Con gli occhi del boat-people
2018/5, p. 16
La società vietnamita, e soprattutto la Chiesa, danno
prova di un dinamismo ammirevole. Una intraprendenza
notevole si radica in persone semplici e buone. Il loro
livello di vita è notevolmente migliorato da due decenni
a questa parte. È una società molto giovane e in
fermento. Ma non mancano certo anche le ombre.
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Vietnam: Chiesa e paese
CON GLI OCCHI
DEL BOAT-PEOPLE
La società vietnamita, e soprattutto la Chiesa, danno prova di un dinamismo ammirevole. Una intraprendenza notevole si radica in persone semplici e buone. Il loro livello di vita è notevolmente migliorato da due decenni a questa parte. È una società molto giovane e in fermento. Ma non mancano certo anche le ombre.
Ero a Melbourne in Australia fra il 1968 e il 1982. Da vari anni, i media australiani davano ampio risalto alla ritirata e infine alla disfatta delle forze militari americane in Vietnam sconfitte per merito dei Vietcong, la mano armata del Fronte di Liberazione Nazionale Comunista (NLF), il risultato di una guerriglia incessante durata due decenni (1955-1976). La caduta di Saigon e la fuga era ripresa dalla televisione australiana: all’aeroporto della capitale gli ultimi contingenti americani riempivano gli aerei, e numerosi vietnamiti che invano si aggrappavano disperatamente alla scaletta dell’aereo in partenza. Il 26 aprile 1976, la prima di tantissime altre imbarcazioni di rifugiati vietnamiti arrivavano a Darwin, sulla costa nord dell’Australia. Preludio di altri numerosi arrivi: nel 2011, il censimento australiano annoverava185.000 persone di origine vietnamita in Australia. Si calcola che in dieci anni, circa un milione e mezzo di vietnamiti siano arrivati in Australia. Dal loro esodo nacquero le espressioni «carrette del mare» o «boat people».
Manila (1982-1991)
Impegnato a capire e creare strategie pastorali di fronte al fenomeno di flussi enormi di emigranti dalle isole filippine, ho avuto la possibilità di visitare alcuni campi di profughi, il risultato della più «grande tragedia del secolo» (Paolo VI). Uno in particolare è ancora fisso nella mia mente: Bataan, aperto nel 1980 sotto la giurisdizione del governo filippino (Philippine Refugee Processing Center), finanziato dal UNHCR e collocato vicino a una stazione nucleare. Con una capienza normale di oltre 25.000 persone, gli ospiti erano in attesa di essere accolti come rifugiati altrove: nel continente nord-americano, in Europa e Australia. Molti raggiungevano il traguardo sospirato. Non pochi rimanevano per anni ospiti del Centro, una cittadella con tanti servizi e un gruppo elevato di bambini e più tardi adolescenti nati e cresciuti all’interno di quei recinti costruiti in una zona, isolata ma anche pericolosa per la vicinanza della stazione nucleare in territori inclini, come tanti altri nelle Filippine, al terremoto!
Accompagnavo un arcivescovo polacco, capitato a Manila nel mese di agosto del 1986, non si sa bene per quali ragioni, ospite dell’ufficio emigranti e rifugiati della Conferenza episcopale filippina, diretto dal sottoscritto. Questa visita semi-ufficiale era stata pianificata da mesi per i numerosissimi permessi necessari per visitare il campo profughi di Bataan. Siamo rimasti a Bataan per due giorni. Indimenticabili. Mi aspettavo una serie infinite di lamentele, di racconti tragici, di nostalgie laceranti per i loro familiari rimasti in Vietnam e per tante altre ragioni facilmente immaginabili. Niente di tutto questo.I loro volti sorridenti mi hanno molto colpito. Di fronte ai miei tentativi di dialogare sulle numerose peripezie vissute in seguito alla loro decisione di lasciare il Vietnam e la loro attuale attesa estenuante: anni trascorsi prima di venir a sapere se una nazione avrebbe spalancato loro le porte dell’accoglienza. Sono rimasto incantato dai loro occhi e i loro sorrisi: non perdevano mai l’abituale serenità! Straordinaria la celebrazione eucaristica, con la partecipazione di migliaia e migliaia di cattolici vietnamiti, con quei canti mozzafiato animati da vari cori, tutti vestiti elegantemente e tutti attentissimi!Anche se i celebranti usavano l’inglese che non era conosciuto se non da una piccola percentuale dei presenti. E che dire del servizio a tavola? Una esperienza di bellezza incantevole e indimenticabile!
Adelaide
(Australia, 2002-2008)
Nella parrocchia di Mater Christi (sobborgo chiamato Seaton) eravamo impegnati con la comunità parrocchiale formata da un’alta percentuale di emigranti italiani degli anni 1950- 1970. Questi si erano inizialmente insediati in un territorio paludoso, sotto il livello del mare, distante poco più di un km. L’avevano dissodato pazientemente organizzando le loro serre coltivate a ortaggi che il mercato generale della città apprezzava perché freschi, raccolti alcune ore prima! Rozze baracche erano state costruite in un primo tempo e, con l’andar del tempo, abitazioni più accoglienti trasformate in poco tempo in abitazioni confortevoli. Negli ultimi due decenni del secolo scorso, alla popolazione italiana e australiana, si erano aggiunti gruppi di latino- americani e in pochi anni molti rappresentanti del continente indiano. La comunità scalabriniana si era arricchita di cappellanie per i seguenti gruppi: latino-americano di lingua spagnola, portoghese e filippino.
E gli ex-rifugiati dal Vietnam? Si erano autonomamente organizzati con i loro sacerdoti. Anche loro scappati dalle brutalità del regime comunista in Vietnam. Manifestando una coesione interna ammirevole, nel giro di alcuni anni, avevano costruito il Centro Vietnamita di Adelaide: Chiesa, salone molto capiente (950 posti a sedere), residenza per i loro cappellani. Il tutto attorniato da un ampio parcheggio e manto verde. Sempre verde anche durante le estati torride. Avevo stretto amicizia con i loro sacerdoti. Questi non mancavano di invitarmi alle loro feste e rappresentazioni teatrali. Accolto con grande benevolenza, godevo la 'performance’ con la regia di numerosi giovani, vestiti impeccabilmente, sempre sorridenti. La loro Chiesa-cappella affollata fino all'incredibile, non soltanto la domenica, ma anche durante i giorni feriali: diverse centinaia che scandivano insieme le loro preghiere e al termine della celebrazione desideravano salutare e riverire il sacerdote italiano. Il mio animo si riempiva di quei volti sereni e contenti. Numerosissime le sante messe di suffragio per i loro familiari e amici, persi durante le loro traversie in mare. Uno di loro, Hieu Van Le, fuggito dal Vietnam a piedi, finito in Malesia e di là imbarcatosi per l’Australia, è da diversi anni il governatore e rappresentante della Regina d’Inghilterra nello stato del Sud Australia.
Vietnam
in movimento
Da rifugiati sono diventati emigrati. Le informazioni sono tratte dalla pubblicazione della International Organization for migration (IOM), con sede a Ginevra Viet-Nam MigrationProfile 2016, uscito nel 2017. Scritto in collaborazione con gli ambienti governativi vietnamiti, offre, a nostro parere, uno sguardo aggiornato e concreto alle sfide dei nuovi flussi in uscita come in entrata. Con una popolazione che si avvicina ai 100 milioni e la drammatica esperienza dei rifugiati, oggi l’emigrazione dal Vietnam risponde a desideri di maggiori possibilità economiche. Viste favorevolmente dal governo. Nel 2016, si calcola che circa sei milioni di persone abbiano valicato i confini nazionali con un numero simile di rientri (emigrazione rotativa). Il fenomeno è in aumento: si prevede che presto raggiungeranno i 10 milioni di spostamenti annui,10% della popolazione complessiva. Domina la categoria dei lavoratori a contratto più o meno fisso, con un numero molto alto di studenti iscritti in università straniere (circa 20.000 negli USA, 4.900 in Russia ecc…), seguito anche da un numero rilevante (forse sottaciuto?) di categorie che abbisognano di maggiore protezione. Fra queste, l’emigrazione femminile (per ragioni di matrimonio con uomini stranieri: 16.223 secondo i registri governativi nel 2016), e soprattutto un numero elevato di donne e bambini per il mercato internazionale dei trapianti di organi: 3897 casi con 6.188 trafficanti rilevati e 8.366 vittime (85% donne) nel 2016. Le nazioni coinvolte in questi traffici sono in prevalenza: Cambogia, Cina e Taiwan. Le rimesse, comunque, vanno a rimpinguare le entrate di innumerevoli famiglie, dei loro congiunti e anche amici.
Mi pare evidente che il rapporto governativo riveli il desiderio da parte del governo di sostenere i flussi, specialmente internazionali, per aiutare l’economia nazionale a crescere (intorno al 7/8% durante l’ultimo decennio) sottacendo o sottovalutando i costi umani e concedendo spazio acritico ai soli benefici economici. Aspetto già recensito anche nelle Filippine, soprattutto durante i primi due decenni delle politiche rivolte ad incentivare il Manpower Export program (1970-1990).
La Chiesa e la sua
cultura cattolica
È costituita da circa 9 milioni di fedeli distribuiti in 3 arcidiocesi e 23 diocesi. Secondo i dati relativi al 2014, il numero totale dei sacerdoti (diocesani e religiosi) in Vietnam è di 4.635, a cui vanno aggiunti 2.357 seminaristi, 19.717 tra religiosi e religiose e, soprattutto, 50.448 catechisti laici. Un totale di oltre 88 mila persone che sono considerate forza evangelizzatrice, attivamente coinvolte nell’annuncio del Vangelo. Inoltre, nel 2014, il numero dei nuovi battezzati è stato di 41.396. Sulla rivista francese Spiritus, gestita da 12 istituti missionari, p. Hòa ha pubblicato un articolo: «Eglise du Vietnam, dynamique... tu te dois d'être aussi prophétique!» (n.228, settembre 2017) che descrive le molte luci e alcune ombre della comunità cattolica in Vietnam. È una storia e cultura da interpretare. Anzitutto storia. «Il Vietnam – scrive p. Frédéric – è un paese che, come i suoi vicini dell’Asia del sud-est, è segnato dal confucianesimo. Questa saggezza, vecchia di oltre duemila anni, attribuisce molta importanza alle relazioni interpersonali, alla cortesia, alla buona educazione e al rispetto, compreso il rispetto dell’autorità».
Secondo: la società vietnamita, e soprattutto la Chiesa, danno prova di un dinamismo ammirevole. Una intraprendenza notevole si radica in persone semplici e buone. Il loro livello di vita è notevolmente migliorato da due decenni a questa parte.È una società molto giovane e in fermento. E la comunità cattolica suscita sentimenti di approvazione, anche in coloro che cattolici non sono, per le loro opere religiose e sociali:accesso all’acqua potabile, costruzione di strade e di ponti, formazione professionale, aiuto materiale per i più poveri... Pur nella scarsità di risorse disponibili alla gente comune, sorprende questo dinamismo ecclesiale. La Chiesa vietnamita ha resistito a suo modo ai venti contrari che non sono mancati in passato ed esistono, in parte, anche oggi. Vengono edificatinumerosi luoghi di culto, come il santuario di La Vang, in piena ristrutturazione dopo anni di immobilismo dovuto ai freni dell’amministrazione locale. «Questa umile pazienza – sottolinea p. Hòa –, questo rispetto del ritmo dell’altro, questa volontà di non urtare le autorità politiche locali o nazionali ma di dialogare con esse è un modo di resistere tutto impregnato di saggezza asiatica».
Non mancano le ombre, o le “tentazioni”, come le descrive p. Hòa: “Se il materialismo e il suo corollario e il divario tra i poveri e i ricchi non cessano di crescere nella societàvietnamita, bisogna riconoscere che l’attrattiva per i segni esteriori della ricchezza ha contagiato anche la Chiesa. Potendo fare affidamento sulla solidarietà ammirevole dei cristiani vietnamiti locali ed espatriati, la Chiesa ha la possibilità di realizzare le sue ambizioni: ogni Chiesa parrocchiale vuole essere più bella e più grande di quella del campanile vicino; le congregazioni religiose puntano anch’esse su edifici sempre piùgrandi e, per questo, sempre meno accessibili al mondo esterno, a scapito di una scelta più profetica di inserimento di piccole comunità religiose semplici più a contatto con la vita del quartiere” .
In un cattolicesimo, come quello di stampo vietnamita, occorre ridare slancio a una storia sofferta perché intrisa di persecuzione, di sofferenza e di tanta resistenza. P. Frédéric Hòa ammette che i vietnamiti sono molto orgogliosi della loro storia ecclesiale, specialmente di quelle centinaia di migliaia di martiri che hanno contribuito allo sviluppo della fedenel paese. E con piena ragione. Immerso in una cultura particolare e ora sfidato dalle derive di un mondo alla ricerca spasmodica di benessere economico, la storia dei cattolici vietnamiti ha bisogno di una visione meno presbite! Questo servirebbe per migliorare e rivalutare, con una profonda introspezione, l’esempio di tantissimi loro connazionali martirizzati, torturati in prigione e i molti sopravvissuti non del tutto scomparsi. Dopo la valorizzazione di innumerevoli fatti storici, si renderà necessaria la ricerca di una identità cattolica tipicamente vietnamita: impresa ed impegno costante che richiederà sorrisi prolungati in tempi e spazi diversi.
Antonio Paganoni