verso il senso della vita o progetti di vita, ma verso la semplice sopravvivenza.
La privatizzazione o elaborazione soggettiva appare maggiormente nell'etica e nella formazione della coscienza. L'esempio più alla mano, ma non l'unico, è quello della sessualità. In quest'ambito sono caduti i controlli sociali e a volte anche quelli familiari. C'è tolleranza pubblica e diritto a scelte diverse. Anzi, stampa, letteratura, spettacoli, e oggi più che mai il mondo di internet, spesso esaltano le trasgressioni e presentano le deviazioni come conseguenza di condizioni diverse. Qualsiasi dimensione etica, anche soltanto umana, viene trascurata, quando non ignorata, persino in programmi ufficiali ampiamente diffusi. Ci si preoccupa solo di vivere la sessualità in modo appagante e sicuro da rischi per la salute fisica o psichica. La si stacca dalle componenti che le danno senso e dignità.
La mancanza di riferimento alla verità si percepisce anche nelle regole che guidano l'attività economica e sociale. Sovente esse si ispirano a criteri individuati nel proprio ambito e al consenso tra le parti più forti. Non sempre rispondono al bene comune o ai fini dell'economia o della società. Anzi, sono sempre più chiaramente orientate ad erigersi come valori assoluti cui viene sacrificata la persona.
La qualità dell'educazione si giocherà nel colmare lo scompenso che appare tra possibilità di scelte e formazione della coscienza, tra verità e persona. Bisogna orientare a comprendere la portata storica delle proprie opzioni, ad equilibrare la soggettività selvaggia, a cogliere la consistenza obiettiva delle realtà e dei valori.
Profitto individuale e solidarietà
La complessità e la soggettivizzazione influiscono su una giusta composizione tra la ricerca del proprio profitto e l'apertura solidale agli altri.
C'è stata una stagione in cui si pensava possibile organizzare una società libera e giusta, che attraverso leggi e strutture provvedesse a condizioni di benessere per tutti. Molti giovani si erano appassionati alla trasformazione della società e alla liberazione dei popoli. La preparazione all'impegno politico era parte della formazione umana e della pratica della fede; costituiva un segno di responsabilità matura e generoso idealismo. Poi venne l'inverno delle utopie, la caduta delle ideologie e,con esse, dei progetti collettivi, il problema morale, la contrapposizione tra le istituzioni. Il confronto politico divenne rissoso. La politica diventò spettacolo e non fu sempre esemplare. Quindi seguì il crollo della sua quotazione e la disaffezione, resi evidenti dalla scarsa partecipazione, come stanno a dimostrare le ultime elezioni. Venne meno una certa visione pratica del bene comune e non ne subentrò nessun'altra che fosse organica e sperimentata; al contrario, si offrirono soltanto "briciole" di reciproca buona volontà sociale. Appunto, dinanzi a questo scenario culturale, sociale e politico, l'acuta analisi di Zigmunt Bauman lo portò a parlare della 'società liquida' e della 'cultura biodegradabile'.
Noi oggi stiamo vivendo l'era del "mercato", come mentalità e come inquadratura del sociale. Al momento, va guadagnando terreno una concezione individualista del sociale. La società viene considerata una somma di individui, ognuno dei quali è portato a cercare il suo interesse personale, l'appagamento dei suoi bisogni, potenzialmente illimitati. È il primato dei desideri e dei diritti individuali.
In questa tensione incessante verso la soddisfazione di bisogni artificiali si diventa sordi ai bisogni fondamentali e autentici, propri ed altrui. Gli ideali di giustizia sociale, di solidarietà, di fraternità finiscono per diventare formule vuote, considerate impraticabili.
Non è dunque infondata la conclusione di chi vede nel mercato il principale ostacolo morale, culturale e legale, perché cresca una mentalità solidale in adulti e giovani, a tutti i livelli. Su questo Papa Francesco è stato assai chiaro dall'inizio del suo pontificato. Basterebbe pensare ai suoi diversi interventi al Parlamento europeo, all'ONU, i suoi atteggiamenti e le sue parole a riguardo dei poveri, degli immigranti, dei profughi, il suo Magistero (cf. IV parte di Evangelii gaudium; Enciclica Sociale Laudato si’).
Maturazione della fede in vista di progetti di vita
Complessità, soggettività e concezione individuale della persona influiscono sulla maturazione della fede dei giovani, che è sostanzialmente apertura, comunione e accoglienza della realtà della vita e della storia.
Impressionano oggi due fenomeni. C'è una religiosità diffusa che prende le strade più diverse. Essa risponde alla ricerca di senso in una società che non provvede a darlo, alla percezione vaga di un'altra dimensione dell'esistenza che rimane inespressa. Insieme ad essa però si nota una carenza di fondamenti e motivazioni oggettive e dunque una rottura tra esperienza religiosa, concezione di vita e scelte etiche. Anche le verità religiose vengono ridotte ad opinioni. La mediazione della Chiesa diventa problematica e molto di più quella dei suoi singoli ministri o rappresentanti; se ne usufruisce in forma selettiva.
C'è una minoranza che approfondisce, gusta e matura l'esperienza cristiana e la esprime nella fede, nel senso ecclesiale e nell'impegno sociale. C'è però anche un grande numero di giovani che, dopo aver sentito l'annuncio, si va allontanando dalla fede senza rimpianto. L'età della formazione religiosa si è allungata, e non sempre conta su proposte che la ricoprano interamente.
Tutto ciò tinge la fede di forte soggettivismo. Slegata dalla concretezza degli avvenimenti storici della salvezza, essa diventa estremamente fragile, una specie di bene di consumo, di cui ciascuno fa l'uso che gli aggrada. La si giustappone così agli altri aspetti della vita e del pensiero che si vanno plasmando autonomamente. Il rischio della separazione tra la vita e la fede, tra questa e la cultura è la condizione in cui ci troviamo tutti, in cui crescono oggi i giovani. E ciò in un'epoca in cui la Chiesa; stimolata dalla testimonianza di Papa Francesco, dà segni di vitalità comunitaria, di maggiore impegno sociale, di spinta missionaria.
Conclusione
Quali risposte a queste invocazioni dei giovani si possono aspettare dai diversi Istituti di vita consacrata? In concreto, quali energie possiamo noi attivare, sì da indurre un cambio di trend, anche e soprattutto per il bene della società e non solo per avere la speranza di maggior numero di vocazioni?
Innanzitutto, dobbiamo prendere coscienza che oggi le nostre opere non parlano con la stessa eloquenza del passato, il messaggio che vogliamo far passare non viene capito né colto dai giovani, da qui l'inevitabile perdita di rilevanza sociale. Oggi le presenze significative sono quelle che suscitano degli interrogativi su chi siamo, quali sono i valori che professiamo, quale sia la nostra idealità, e quindi presenze capaci di coinvolgere.
Ugualmente dobbiamo avere in mente che la nostra significatività nella vita dei giovani dipende da tre fattori: la credibilità dell'offerta in rapporto alla situazione che loro vivono, l'autorevolezza del testimone, la capacità di comunicazione.
C'è dunque una scommessa per noi: esprimere un orientamento e una proposta senza rifuggire la complessità e l'esigenza della soggettività e senza lasciarsi omologare. Ciò comporta apertura al positivo, ancoraggio saldo ai punti da cui la vita umana prende significato, capacità di discernimento. Ecco tre aspetti che, insieme alle esperienze forti in cui si deve sperimentare ciascuno di essi, come Istituti dovremmo curare in modo speciale.
Insomma, a noi dovrebbe preoccupare non tanto la ricerca di vocazioni come se questa fosse 'la' missione, ma la raccolta di vocazioni come frutto della nostra missione. Questo sarà possibile se riusciamo a far sì che i giovani, attraverso la parola e la nostra testimonianza, scoprano il senso della vita, vale a dire, la vita come un dono, vissuta nella propria autodonazione.
Questo sarà possibile nella misura in cui scopriranno che Dio non è una minaccia per la loro felicità, anzi che solo Lui può appagare i loro aneliti più profondi, riempire di dinamismo la loro esistenza e dare loro la capacità di essere felici e buoni. Questo sarà possibile se si sentiranno motivati a sognare in grande, a non sprecare la loro giovinezza, a mettere in gioco la propria vita per la formazione personale e la trasformazione della società, ad avere progetti di vita e diventare persone per gli altri, perché solo l'Amore ha la capacità di aiutarli a raggiungere la statura di uomini perfetti e a vincere la morte.
Pascual Chávez Villanueva, SDB,
Rettore Maggiore Emerito
1 ARMANDO MATTEO, La prima generazione incredula, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli 2010 Si potrebbe inoltre fare riferimento agli studi di Giovanni Dalpiaz ("Visti con occhi dei giovani". Ricerca tra i giovani del nord/est), del sociologo Alberto Melucci, di Franco Garelli specificamente su giovani e religione, di Umberto Galimberti sulla cultura giovanile. Nell'ambito spagnolo abbiamo gli studi sociologici della Fondazione Santa Maria.
2 A. MATTEO, oc, 78.
3 RITA BICHI, Dio a modo mio. Giovani e fede in Italia. Ed. Vita e Pensiero, 2015.
4 Franco GARELLI, Piccoli atei crescono. Davvero una generazione senza Dio? Il Mulino, 2016.
5 Rino Cozza, Nella società dell'informazione. Come parlare ai giovani di vita consacrata? in Testimoni, 712010, 9-11.