La demografia nell’Italia del 2017: una fotografia sempre più critica
2018/7, p. 18
Un calo di 105 mila abitanti, associato a 15 mila nati
in meno e a 34 mila morti in più danno subito
l’idea di un bilancio demografico che dovrebbe avere
tutti i caratteri della eccezionalità. Se non fosse che è
ormai il “normale” resoconto per una popolazione come
è quella italiana del nostro tempo. I dati che Istat via
via ci propone – così come ha puntualmente fatto con
il recente bilancio demografico del 2017 – ci stanno abituando
a uno stato d’animo che va dalla disperazione
alla rassegnazione.
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La demografia nell’Italia del 2017:
una fotografia sempre più critica
Un calo di 105 mila abitanti, associato a 15 mila nati in meno e a 34 mila morti in più danno subito l’idea di un bilancio demografico che dovrebbe avere tutti i caratteri della eccezionalità. Se non fosse che è ormai il “normale” resoconto per una popolazione come è quella italiana del nostro tempo. I dati che Istat via via ci propone – così come ha puntualmente fatto con il recente bilancio demografico del 2017 – ci stanno abituando a uno stato d’animo che va dalla disperazione alla rassegnazione. Ogni anno si migliora al ribasso il record della natalità (siamo scesi a 458mila nel 2017), si perde un certo numero di residenti (105 mila lo scorso anno) e, mentre la frequenza di decessi segue un’altalena tra annate di picco e rientri col “cessato allarme”, sale il peso relativo della componente più anziana: 13,6 milioni di ultra65enni di cui 4,2 di ultra80enni, entro una popolazione di 60,5 milioni di abitanti.
Vale ancora la pena di sottolineare come nel 2017 il saldo naturale – differenza tra nati e morti – sia risultato negativo per 191 mila unità, segnando un deficit che rappresenta un punto di massimo. Un risultato che nella storia d’Italia è stato peggiore solo un secolo fa -nel 1917 e nel 1918- ma per motivi largamente comprensibili. Nel complesso, si può dire durante gli ultimi dieci anni il saldo (negativo) del movimento naturale abbia sottratto alla popolazione italiana 858 mila residenti che tuttavia, almeno fino a quando si sono avuti flussi netti (positivi) dall’estero piuttosto consistenti, hanno trovato adeguata compensazione grazie al contributo della dinamica migratoria. Ma allorché quest’ultima ha segnato un rallentamento, anche la stessa crescita della popolazione si è trasformata in negativa: i 105 mila residenti in meno del 2017, di cui si è detto, sono infatti stati preceduti da un calo di 77 mila e di 130 mila unità, rispettivamente, nel 2016 e nel 2015.
Figura 1 – Italia: movimento naturale della popolazione residente. Anni 1968-2017 (migliaia)
Fonte: Istat, bilancio anagrafico
A partire dal sintetico resoconto sulla demografia di quest’Italia sempre meno vitale non mancano certo argomentazioni e stimoli per indurci a riflettere su “come mai” siamo arrivati a vivere una crisi di questa portata, e al tempo stesso per chiederci: “con quali modalità e fino a che punto” potremo (e sapremo) venirne fuori, auspicabilmente in fretta e col minor danno possibile.
Non vi è dubbio che dietro al continuo calo della natalità vi siano i numerosi ostacoli che si riscontrano lungo il percorso che porta i giovani alla vita di coppia e quindi alla genitorialità. Ostacoli che spesso, strada facendo, modificano al ribasso i modelli e le aspettative. Perché i figli costano e in molti casi condizionano le scelte e la stessa qualità della vita dei genitori (il lavoro, la casa, il tempo libero), senza che questi ultimi possano contare su un adeguato sostegno da parte della società, sia in termini di aiuti concreti (in denaro o sotto forma di servizi), sia attraverso un clima culturale amichevole e gratificante.
Mancano forme di aiuto da parte di quella stessa società alla quale gli “eroici” genitori – primi fra tutti quelli che osano spingersi oltre il secondo figlio – contribuiscono a garantire continuità e equilibrio producendo il necessario capitale umano. Non è dunque sorprendente prendere atto della progressiva caduta tra il modello ideale dei due figli per coppia, che ancora sembra mediamente presente nell’immaginario dei giovani italiani, e la realtà degli 1,3 figli pro capite che essi poi mettono effettivamente al mondo alle condizioni attuali.
Al tempo stesso non deve certo consolarci l’osservazione secondo cui la discesa della natalità risulta presente pressoché in tutte le popolazioni economicamente più sviluppate e non è solo una prerogativa italiana. Anche perché altrove – in Francia, Regno Unito, Svezia, o ancor più negli Stati Uniti, tanto per fare qualche esempio – il calo è stato ed è comunque più contenuto e le sue conseguenze, in termini di crescita della popolazione e di invecchiamento della struttura per età, appaiono decisamente meno drammatiche.
Accanto ai dati sulle componenti naturali della dinamica e sul bilancio di un’immigrazione che, nonostante l’enfasi e il vivace dibattito che l’accompagna, non è più in grado di compensarne gli effetti negativi sulla crescita demografica, c’è l’altra grande problematica emergente (e diretta conseguenza del calo della natalità): il profondo cambiamento nella struttura per età della popolazione.
Dai dati al 1° gennaio del 2018 si rileva che il 23% dei residenti in Italia ha almeno 65 anni, mentre dieci anni prima la corrispondente percentuale era solo del 20%. È l’implacabile sviluppo di un processo che è iniziato da lungo tempo e che, stando alle previsioni che lo stesso Istat ha recentemente elaborato, porterà la quota di ultra 65enni al 26% fra dieci anni e al 31% fra altri dieci. In termini assoluti tale componente passerà, nell’arco di un ventennio, dai 13,5 milioni attuali a 18,5 milioni di unità, con all’interno di questi ultimi quasi 6 milioni di “over 80”.
In particolare, riguardo alla consistenza numerica di coloro che possono classificarsi come “grandi vecchi” gli scenari dell’Istat prospettano per il 2037 oltre mezzo milione di ultranovantenni in più (rispetto agli attuali 700mila circa) ed evidenziano persino un incremento di 30 mila unità tra gli ultracentenari (oggi 17 mila). Va da sé che, con tali radicali trasformazioni, l’Italia sarà sempre più chiamata ad affrontare importanti problematiche di equilibrio sul terreno del welfare (pensioni e sanità). Per altro con il pesante interrogativo circa la disponibilità di un potenziale produttivo (forza lavoro) sufficiente a garantire le risorse necessarie per mantenere la qualità della vita in un contesto sociale sempre più “maturo”, se è vero che le previsioni segnalano per il 2037 un calo di oltre 4 milioni di residenti in età attiva (20-64anni).
In conclusione, il messaggio che deve leggersi nei dati statistici che via via si succedono, caratterizzando la drammaticità del “caso Italia” – ma che valgono anche in molte altre nazioni della “vecchia Europa” e del Mondo che si qualifica come più sviluppato – è che l’inverno demografico che vive il nostro Paese non è solo un fatto congiunturale legato a fenomeni di debolezza economica. È il segnale di un malessere che affligge l’Italia da lungo tempo e che è stato costantemente ignorato o quanto meno sottovalutato nella sua gravità sul piano delle conseguenze.
Più passa il tempo e più, in assenza di azioni per un nuovo orientamento, il profondo cambiamento che investe i nostri modelli di vita e il sistema dei valori rischia di consolidare e rendere strutturali fenomeni demografici che ci si era illusi avessero origine unicamente da fattori e da eventi congiunturali, e quindi facilmente superabili. Dobbiamo pertanto convincerci che la crisi demografica che stiamo attraversando è importante e pericolosa per gli equilibri del nostro Paese almeno quanto la crisi economica (se non di più), e come tale va attentamente seguita e adeguatamente contrastata tanto con gli strumenti della politica, quanto sul piano della cultura e della difesa dei valori e dei principi che ne sono il fondamento.
Gian Carlo Blangiardo