La Mela Maria Cecilia
Anche i consacrati hanno paura
2018/6, p. 27
Come i discepoli di Gesù, anche noi ci impauriamo di fronte alle incertezze di ciò che dobbiamo vivere; ma dipende sempre da noi la decisione di guardare la realtà solamente come una minaccia o dare credito alla fede che ci assicura che Qualcuno è al nostro fianco per sostenerci nelle lotte della vita.

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Risposta della VC all’inquietudine dell’uomo
ANCHE I CONSACRATI
HANNO PAURA
Come i discepoli di Gesù, anche noi ci impauriamo di fronte alle incertezze di ciò che dobbiamo vivere; ma dipende sempre da noi la decisione di guardare la realtà solamente come una minaccia o dare credito alla fede che ci assicura che Qualcuno è al nostro fianco per sostenerci nelle lotte della vita.
Nel fondo di ogni uomo e di ogni donna alberga sempre una buona dose di paura, più o meno latente, che tutti ci caratterizza e ci accomuna. Anche noi consacrati. Altrimenti saremmo disumani.
Ognuno ha le sue problematiche da superare: si chiamino paure o ansie o agitazioni ecc. Occorre misurarsi con esse per giungere pienamente alla verità e al possesso di noi stessi. Santa Teresa di Calcutta diceva che «il giorno più bello è oggi, l’ostacolo più grande è la paura, la cosa più facile è sbagliarsi e l’errore più grande è rinunciare».
La recensione del film storico Silence (2016), punta i riflettori su padre Sebastian Rodrigues, missionario in Giappone nel 1643, che «una volta rapito e imprigionato, viene messo dinanzi alla scelta di abiurare, spinto da pressioni psico-fisiche. Il gesuita mostra la forza della sua fede, ma anche la fragilità umana dinanzi all’angoscia e soprattutto la sua continua ricerca della voce di Dio». Come Gesù al Getsemani, fino a sudare sangue. Non c’è passione senza travaglio, agonia senza spasimo: ma anche nell’angoscia mortale, «chi teme il Signore non ha paura di nulla e non teme perché egli è la sua speranza» (Sir 34,14). La Sacra Scrittura è piena di esortazioni a non avere paura, a non temere. “Coraggio” è forse una delle parole che risuona maggiormente sulla bocca di Dio a favore della creatura umana inerme e disarmata che, a sua volta, rivolge spesso a se stessa questo invito rincuorante nella memoria dell’effettivo agire salvifico di Dio.
Gedeone (Gdc 7,9-15), ad esempio, «può diventare un modello di liberazione dalla benda della paura. Già nella sua vocazione, il narratore ce lo presenta intimorito, parlando della sua piccolezza e di quella della sua tribù. Ma nulla di ciò blocca l’intento di Dio di mandarlo ad affrontare Madian: “Il Signore disse a Gedeone: Alzati e piomba sul campo, perché io te l’ho consegnato nelle mani. Ma se hai paura di farlo, scendi con il tuo servo Pura”. L’ordine non è: “Se hai paura, non scendere”, bensì “scendi” con la fragile compagnia di uno scudiero. […] Splendido testo nel quale qualcuno è capace di vincere la paura proprio nel luogo in cui essa è provocata. Proprio in quel luogo sente una parola che gli restituisce coraggio, e questo risveglia in lui l’adorazione a Dio e la forza di ideare una strategia per sconfiggere i nemici.
“Perché avete paura? Non avete ancora fede? (Mc 4,40), diceva Gesù ai suoi discepoli intimoriti in mezzo alla tempesta. Proprio come loro, anche noi ci impauriamo di fronte alle incertezze di ciò che dobbiamo vivere; ma dipende sempre da noi la decisione di guardare la realtà solamente come una minaccia o dare credito alla fede che ci assicura che Qualcuno è al nostro fianco per sostenerci nelle lotte della vita. In base alla nostra risposta, affonderemo o ci sentiremo accompagnati da Colui che può farci arrivare salvi all’altra riva. La fede nel Signore Risorto è la fonte di sicurezza che allontana i nostri timori».
Come scrive Paolo Curtaz, «per rinascere bisogna muoversi, salire dal sepolcro delle proprie paure e del proprio passato, senza illusioni, sapendo che, comunque, le cicatrici della paura resteranno appiccicate all’anima. Ma rinascere è possibile. È possibile perché la potenza della resurrezione può davvero contagiare e guarire una vita.
I molti volti
della paura
La paura ha molti volti e molte origini. Ognuno ha la sua; per molte persone la paura è un elemento caratterizzante e invalidante della vita. […] In Dio troviamo la forza per superare la paura. Non una forza eroica, non un atteggiamento arrogante, da superuomo dionisiaco, non un inquietante delirio di onnipotenza, no. Le ferite lasciano cicatrici anche profonde. […] L’essenziale è che la paura non conduca la nostra vita e le nostre scelte verso la paralisi». Proprio nella Bibbia si trova una incisiva e quanto mai veritiera definizione di questo istinto così connaturato in noi: «La paura infatti altro non è che l’abbandono degli aiuti della ragione» (Sap 17,11).
Anche noi religiosi non siamo esenti dal contatto con le nostre zone d’ombra, ma come ogni cristiano che si fida di Dio, possiamo esclamare: «Nell’ora della paura, io in te confido» (Ps 56,4). Quando scoppia qualche temporale – e a volte anche di grossi – sappiamo poi goderci il panorama del sereno che ritorna a confermare che solo l'Amore alla fine trionfa. Ogni squarcio di cielo luminoso che guadagna terreno su nubi grigie ormai in ritirata, non fa altro che ricordarci che si ricomincia sempre e ogni volta più forti.
Emblematica a riguardo la trama del bel film di animazione Il viaggio di Arlo diretto da Peter Sohn (2015). Protagonista è un giovane apatosauro che deve confrontarsi con la propria indole estremamente timorosa. La fiducia che il padre ripone in lui nonostante diversi fallimenti – «a volte devi superare le tue paure per vedere la bellezza che ti circonda» – e, infine, un avventuroso viaggio irto di pericoli affrontati insieme ad un nuovo amico, lo porta a scoprire in se stesso quella forza che l’amore ha disseppellito dalla spessa coltre della paura. È l’insegnamento di un tirannosauro incontrato lungo il viaggio: «Chi ha detto che non ho paura? Se non hai paura non sei vivo. Ascolta ragazzino: Non puoi liberarti della paura, è come Madre Natura; non puoi batterla o sfuggirle, ma puoi resisterle e scoprire di che pasta sei fatto».
Altrimenti si rimane a terra, legati ad ombre fugaci: «Soltanto su di loro si stendeva una notte profonda, immagine della tenebra che li avrebbe avvolti, ma essi erano a se stessi più gravosi delle tenebre» (Sap 17,20). Bisogna invece lasciarsi illuminare per aprirsi al futuro, al meglio che di certo può ancora venire. Basta solo volerlo e credere che l’amore può risanare. Se ti senti amato sei già salvato. E vedi la luce in modo più intenso perché non la guardi più soltanto con i tuoi occhi, ma insieme a quelli di chi ti ama. Se qualcuno ancora crede che puoi farcela, ecco, ce l’hai già fatta. Anche una prigione può diventare un castello e ospitare i tuoi sogni e i tuoi sospiri, i tuoi sentimenti e le tue preghiere. Si aprono in te grandi finestre per guardare fuori e vivere la tua libertà. Quella vera, quella che ti umanizza, quella che semplicemente ti riconsegna a te stesso e agli altri. È un passaggio determinante e si chiama travaglio. Solo allora sarai veramente nato, venuto alla luce. E sarai il meraviglioso capolavoro che sei.
Una porta rimane sempre aperta. Non un evadere ma un rientrare, non un allontanarsi ma un tornare. Perché ovunque si va, il cuore ci batte sempre dentro. E se è un castello o una prigione dipende da noi. Dall’amore che ci mettiamo dentro. Da quello che diamo e che riceviamo. E si può vedere anche nella notte.
Non arrenderti
alla notte
Papa Francesco, durante l’udienza del 20 settembre 2017, ha esordito con un grande incoraggiamento: «Non arrenderti alla notte», proseguendo poi così: «Ricorda che il primo nemico da sottomettere non è fuori di te, ma dentro. Pertanto, non concedere spazio ai pensieri negativi. Credi fermamente che questo mondo è il primo miracolo che Dio ha fatto e che Dio ha messo nelle nostre mani la grazia di nuovi prodigi. Fede e speranza procedono insieme. Confida in Dio Creatore, nello Spirito Santo che muove tutto verso il bene, nell’abbraccio di Cristo che attende ogni uomo alla fine della sua esistenza. Lui ti aspetta! Non pensare mai che la lotta che conduci quaggiù sia del tutto inutile. Alla fine dell’esistenza non ci aspetta il naufragio: in noi palpita un seme di assoluto. Dio non delude: se ha posto una speranza nei nostri cuori, non la vuole stroncare con continue frustrazioni. Tutto nasce per fiorire in un’eterna primavera. Dio ci ha fatto per fiorire; chiedigli ogni giorno il dono del coraggio. Ricordati che Gesù ha vinto per noi la paura, lui ha vinto la paura: la nostra nemica più infida non può nulla contro la fede. E quando ti troverai impaurito davanti a qualche difficoltà della vita, ricordati che tu non vivi solo per te stesso. E se un giorno ti prendesse lo spavento, o tu pensassi che il male è troppo grande per essere sfidato, pensa semplicemente che Gesù vive in te. E se sbaglierai ancora in futuro, non temere, rialzati! Vivi, ama, sogna, credi e, con la grazia di Dio, non disperare mai».
Quale religioso non conosce la Litania dell’umiltà? Una pratica che, chiedendo al Signore di essere liberati, aiuta a rientrare in se stessi e a scandagliare le nostre apprensioni più profonde, oltre alla paura di sbagliare, paura del futuro, della malattia: il timore di non essere amati, riconosciuti, considerati, stimati ecc., di perdere i propri punti o persone di riferimento. In ultima analisi la paura di una sorta di morte, quella di essere dimenticati o considerati nulla dagli altri.
Consolante risuona una preghiera di padre Ignacio Larrañaga: «Signore Gesù, dalla polvere sale a me e mi domina questa sete insaziabile di stima, questa pressante necessità che tutti mi amino. Il mio cuore è impastato di deliri impossibili. […] Grosse catene legano il mio cuore; e da ciò mi deriva tanto spavento e tanta paura. Chi spezzerà le mie catene? La tua grazia, o mio Signore povero e umile».
“Le mie prigioni” – è il titolo rubato al noto libro di Silvio Pellico – che potrebbe essere spesso apposto su certe pagine dei notes o agende su cui appuntiamo i nostri momenti di verifica personale. Sono proprio le nostre paure a renderci prigionieri di noi stessi.
Dare un nome
alle proprie paure
La nostra consapevole e serena integrazione armoniosa di ogni tipo di paura, e non ultima quella della morte fisica, può diventare una risposta per l’uomo di oggi. Come evidenzia mons. Gianfranco Ravasi, «abituato alle realtà solo ‘penultime’, contingenti e limitate entro il perimetro del tempo e dello spazio, l’uomo e la donna moderni si trovano spaesati quando s’affacciano sull’orizzonte delle realtà ‘ultime’ e permanenti come Dio, la verità, il bene e il male, il dolore, la vita, la morte e l’oltrevita». I genitori di Giorgio Mannino, undicenne morto dopo tre anni di lunga sofferenza a causa di un terribile male il 4 maggio 2014, nel segnalibro commemorativo hanno riportato il motto coniato dal figlio compendiandolo in quello che è stato il loro percorso umano e spirituale, insieme alla figlia maggiore, nel serrato confronto tra vita e morte e che ha rafforzato in loro la certezza, consegnata loro dallo stesso Giorgio in fase terminale, che – come ci fa cantare la sequenza della domenica di Pasqua – la morte è stata sconfitta per sempre. «La nostra non può essere una dura lotta senza paura; non esiste un uomo (o un bambino) senza paura. Sia il nostro motto di speranza: “All’arrembaggio con forza e coraggio”».
Bisogna saper morire, per questo occorre saper vivere e ciò è possibile solo quando diamo un nome alle nostre paure così da superarle o almeno integrarle. Solo in questo modo si dilata la pienezza del nostro essere, riportandoci alla nostra origine, al nostro essere tratti dalla terra, in un connubio di fango e amore vitale mentre si avverte, avvolgente e creativo, quel soffio divino che ci è stato alitato donandoci un marchio indelebile e sacro: siamo fatti ad immagine e somiglianza di Dio!
Solo dopo aver camminato, superati l’ansia e gli ostacoli dell’impervio sentiero, scopriamo di essere diversi, cambiati, fortificati. Ritrovando noi stessi, si rinviene la pace e la gioia duratura, un qualcosa che cicatrizza lontane ferite, ridimensiona sgomenti e rischiara ombre e occulte inquietudini. Sentiamo ormai che ce la possiamo fare perché altri, lungo il vissuto della nostra storia, ci hanno tenuto o ci stanno tenendo per mano. E farci a nostra volta sostegno, fratello, amico nei crocevia di chi incontriamo perché c’è sempre una strada costellata di volti, di mani tese, di deliri e speranze che cercano compagnia. Il viaggio allora ritrova la sua meta, il sentiero si fa piano, non più minaccioso. La strada si apre percorrendola e la si percorre guardando avanti. E ci rimette sempre in cammino. Siamo fatti per qualcosa, incontro a Qualcuno. Sul lungo selciato lasciamo delle orme; siamo noi responsabili del sì alla vita, all’incanto, oltre la morte.
Il coraggio
di scendere nel profondo
Ci si immerge, come un palombaro audace e accorto nei fondali del mare, senza più terrore degli abissi, alla ricerca della perla preziosa… quello che vale, che è unico, che è raro richiede il coraggio di scendere nel profondo, perché il prezzo viene misurato dal rischio che si è disposti a correre. Più si scende in fondo e più si diventa consapevoli del proprio valore, di chi veramente siamo al di là delle alghe avviluppanti dei nostri limiti e dei nostri fallimenti. Hai finalmente ritrovato la chiave d’accesso all’infinito, sei penetrato al cuore del Mistero che ti fascia ed è al contempo dentro di te; non qualcosa di imperscrutabile che ti sovrasta e sommerge, ma un tutto talmente bello che ti mozza il fiato e ti apre allo stupore e alla gratitudine. Non anneghi nel mare, ti immergi. Solo se attraversi la vita ne assapori la bontà, ne contempli la bellezza. Cadi, piangi, ma annunci ugualmente a tutti la sua preziosità. Non temi più le emozioni che ti vengono incontro come un largo, rassicurante sorriso, come fiore che si arrende e si consegna schiudendosi al sole.
Affidiamoci alla Vergine Santissima, a Colei che, all’Annunciazione, si è sentita dire: «Non temere, Maria!» (Lc 1,30) e che a sua volta, come a Juan Diego, apparendo a Guadalupe, offre a tutti noi figli la carezza della sua consolazione materna: «Non si turbi il tuo cuore. Non ci sono qui io, che son tua Madre?».
suor Maria Cecilia La Mela OSBap