Chiaro Mario
Quando la fede spezza le catene
2018/7, p. 46
Grègoire Ahongbonon, un africano del Benin di sessantacinque anni, senza alcuna preparazione medica e psichiatrica, da oltre venticinque anni si occupa proprio di malati mentali con realizzazioni ispirate alla loro liberazione da ogni tipo di violenza (in Benin, Burkina Faso, Costa d’Avorio e Togo). Un recente volume, a cura di Rodolfo Casadei (Grègoire. Quando la fede spezza le catene, EMI), ci fa conoscere come si possa esprimere, in condizioni di vita molto difficili, una psichiatria fondata sulla relazione e sull’ascolto.

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NOVITà LIBRARIA
Liberare i malati mentali
dalle catene
Quest’anno ricorrono i quarant’anni della Legge 180/1978, più nota come legge “Basaglia”, dal nome del promotore della riforma psichiatrica in Italia. Si è trattato di un provvedimento che ha segnato un vero primato nella storia della medicina. Lo psichiatra Franco Basaglia s’impegnò nel compito di riformare l’organizzazione dell’assistenza psichiatrica ospedaliera e territoriale, con il superamento della logica manicomiale. Come ebbe a dichiarare: «Non è importante tanto il fatto che in futuro ci siano o meno manicomi e cliniche chiuse, è importante che noi adesso abbiamo provato che si può fare diversamente, ora sappiamo che c’è un altro modo di affrontare la questione; anche senza la costrizione». La Legge 180 è così diventata la prima legge quadro nel mondo che impose la chiusura dei manicomi e regolamentò il trattamento sanitario obbligatorio, istituendo i servizi di igiene mentale pubblici.
Un Basaglia per l’Africa
Grègoire Ahongbonon, un africano del Benin di sessantacinque anni, senza alcuna preparazione medica e psichiatrica, da oltre venticinque anni si occupa proprio di malati mentali con realizzazioni ispirate alla loro liberazione da ogni tipo di violenza (in Benin, Burkina Faso, Costa d’Avorio e Togo). Un recente volume, a cura di Rodolfo Casadei (Grègoire. Quando la fede spezza le catene, EMI), ci fa conoscere come si possa esprimere, in condizioni di vita molto difficili, una psichiatria fondata sulla relazione e sull’ascolto. Le pagine descrivono le condizioni di vita dei malati mentali nei paesi africani: segnati da uno stigma che crea alienazione e discriminazione, considerati come indemoniati, incatenati, abbandonati a se stessi sulle strade. Grègoire (conosciuto come il “Basaglia d’Africa”) e l’associazione da lui fondata - dedicata a san Camillo de Lellis e composta di volontari, anche medici e infermieri - hanno accolto e assistito 60mila malati di mente con farmaci di prima generazione. Attualmente sono 25mila i malati ospitati in centri di accoglienza e di reinserimento.
Il ventenne Grègoire, partito in cerca di fortuna in Costa d’Avorio, diventato gestore di una piccola flotta di taxi, mette su famiglia; ma gli affari non vanno bene e finisce sul lastrico arrivando così a un passo dal suicidio. Un missionario viene in suo aiuto e gli offre un pellegrinaggio in Terra Santa, dal quale esce trasformato. È colpito in particolare da una frase dell’abruzzese san Camillo de Lellis (fondatore dell’ordine dei Camilliani): “ i malati sono la pupilla e il cuore di Dio. Rispettateli”. Così comincia a liberare i malati messi ai ceppi dalle famiglie disperate, quelli lasciati in campi di “preghiera e guarigioni” dove subiscono digiuni e frustate da parte di sedicenti profeti che pretendono di scacciare gli spiriti malvagi della malattia psichica. La sua battaglia culturale si concentra sul cambiare concezione africana della malattia e della sua cura puntando a superare le diffuse spiegazioni che fanno riferimento alla stregoneria e all’azione diabolica.
Il carisma: malati che curano i malati
Il fondatore è sin dall’inizio molto attento a non mostrare alcuna forma di venalità. «Questa non è la mia opera, è un’opera della Provvidenza», spiega Grègoire. «E io non posso fare i conti in tasca alla Provvidenza, come non posso dire a un malato “non ho risorse per te”. Dio provvederà al suo gregge, e se non provvede significa che è giusto così». Il padre camilliano Thierry de Rodellec, responsabile di un centro in Benin descrive il fondamento di questo servizio: «il carisma di quest’opera è di avere uno sguardo sui malati diverso da quello della psichiatria ufficiale. Non c’è più la barriera fra chi cura e chi è curato, gli uni e gli altri si ritrovano su un piede di parità. I primi momenti dell’approccio al malato, quando viene recuperato dalla strada o quando arriva al centro condotto dai parenti, sono quelli decisivi: lui percepisce uno sguardo su di sé che per anni nessuno gli ha riservato. Quando comincia a stare meglio, accetta con entusiasmo la proposta di occuparsi lui a sua volta dei nuovi malati. Così si crea una comunità terapeutica vera, dove i malati curano i malati». Una psichiatria comunitaria come originale “prodotto” africano!
In ogni incontro in cui è invitato a dare la sua testimonianza, c’è sempre un momento in cui Grègoire si ferma, solleva e mostra una grossa catena arrugginita passandosela attorno al collo per spiegare quale trattamento subiscono i malati mentali in Africa. Alzando la voce, afferma che è inammissibile che nel XXI secolo ci siano ancora esseri umani trattati in questo modo e che nessuna persona al mondo potrà dirsi libero fino a quando anche un solo malato mentale sarà in catene.
La paura della pazzia
Quest’uomo non è un ingenuo e neppure un idealista: sa che a volte i pazzi possono diventare pericolosi, ma sa anche che le catene non sono terapeutiche perché peggiorano le condizioni psicologiche e fisiche del malato. La verità è che i malati mentali fanno paura. La malattia è la versione simbolica di una paura universale: quella di diventare pazzi a propria volta, isolati e inavvicinabili da tutti, trascinati nella follia dagli stessi malati psichici a causa di contatti ravvicinati. Questa paura si è materializzata in tutta la sua forza terrificante la vigilia della domenica delle Palme del 1994, quando Grègoire riceve la telefonata di una donna che chiede aiuto per il fratello incatenato dalla sua famiglia dentro una capanna. Era la prima volta che qualcuno gli parlava di malati incatenati: «Avevo visto tanti pazzi in pessime condizioni, in stato di abbandono per la strada, ma la scena che mi si è presentata davanti, quella notte, è stata sconvolgente. L’uomo era incatenato al suolo nella stessa posizione di Gesù in croce, le braccia e le gambe bloccate dal fil di ferro…Il ferro era entrato dentro la carne, si confondeva con la carne… Era veramente marcio, coperto di ascessi». Il ventunenne Kouakou, che morirà poco dopo per una setticemia troppo avanzata, dice al suo liberatore: «Signore, non so come ringraziarvi. Non capisco perché i miei genitori mi hanno fatto questo, io non sono cattivo». Grazie a Grègoire, quel giovane almeno è morto con dignità, come un uomo.
Mario Chiaro