Chiaro Mario
L'attacco ai diritti umani
2018/9, p. 29
Dai dati diffusi da Amnesty risulta un quadro mondiale assai fosco, sia per le politiche adottate in molti Paesi sia per i loro riflessi sul piano economico. Sono anni che denunciano queste situazioni, ma la realtà anziché migliorare tende a peggiorare, scaricando i suoi nefasti effetti sui paesi più poveri e le fasce più deboli.

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I due ultimi Rapporti di Amnesty International
L’ATTACCO
AI DIRITTI UMANI
Dai dati diffusi da Amnesty risulta un quadro mondiale assai fosco, sia per le politiche adottate in molti Paesi sia per i loro riflessi sul piano economico. Sono anni che denunciano queste situazioni, ma la realtà anziché migliorare tende a peggiorare, scaricando i suoi nefasti effetti sui paesi più poveri e le fasce più deboli.
Oggi occorre monitorare e contrastare in modo particolare le cosiddette “politiche della demonizzazione” che alimentano conflittualità e paura. Questo è l’allarme di fondo lanciato da Amnesty International attraverso i suoi due ultimi Rapporti (2016-2017 e 2017-2018) riguardanti i diritti umani nel mondo. L’organizzazione governativa denuncia che proprio nel 2016 il cinico uso del messaggio ‘noi contro loro’, basato su odio e paura, ha raggiunto livelli che non si vedevano dagli anni 1930! «Un numero elevato di politici sta rispondendo ai legittimi timori nel campo economico e della sicurezza con una pericolosa e divisiva manipolazione delle politiche identitarie allo scopo di ottenere consenso» (Salil Shetty, segretario generale di Amnesty). Così la ‘fabbrica’ che produce divisione e paura ha assunto una forza pericolosa nelle questioni mondiali: dallo statunitense Trump all’ungherese Orbán, dal turco Erdoğan al filippino Duterte, politici che si definiscono anti-sistema presentano un’agenda che perseguita, usa come capri espiatori e disumanizza interi gruppi di persone. Amnesty denuncia che 36 paesi hanno violato il diritto internazionale rimandando illegalmente i rifugiati nei paesi dove i loro diritti umani sono in pericolo. In particolare si punta il dito contro l’Unione europea, che ha firmato “un accordo illegale e irresponsabile con la Turchia per rimandare indietro i rifugiati in un contesto insicuro”.
La storia insegna che la battaglia per i diritti umani non è mai vinta definitivamente, anche perché i confini si spostano di continuo. Gli attacchi ai valori su cui si basano i diritti umani, che affermano la dignità e l’uguaglianza di tutte le persone, hanno ormai assunto vaste proporzioni. Amnesty International considera quattro direttrici che influiscono negativamente sul diritto umanitario:
a) i conflitti, alimentati dal commercio internazionale di armi, che continuano ad avere effetti devastanti sui civili (cf. la catastrofe umanitaria dello Yemen; le uccisioni indiscriminate di civili compiute da forze governative e internazionali; l’uso dei civili come scudi umani da parte del gruppo armato autoproclamatosi Stato islamico in Iraq e Siria; i crimini che generano enormi flussi di rifugiati dal Sud Sudan);
b) la crisi globale dei rifugiati che viene affrontata dai leader dei paesi ricchi riferendosi ad essi non come a esseri umani ma come a ‘problemi da evitare’ (cf. la decisione di Trump di vietare l’ingresso a tutti i cittadini di diversi paesi a maggioranza musulmana, sulla base della loro nazionalità; la riluttanza dei capi europei a disciplinare la migrazione in modo sicuro e legale, adottando politiche che tengono i rifugiati lontani dalle coste del continente…le conseguenze di questo approccio sono i terribili abusi subiti dai rifugiati in Libia);
c) le elezioni politiche che sono giocate sull’odio e sulla paura (in paesi come Austria, Germania, Paesi Bassi e Italia. Alcuni candidati hanno cercato di trasformare le preoccupazioni sociali ed economiche in paura, attribuendo la colpa dell’incertezza sociale in particolar modo a migranti economici, rifugiati e minoranze religiose);
d) la retorica della sicurezza nazionale e dell’antiterrorismo che ha continuato a fornire una giustificazione ai governi che cercano di cambiare l’equilibrio tra poteri dello stato e libertà personali, scivolando così verso un sistema politico fatto di misure di sicurezza semipermanenti.
Proteste
e repressioni
In questo scenario, nell’anno 2017, nuove e gravi minacce hanno dato una nuova spinta allo spirito di protesta. In Polonia, un grave attacco all’indipendenza della magistratura ha portato in strada un gran numero di persone. In Zimbabwe in migliaia hanno marciato per portare a compimento la battaglia decennale contro le politiche autoritarie e per chiedere vere elezioni nel 2018. In India, la crescente islamofobia e un’ondata di linciaggi di musulmani e dalit (indiani fuori casta) hanno provocato proteste espresse con lo slogan Non nel mio nome. Una grande marcia in occasione della Giornata internazionale delle donne, partita negli Usa e con eventi collegati in tutto il mondo, è diventata uno dei più grandi eventi di protesta collettiva della storia. E ancora, a livello globale, il movimento femminile di protesta con lo slogan MeToo (‘Anche-Io’) ha fatto emergere la moltiplicazione di abusi e molestie sessuali.
Ovviamente continua a crescere il prezzo da pagare per opporsi in questo modo all’ingiustizia. Così in Turchia, l’attacco spietato del governo di Erdogan alla società civile, sull’onda del fallito colpo di stato del 2016, è continuato a ritmo serrato finendo per colpire migliaia di persone. Dal canto suo la Cina ha messo in atto un giro di vite prendendo di mira persone e organizzazioni percepite come critiche verso il governo, in nome della “sicurezza nazionale”. A seguito di diffuse proteste in Russia, centinaia di manifestanti pacifici, passanti e giornalisti sono stati arrestati e maltrattati, anche con detenzioni arbitrarie e pesanti multe. Nella maggior parte del Continente africano l’intolleranza verso le proteste si è manifestata con dure repressioni in paesi come Repubblica Democratica del Congo, Sierra Leone, Togo e Uganda. In Venezuela centinaia di persone sono state detenute arbitrariamente e molte altre hanno subìto le conseguenze della violenza da parte delle forze di sicurezza, in risposta alle proteste contro l’aumento dell’inflazione, la carenza di cibo e di farmaci. In Egitto le autorità hanno duramente limitato la libertà di criticare il governo, chiudendo o congelando i beni delle organizzazioni non governative, emanando leggi che prevedono cinque anni di carcere per la pubblicazione di una ricerca senza il permesso del governo, condannando giornalisti e centinaia di oppositori politici a pene carcerarie. In Iran sono emerse denunce secondo cui le forze di sicurezza hanno ucciso e ferito manifestanti disarmati; a centinaia sono stati arrestati e detenuti in carceri dove vige l’uso della tortura e di altri maltrattamenti. In generale, nel mondo tanti ‘difensori dei diritti umani’ sono presi di mira per aver contrastato profondi interessi economici, per aver difeso minoranze o aver cercato di rimuovere gli ostacoli posti ai diritti delle donne e delle persone Lgbt (sigla indicante persone lesbiche, gay, bisessuali e transgender).
Diritto d’informazione
e false notizie
La violazione dei diritti umani corre ormai anche nei nostri spazi pubblici online, dove sono ancora deboli gli strumenti per affrontare le sfide emergenti: la valanga di abusi online (specialmente contro le donne) e l’incitamento all’odio verso le minoranze hanno provocato una risposta inconsistente da parte delle compagnie che gestiscono i social media e azioni insufficienti da parte dei governi. L’utilizzazione di notizie false (fake news), come mezzo per manipolare l’opinione pubblica, fa sorgere domande sull’accesso delle persone all’informazione. Queste preoccupazioni sono aggravate dalla concentrazione, nelle mani di poche aziende, del controllo sulle informazioni online e da una grande asimmetria di potere tra i singoli individui, le compagnie e i governi che controllano una vasta quantità di dati. In questo modo i confini artificiali innalzati da una politica della demonizzazione diventano ancor più invalicabili. Perciò il Rapporto 2017-2018 sostiene l’urgenza di «rifiutare una narrazione dei fatti basata sulla demonizzazione e costruire invece una cultura di solidarietà. Dobbiamo migliorare la nostra capacità di essere generosi verso gli altri. Dobbiamo riaffermare il diritto di tutte le persone a partecipare alla costruzione delle società alle quali appartengono. E dobbiamo cercare risposte costruttive, basate sui diritti umani, alle frustrazioni, alla rabbia e all’alienazione, che forniscono un contesto fertile per una narrazione dei fatti tossica e intrisa di colpa».
Diritti umani
e politiche di austerità
Importante e originale, nel Rapporto 2017-2018, l’analisi di Amnesty riguardante la correlazione tra i diritti umani e le politiche di austerità che coinvolgono milioni di persone in tutto il mondo. La portata dell’austerità e le statistiche che la riguardano nascondono il peso che queste misure hanno sulla vita quotidiana di persone singole e di famiglie. Dall’inizio della crisi finanziaria del 2008, l’austerità è diventato un problema globale: questo “strumento” ‒ con il quale i governi cercano di ridurre il deficit delle finanze pubbliche e principalmente il debito pubblico ‒ prevede tagli alle spese a volte uniti a un aumento delle tasse: misure che colpiscono più duramente le persone povere per l’innalzamento dei prezzi dei beni di prima necessità. Perciò l’austerità è una questione che riguarda i diritti umani, avendo un impatto sull’accesso della popolazione a istruzione, salute, casa, previdenza sociale e altri diritti economici e sociali (per esempio, in Inghilterra, una ricerca ha collegato circa 120mila morti ai tagli all’assistenza socio-sanitaria!).
Amnesty denuncia che nell’Africa subsahariana i sussidi per i poveri e la previdenza sociale sono stati tutti tagliati in un momento in cui le imposte sui consumi sono state aumentate. Altri paesi, tra cui Botswana, Burundi, Mauritius, Mozambico, Namibia e Togo, hanno continuato a ricevere dal Fondo monetario internazionale (Fmi) il “consiglio” di mantenere in vigore le misure di austerità, nonostante che nel 2012 proprio lo stesso Fmi avesse ammesso che questo approccio non è sempre giustificato e può minacciare la crescita economica necessaria per coprire i costi dei servizi da parte dello stato. Nell’Africa del Nord, il governo algerino ha risposto alla caduta del prezzo del petrolio con l’applicazione di drastici tagli alle spese nel suo bilancio 2017, insieme a un aumento dell’Iva dal 2% al 19%; le politiche creditizie del Fmi hanno spinto anche il governo egiziano ad aumentare i prezzi di beni di prima necessità e servizi.
Cambiando continente, in Brasile la decisione senza precedenti d’imporre per 20 anni un tetto alla spesa pubblica ha suscitato forti critiche. Anche le economie delle regioni dell’Asia e del Medio Oriente sono state compromesse in modo simile dalle misure di austerità: durante il 2017, in Indonesia, Mongolia e Sri Lanka, sono stati applicati tagli alla spesa pubblica; paesi ricchi come il Qatar o l’Arabia Saudita hanno tagliato i loro bilanci per diminuire i deficit dello stato, a scapito della protezione sociale.
In assenza di appropriate reti di sicurezza sociale, tali misure di austerità rischiano dunque di violare gli obblighi dei vari governi in tema di diritti umani e gli impegni assunti secondo l’Agenda globale 2030 per lo sviluppo sostenibile. Alcuni commentatori hanno previsto una sorta di apocalisse dell’austerità: nei prossimi tre anni oltre due terzi di tutti i paesi potrebbero essere colpiti dall’austerità, con conseguenze su oltre 6 miliardi di persone e con la perdita del 7% del prodotto interno lordo a livello globale. Si stima che il costo umano includerà milioni di persone senza lavoro, compresi 2,4mln di persone in paesi a basso reddito con poche prospettive di trovare un impiego alternativo. In questa grave situazione, gli standard dei diritti umani richiedono che le misure applicate garantiscano che nessuno sia lasciato cadere al di sotto della soglia di sicurezza minima, necessaria per assicurare una vita dignitosa. «Non c’è dubbio che molti governi siano sotto pressione per gestire i bilanci. Ma stanno usando al meglio tutte le potenziali risorse a loro disposizione, come viene loro richiesto dalle normative in materia di diritti umani?».
A novembre 2017 sono stati diffusi i cosiddetti “Paradise papers”, che hanno rilevato la vasta estensione dell’evasione delle tasse e un’elusione fiscale in tutto il mondo, dimostrando il sistematico fallimento dei governi nel bloccare le scappatoie, nel monitorare e affrontare gli abusi. Oltre ai ben noti paradisi fiscali, uno studio del 2017 ha mostrato che alcuni paesi (tra cui Irlanda, Nuova Zelanda, Regno Unito, Singapore e Svizzera) facilitano l’evasione fiscale da parte di persone di altri paesi: a livello globale; il dato annuale raggiungerebbe i 10mila miliardi di dollari Usa.
Secondo Amnesty, in tempi eccezionali occorre prendere in considerazione alternative radicali: tra queste c’è la proposta di un salario minimo universale, che garantisca a tutti denaro sufficiente per vivere, indipendentemente dalle circostanze. Un’altra proposta prevede il pagamento da parte dello Stato di tutti i basilari servizi sociali, piuttosto che lasciarli in mano al libero mercato. «Mentre l’austerità continua ad attanagliare tutto il mondo, le persone e le comunità lottano per difendere i diritti umani. Le loro voci e la visione alternativa che propongono devono essere ascoltate».
Mario Chiaro