Ridestare la coscienza dell'Europa
2018/6, p. 31
Non è questo il tempo di costruire trincee, bensì quello di
avere il coraggio di lavorare per perseguire appieno il
sogno dei padri fondatori di un’Europa unita e concorde,
comunità di popoli desiderosi di condividere un destino di
sviluppo e di pace.
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A sessant’anni dai Trattati di Roma
RIDESTARE LA COSCIENZA
DELL’EUROPA
Non è questo il tempo di costruire trincee, bensì quello di avere il coraggio di lavorare per perseguire appieno il sogno dei padri fondatori di un’Europa unita e concorde, comunità di popoli desiderosi di condividere un destino di sviluppo e di pace.
I sessant’anni dell’Europa, dalla firma dei Trattati di Roma del 1957, si sono rivelati un appuntamento chiave per pensare al futuro dell’Europa. La Commissione delle Conferenze episcopali europee (COMECE), in collaborazione con la Segreteria di Stato vaticana, ha organizzato un Dialogo dedicato a (Re)thinking Europe (Ri-pensare l’Europa, 27-29/10/2017), che ha visto la partecipazione di vescovi e politici europei di alto livello con il coinvolgimento personale di papa Francesco.
L’Europa è ormai entrata come voce imprescindibile nei programmi politici dei partiti presenti nelle 27 nazioni aderenti (dopo l’uscita a fine marzo del Regno Unito, la Brexit)e accende forti dibattiti e divisioni al momento delle elezioni nelle varie nazioni. Alla luce di molteplici sondaggi, appare chiaramente che la fiducia dei cittadini (oggi oltre 510 milioni) nel progetto europeo è giunto ai minimi storici. Il 31 gennaio 2017, poco dopo l’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca, il presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk, ha dichiarato espressamente che le attuali sfide per la UE sono «le più pericolose mai fronteggiate da quando è stato firmato il Trattato di Roma». In particolare si riferiva a tre minacce: a) la nuova situazione geopolitica del mondo e intorno all’Europa (protagonismo della Cina, la politica russa verso i paesi vicini, terrorismo e guerre in Medio Oriente e Africa, il programma del nuovo presidente americano; b) la crescita interna all’Unione di spinte anti-europeistiche, di nazionalismi, di forze xenofobe anche di fronte alle massicce migrazioni; c) l’atteggiamento delle èlites favorevoli all’Europa, che mostrano ormai poca fiducia nell’integrazione politica degli stati membri e scetticismo verso i valori della democrazia liberale. Per ripartire non bisogna comunque dimenticare i risultati positivi raggiunti in questo difficile cammino di integrazione: l’UE è la più grande alleanza di democrazie del mondo; l’euro è la seconda valuta di riserva più importante nel mondo; i 27 paesi membri sono il maggior blocco commerciale del mondo; il divario salariale tra uomini e donne è sceso al 16%; l’aspettativa di vita è superiore di otto anni alla media mondiale (oltre 79 anni); tutti i lavoratori hanno diritto ogni anno a quattro settimane di ferie pagate; l’Unione è leader mondiale nella lotta contro il cambiamento climatico.
Tra crisi
e successi
Padre Olivier Poquillon OP, segretario generale del COMECE, nel preparare l’evento del Dialogo dei vescovi europei, ha messo in risalto come le crisi che si configurano in Europa sono date da “mutazioni antropologiche e sociali”, che diventano anche occasioni per “pensare con nuovi paradigmi e una nuova apertura”, a partire dal dialogo tra politici e vescovi. I vescovi, nel dialogo con le istituzioni europee, percepiscono diverse paure, sulle quali il papa ha scherzato quando ha parlato di “un’Europa nonna e impaurita”. L’Europa ha avuto per 70 anni una pace e una prosperità mai raggiunti prima: questo fatto impegna i cristiani a non dimenticare mai che l’intera costruzione dell’Europa è un progetto di pace.
In Europa oggi preme la crisi economica, in cui i più deboli hanno pagato il prezzo più alto; c’è un’emergenza umanitaria per l’arrivo alle frontiere di migliaia di persone in cerca di un luogo sicuro dove vivere; incombe la minaccia del terrorismo, che colpisce ristoranti, teatri, strade, instillando la paura e minando l’apertura e la fiducia verso l’altro. Il cardinale Reinhard Marx, presidente della Conferenza episcopale tedesca e della Comece, citando Jean Monnet, ha ribadito che il continente è “un progetto per un mondo migliore”. Per i vescovi europei le linee per il futuro sono quelle della Dottrina sociale della Chiesa: «la sussidiarietà è, cioè, capire quando prendere le decisioni a livello europeo e quando, invece, è più proficuo che queste decisioni vengano prese nei singoli paesi. Sussidiarietà dunque, un principio assolutamente necessario per riguadagnare la fiducia dei popoli. E poi la solidarietà. Se, per esempio, non abbiamo idea su come risolvere il problema della disoccupazione in paesi come Spagna e Italia, l’Europa faticherà ad avere un futuro. Non è più possibile, quindi, dire: questo è un problema che non mi appartiene. È un problema comune. Lo sviluppo dell’Europa deve poggiare su una solida colonna sociale perché se le persone non hanno un futuro, se i giovani non riescono a trovare un lavoro, se le famiglie faticano a costruirsi un avvenire, non è possibile avere fiducia nel progetto europeo».
In un mondo dove le persone sono più interconnesse e vicine tra loro, ritornare a un mondo chiuso in se stesso, ritornare ai particolarismi, non è possibile. La Chiesa ha per missione, soprattutto qui in Europa, quella di mettere insieme le persone e mostrare che “è possibile vivere insieme con le differenze”. La Chiesa, di fronte alle crisi, può dire che è possibile trovare vie di dialogo ma per riuscirci occorre essere aperti agli altri e non solo interessati al “Il mio Paese, prima” (My Country, first). Con questo spirito, in apertura del Dialogo del COMECE, il cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato vaticano, ha indicato nei quattro principi dell’Evangelii Gaudium le linee guida per ripensare l’Europa. Decisivo per il futuro è il principio secondo il quale “l’unità prevale sul conflitto”: esso ha guidato i padri fondatori del progetto europeo, i quali “compresero che mettere in comune le risorse e lavorare insieme era il vero rimedio all’insorgere di nuovi sanguinosi conflitti come quelli che avevano lacerato la prima metà del XX secolo”.
Il contributo cristiano
a un’Europa plurale
Il discorso di papa Francesco per “Ripensare l’Europa” ha puntato sullo specifico contributo cristiano al suo futuro partendo da una domanda cruciale: «Qual è la nostra responsabilità in un tempo in cui il volto dell’Europa è sempre più connotato da una pluralità di culture e di religioni, mentre per molti il cristianesimo è percepito come un elemento del passato, lontano ed estraneo?».
Il primo contributo, per il papa, rimanda a san Benedetto che propose «una concezione dell’uomo radicalmente diversa da quella che aveva contraddistinto la classicità greco-romana, e ancor più di quella violenta che aveva caratterizzato le invasioni barbariche. L’uomo non è più semplicemente un civis, un cittadino dotato di privilegi da consumarsi nell’ozio; non è più un miles, combattivo servitore del potere di turno; soprattutto non è più un servus, merce di scambio priva di libertà destinata unicamente al lavoro e alla fatica». «Per Benedetto non ci sono ruoli, ci sono persone: non ci sono aggettivi, ci sono sostantivi. È proprio questo uno dei valori fondamentali che il cristianesimo ha portato: il senso della persona, costituita a immagine di Dio». Così i cristiani possono ricordare all’UE che essa è fatta di persone: «purtroppo, si nota come spesso qualunque dibattito si riduca facilmente a una discussione di cifre. Non ci sono i cittadini, ci sono i voti. Non ci sono i migranti, ci sono le quote. Non ci sono lavoratori, ci sono gli indicatori economici. Non ci sono i poveri, ci sono le soglie di povertà». In questo modo il concreto della persona umana è ridotto a principio astratto, comodo e tranquillizzante: le cifre offrono l’alibi di un disimpegno, perché non toccano mai la carne.
Il secondo contributo, partendo dal riconoscimento dell’altro come una persona in relazione, è «la riscoperta del senso di appartenenza a una comunità. Non a caso i padri fondatori del progetto europeo scelsero proprio tale parola per identificare il nuovo soggetto politico che andava costituendosi. La comunità è il più grande antidoto agli individualismi che caratterizzano il nostro tempo, a quella tendenza diffusa oggi in Occidente a concepirsi e a vivere in solitudine. Si fraintende il concetto di libertà, interpretandolo quasi fosse il dovere di essere soli, sciolti da qualunque legame, e di conseguenza si è costruita una società sradicata priva di senso di appartenenza e di eredità. E per me questo è grave». I cristiani riconoscono che la loro identità è innanzitutto relazionale e che dinanzi all’altro ciascuno scopre il suo volto, comprende la sua identità. La famiglia, come prima comunità, rimane il fondamentale luogo di tale scoperta. Nello stesso modo «una comunità civile è viva se sa essere aperta, se sa accogliere la diversità e le doti di ciascuno e nello stesso tempo se sa generare nuove vite, come pure sviluppo, lavoro, innovazione e cultura».
I mattoni dell’Europa
secondo Francesco
Secondo il papa, persona e comunità sono dunque le fondamenta dell’Europa che cristiani possono contribuire a costruire. I mattoni di tale edificio si chiamano: dialogo, inclusione, solidarietà, sviluppo e pace.
L’Europa come luogo di dialogo richiama il ruolo dell’agorà antica, la piazza della polis, spazio di scambio economico, cuore della politica, posto in cui si affacciava il luogo di culto. In questo contesto occorre riconsiderare il ruolo costruttivo della religione nell’edificazione della società. «Purtroppo, un certo pregiudizio laicista, ancora in auge, non è in grado di percepire il valore positivo per la società del ruolo pubblico e oggettivo della religione, preferendo relegarla ad una sfera meramente privata e sentimentale. Si instaura così pure il predominio di un certo pensiero unico, assai diffuso nei consessi internazionali, che vede nell’affermazione di un’identità religiosa un pericolo per sé e per la propria egemonia, finendo così per favorire un’artefatta contrapposizione fra il diritto alla libertà religiosa e altri diritti fondamentali». Favorire il dialogo, qualunque dialogo, è responsabilità basilare della politica. «Al dialogo si sostituisce, o una contrapposizione sterile, che può anche mettere in pericolo la convivenza civile, o un’egemonia del potere politico che ingabbia e impedisce una vera vita democratica. In un caso si distruggono i ponti e nell’altro si costruiscono muri. E oggi l'Europa conosce ambedue. I cristiani sono chiamati a favorire il dialogo politico, specialmente laddove esso è minacciato e sembra prevalere lo scontro».
L’Europa come ambito inclusivo deve superare un fraintendimento di fondo: inclusione non è sinonimo di appiattimento indifferenziato. Al contrario, si è autenticamente inclusivi allorché si sanno valorizzare le differenze, assumendole come patrimonio comune e arricchente. In questa prospettiva, i migranti sono una risorsa più che un peso. I cristiani sono chiamati a meditare seriamente l’affermazione di Gesù: Ero straniero e mi avete accolto (Mt 25,35), soprattutto davanti al dramma di profughi e rifugiati. Non si può pensare che il fenomeno migratorio sia un processo indiscriminato e senza regole, ma non si possono nemmeno costruire muri d’indifferenza o di paura. Da parte loro, gli stessi migranti hanno l’onere grave di conoscere, rispettare e anche assimilare cultura e tradizioni della nazione che li accoglie.
L’Europa come spazio di solidarietà significa pensare una comunità in cui ci si sostiene a vicenda. «Essere una comunità solidale significa avere premura per i più deboli della società, per i poveri, per quanti sono scartati dai sistemi economici e sociali, a partire dagli anziani e dai disoccupati. Ma la solidarietà esige anche che si recuperi la collaborazione e il sostegno reciproco fra le generazioni… Nel consegnare alle nuove generazioni gli ideali che hanno fatto grande l’Europa, si può dire iperbolicamente che alla tradizione si è preferito il tradimento. Al rigetto di ciò che giungeva dai padri, è seguito così il tempo di una drammatica sterilità. Non solo perché in Europa si fanno pochi figli – l’inverno demografico –, e troppi sono quelli che sono stati privati del diritto di nascere, ma anche perché ci si è scoperti incapaci di consegnare ai giovani gli strumenti materiali e culturali per affrontare il futuro. L’Europa vive una sorta di deficit di memoria». Permane dunque il dovere di educare i giovani: compito comune di genitori, scuola e università, istituzioni religiose e società civile.
L’Europa come sorgente di sviluppo integrale per la promozione di ogni uomo e di tutto l’uomo. Allo sviluppo dell’uomo contribuisce il lavoro, fattore essenziale di dignità e maturazione della persona. Occorre creare imprese virtuose che sono «il miglior antidoto agli scompensi provocati da una globalizzazione senz’anima, una globalizzazione "sferica", che, più attenta al profitto che alle persone, ha creato diffuse sacche di povertà, disoccupazione, sfruttamento e di malessere sociale».
L’Europa come promessa di pace, con credenti che siano operatori di pace: questo non significa solo adoperarsi per evitare le tensioni, per porre fine ai conflitti che insanguinano il mondo o per recare sollievo a chi soffre. Essere operatori di pace significa farsi promotori di una cultura della pace. Il papa ha richiamato simbolicamente i cento anni dalla battaglia di Caporetto, l’apice di una guerra di logoramento: «da quell’evento impariamo che se ci si trincera dietro le proprie posizioni, si finisce per soccombere. Non è dunque questo il tempo di costruire trincee, bensì quello di avere il coraggio di lavorare per perseguire appieno il sogno dei padri fondatori di un’Europa unita e concorde, comunità di popoli desiderosi di condividere un destino di sviluppo e di pace.
Mario Chiaro