Chiaro Mario
Siria oceano di dolore
2018/5, p. 19
Tutti sono consapevoli che questa guerra pesa in maniera sempre più insopportabile sulle spalle della povera gente. A più riprese, con dolore e fermezza, papa Francesco ha denunciato la barbarie che sta letteralmente divorando le popolazioni siriane dal 2011, con la responsabilità di chi non vuol capire che “non si combatte il male con il male”.

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La situazione in un Dossier della Caritas italiana
SIRIA
OCEANO DI DOLORE
Tutti sono consapevoli che questa guerra pesa in maniera sempre più insopportabile sulle spalle della povera gente. A più riprese, con dolore e fermezza, papa Francesco ha denunciato la barbarie che sta letteralmente divorando le popolazioni siriane dal 2011, con la responsabilità di chi non vuol capire che “non si combatte il male con il male”.
«Cari fratelli e sorelle, in questi giorni il mio pensiero è spesso rivolto all’amata e martoriata Siria, dove la guerra è riesplosa, specialmente nel Ghouta orientale. Questo mese di febbraio è stato uno dei più violenti in sette anni di conflitto: centinaia, migliaia di vittime civili, bambini, donne, anziani; sono stati colpiti gli ospedali; la gente non può procurarsi da mangiare… Tutto questo è disumano. Non si può combattere il male con altro male. E la guerra è male. Pertanto rivolgo il mio appello accorato perché cessi subito la violenza, sia dato accesso agli aiuti umanitari – cibo e medicine – e siano evacuati i feriti e i malati. Preghiamo Dio che questo avvenga senza indugio» (Angelus 25/2/2018).
A più riprese, con dolore e fermezza, papa Francesco ha denunciato la barbarie che sta letteralmente divorando le popolazioni siriane dal 2011, con la responsabilità di chi non vuol capire che “non si combatte il male con il male” e che “non c’è una guerra buona e una cattiva”. Con queste affermazioni si fa riferimento da una parte a coloro che hanno sostenuto nel mondo “civile” occidentale il leader siriano Bashar Hafiz al-Assad, dall’altra parte ai suoi rivali arabi che hanno sostenuto i gruppi jihadisti che si sono impossessati della rivoluzione. Questa mancata comprensione della verità, cioè che “non si combatte il male con altro male”, ha finito per coinvolgere pesantemente anche l’Europa, sommersa dalle conseguenze del male: l’arrivo di una marea di esuli siriani e di altre nazioni che ci ha colto totalmente impreparati. Ormai, nell’indice mondiale dei paesi meno pacifici al mondo, la Siria è al primo posto per la quinta volta consecutiva, seguita da Afghanistan, Iraq, Sud Sudan e Yemen. Il paese siriano è ora schiacciato in quella centrale regione con il più alto livello di conflittualità: una sorta di mezzaluna che va dai confini estremi della Russia orientale fino all’Africa centrale e al Corno d’Africa, attraversando il Medio Oriente.
La spartizione
della “torta” siriana
Secondo gli analisti, la guerra viene fatta iniziare nel 2011, con la Primavera siriana. Eppure il suo inizio dovrebbe essere spostato indietro nel tempo; a partire dai primi anni del 2000, quando il presidente Assad avviò una liberalizzazione dell’economia con catastrofiche conseguenze sulla popolazione: un esempio è la sostituzione delle colture tradizionali con grano e cotone (colture più redditizie, ma meno resistenti alla ciclica siccità del paese, e più bisognose di irrigazione, con conseguente sfruttamento delle falde acquifere). Nel 2006 ci fu poi una drammatica carestia, che determinò l’esodo di 1,5 milioni di contadini dalle campagne alle città, in particolare verso la periferia orientale di Aleppo. Il 2008 fu un anno decisivo, perché iniziavano in quel tempo a serpeggiare le proteste antigovernative fra quel 60% della popolazione che aveva sofferto proprio a causa di siccità e carestia. Ripercorrendo in questo modo un decennio di malcontento, si comprendono le radici profonde che hanno spinto un popolo a ribellarsi contro il regime.
A questo punto, semplificando, si possono ricondurre i sette anni di guerra in Siria a quattro fasi: la prima sull’onda della Primavera araba, repressa nel sangue dal regime di Assad; la seconda in cui, dopo la reazione violenta del regime, le potenze estere hanno armato i gruppi ribelli, con l’obiettivo di far cadere Assad, tramutando la rivolta in una guerra civile. La terza fase è caratterizzata dall’emersione di gruppi jihadisti, terroristi islamici giunti in Siria da tutto il mondo. La quarta ‒ rappresentata dall’ingresso della Russia a supporto di Assad e dal sostegno della coalizione a guida statunitense, in particolare in favore della fazione curda, che ha decretato lo stato di cose attuale ‒ vede una Siria divisa in due grandi blocchi: il primo dove il regime di Assad è saldamente di nuovo al potere, il secondo dove governano autorità curde.
I nodi di questo drammatico e pericoloso processo sono emersi il 4 aprile scorso (dieci giorni prima dei raid di ritorsione di Usa, Francia e Inghilterra, contro supposti siti di armi chimiche usate da Assad). Durante un vertice tenuto ad Ankara, i leader di Turchia (Erdogan), Russia (Putin) e Iran (Hassan Rouhani) si sono alleati fissando alcuni obiettivi strategici: mantenere l’integrità territoriale e la sovranità della Siria, neutralizzare la minaccia jihadista, soffocare le spinte separatiste foraggiate dall’estero. In questo contesto Putin, da parte della Russia, ha confermato la consegna dei sistemi missilistici S-400 alla Turchia e ha assistito all'inizio del lavoro su larga scala per costruire la prima centrale nucleare turca, con commessa all’impresa russa Rosatum. Da parte sua, Erdogan ha avvisato Stati Uniti e Francia (sostenitori dei curdi) che la Turchia si scaglierà contro chiunque proverà a ostacolare il suo piano di bonificare il nord della Siria (Cantone di Afrin) proprio dalla presenza delle milizie curde. Infine, Rouhani (presidente della Repubblica islamica dell'Iran) ha colto l’occasione per accusare Stati Uniti e Israele, colpevoli di aver cercato di rovesciare il governo siriano per portare alla frammentazione della Siria.
Si comprende facilmente che quello che si sta prefigurando è una vera e propria spartizione della Siria per tutelare i diversi obiettivi strategici delle varie potenze. Il compito di fare sintesi spetta alla Russia, che in Siria sta giocando l’importante partita di attrarre nella sua sfera d’influenza la Turchia, allontanandola da Stati Uniti e NATO. Nel contempo il “Medio Oriente allargato” rimane area fondamentale proprio per gli Usa, che giocano a loro volta la loro partita economica (con l’appoggio dell’Arabia Saudita, leader del mondo pan-arabo e interprete del sunnismo più conservatore): dalle rotte del gas nel Mediterraneo orientale alle nuove “vie della Seta”, ferroviarie, autostradali, marittime e portuali, in mano agli investimenti cinesi.
Le “vittime collaterali”
della guerra
A fronte di questo dramma, la Caritas Italiana propone un Dossier Siria intitolato “Sulla loro pelle. Costretti a tutto per sopravvivere”, denunciando lo specchietto per le allodole della “guerra necessaria” associata all’espressione “danni o effetti collaterali”. Occorre denunciare l’ipocrisia e la violenza di quelle «strategie che hanno in sé una controparte umana pesantissima, fatta di centinaia di migliaia di uomini, donne, bambini che muoiono sotto il fuoco “strategico” di bombe intelligenti e proiettili; una decisione di un’arroganza violenta, appannaggio di pochissimi leader, che scelgono di sacrificare intere popolazioni ai piedi dell’idolo economico/politico di turno». Parlare degli “effetti collaterali” di una guerra è il tentativo di presentarla come una medicina necessaria da assumere per guarire da una malattia. Ma la guerra “non cura la malattia, uccide il paziente”! La tragedia delle vittime è infatti la sola verità della guerra.
Mentre l’Onu si rivela sempre più impotente e bloccata dai veti incrociati dei membri del Consiglio di Sicurezza, la crisi paralizza le vite dei siriani, uniche vere vittime di una guerra da loro non voluta, manovrata dall’estero come fu in precedenza per il vicino Libano negli anni 1970-1980. «All’interno del paese circa 13 milioni di persone vivono in condizioni di estrema necessità, mentre 3 milioni di bambini non possono frequentare la scuola. Le vittime stimate a oggi sono più di mezzo milione e circa il doppio i feriti e i mutilati. Secondo quanto riportato nello studio della Ong Airwars (si occupa di archiviazione ed elaborazione dati della guerra aerea internazionale contro lo Stato islamico in Siria, Iraq e Libia), solo nel 2017 il numero dei civili morti in Siria a causa dei bombardamenti è quadruplicato rispetto all’anno precedente. Impressionante il dramma di chi è costretto a lasciare il proprio paese per salvarsi la vita: i rifugiati all’estero oggi sono circa 5,5 milioni, quasi mezzo milione in più rispetto al marzo 2017; di questi, circa 1,3 milioni sono minori di 18 anni. La Turchia è il paese che ne accoglie il maggior numero in termini assoluti: 3,5 milioni; il Libano è la seconda nazione per numero di rifugiati accolti, oltre un milione. Il numero di sfollati interni è di oltre 6 milioni.
“Strategie di risposta”
delle vittime
Per cercare di comprendere appieno la tragedia della nazione siriana, il Dossier della Caritas si rivela uno strumento prezioso che consente di esplorare tutti quei danni causati non tanto dai combattimenti diretti ma dalla povertà, dai traumi psicologici, dallo sconvolgimento sociale di sette anni di guerra. «La popolazione è sempre più allo stremo, più povera, disperata e disposta a tutto per cercare di sopravvivere». Dobbiamo focalizzare le “strategie di risposta” (coping strategies) di una popolazione con il 69% di persone che vivono in condizioni di estrema povertà; 6,5 milioni non hanno cibo a sufficienza, mentre il 35% non ha accesso all’acqua potabile e 1,2 milioni non possono permettersi di pagare l’affitto. «Tale livello di povertà così diffuso e radicato, induce le persone a comportamenti estremi, pur di sopravvivere. Questi meccanismi di risposta sono estremamente dannosi per le famiglie che ne cadono vittima e per la società stessa e se non interrotte da interventi umanitari, conducono presto in un vortice che trascina il nucleo familiare in un baratro profondo. In primo luogo le famiglie attingono ai risparmi di una vita. Poi iniziano a vendere i propri beni (mobili, gioielli, terreni e infine le case o le attività produttive), molto spesso a prezzi stracciati (chi investirebbe ora in Siria, se non speculatori che comprano a poco puntando a facili guadagni in futuro?).
Terminati i risparmi cominciano i debiti, inizialmente contratti con familiari e parenti, per poi essere stretti con usurai, a causa della vergogna di dover tornare a chiedere agli affetti più vicini. Tale indebitamento rappresenta per molti un punto di svolta in negativo che conduce in un limbo di sabbie mobili morali, in cui facilmente si commettono azioni illegali o rischiose (criminalità, arruolamento in gruppi armati – anche di minori –, abbandono scolastico, lavoro minorile, accattonaggio) o si finisce vittima di sfruttamento lavorativo o sessuale (matrimoni precoci, prostituzione…). Un circolo vizioso che colpisce in misura maggiore, ovviamente, chi è più vulnerabile: bambini, donne, famiglie composte da un solo genitore».
In un Report delle Nazioni Unite si cerca di fare il punto su alcuni degli aspetti più gravi di una quotidianità di sofferenze, che lasceranno il segno nella vita delle generazioni future. Attraverso un questionario distribuito in tutta la Siria, in Giordania e in Turchia, sono state mappate 4.185 comunità (villaggi o quartieri), cercando di quantificare alcuni dei fenomeni più gravi. Il Report mette sotto la lente 13 situazioni (protection issues) a cui le persone maggiormente vulnerabili sono esposte in Siria e che spesso generano un drammatico circolo vizioso. Le 13 situazioni analizzate sono le seguenti: 1) lavoro minorile (impedisce la frequenza scolastica), 2) bambini soldato, 3) violenze domestiche, 4) matrimoni precoci, 5) sfruttamento economico, 6) rischi causati da ordigni inesplosi, 7) separazione familiare, 8) molestie, 9) problemi legati alle proprietà immobiliari (case, terreni, attività commerciali), 10) rapimenti, 11) perdita o assenza di documenti personali (identità, proprietà), 12) molestie sessuali, 13) violenze sessuali. Dal sondaggio è emerso che le situazioni di rischio più frequenti, con una percentuale che supera l’80%, sono “la perdita, o l’assenza, della documentazione relativa all’identità personale, del nucleo familiare o dei beni di proprietà” (83% delle comunità intervistate) e “il lavoro minorile che impedisce la frequenza scolastica” (82% delle comunità intervistate).
Profughi e rifugiati
nel “limbo” dell’Europa
Queste strategie negative costituiscono poi “un’emergenza nell’emergenza” all’interno della realtà che profughi e rifugiati sono costretti a vivere nel cuore dell’Europa. Anche se le condizioni di vita nel vecchio continente risultano migliori rispetto a quelle offerte dai paesi vicini alle tante zone di conflitto (Turchia, Giordania, Libano, Egitto), gli espedienti pericolosi messi in atto dai profughi per sopravvivere o per proseguire il loro cammino alla volta del Regno Unito o dei ricchi paesi mitteleuropei, rappresentano una costante che accomuna le nazioni ospitanti: indebitamento, svendita dei beni di famiglia, ingresso in circuiti illegali (es. spaccio di sostanze stupefacenti) sia per l’acquisizione di una fonte di reddito costante, sia per collezionare il denaro necessario al proseguimento del viaggio; matrimoni precoci, prostituzione, anche di minori venduti dalle loro stesse famiglie. «Sono violenze all’ordine del giorno che accadono in paesi, come Italia e Grecia, che rappresentano il principale ingresso in Europa, ma anche la prigione dove, per gli accordi di Dublino, i migranti in fuga da guerre e povertà sono costretti a vivere in un limbo fatto di espedienti ed esistenze sospese».
Ancora papa Francesco da diversi anni invita tutti a porsi davanti a questo “oceano di dolore”: «In Siria e in Iraq, il male distrugge gli edifici e le infrastrutture, ma soprattutto la coscienza dell’uomo… di fronte a un tale scenario e a conflitti che vanno estendendosi e turbando in maniera inquietante gli equilibri interni e quelli regionali, la comunità internazionale non sembra capace di trovare risposte adeguate, mentre i trafficanti di armi continuano a fare i loro interessi… Tutti sono consapevoli che questa guerra pesa in maniera sempre più insopportabile sulle spalle della povera gente. Occorre trovare una soluzione, che non è mai quella violenta, perché la violenza crea solo nuove ferite… Milioni di bambini con il protrarsi del conflitto, sono privati del diritto all’istruzione e, conseguentemente, vedono offuscarsi l’orizzonte del loro futuro. Non fate mancare il vostro impegno in quest’ambito così vitale» (Udienza ai partecipanti all’incontro promosso dal pontificio Consiglio Cor Unum sulla crisi umanitaria siriana e irachena, 17/9/2015).
Mario Chiaro