Gellini Anna Maria
Arricchite dalle reciproche diversità
2018/5, p. 5
“Dalla multiculturalità all’interculturalità” per vivere le differenze culturali come dono di Dio, come opportunità di arricchimento reciproco e come passaggio necessario per umanizzare le persone, le comunità e i popoli. Eletta la nuova presidente USMI sr.Yvonne Reungoat, delle Figlie di Maria Ausiliatrice; vicepresidente sr. Ester Pinca, delle Francescane Alcantarine.

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65° Assemblea dell’USMI
ARRICCHITE
DALLE RECIPROCHE DIversità
“Dalla multiculturalità all’interculturalità” per vivere le differenze culturali come dono di Dio, come opportunità di arricchimento reciproco e come passaggio necessario per umanizzare le persone, le comunità e i popoli. Eletta la nuova presidente USMI sr.Yvonne Reungoat, delle Figlie di Maria Ausiliatrice; vicepresidente sr. Ester Pinca, delle Francescane Alcantarine.
Il tema complesso e di grande densità storica, affrontato dalla 65° Assemblea nazionale dell’USMI, (Roma 4 -6 aprile), esige sempre maggior consapevolezza delle enormi sfide interculturali che determinano il presente e il futuro dell’umanità, della Chiesa e della vita consacrata, chiedendo inevitabili cambiamenti. «Per disporci ad accogliere e ad attuare i cambiamenti, come i nomadi del deserto, abbiamo bisogno di fermarci alle oasi che troviamo sul nostro cammino. Potremmo prendere un breve tempo per fare memoria dei grandi cambiamenti che abbiamo già vissuto durante la nostra vita nell’Istituto e delle evoluzioni, felici o dolorose, che abbiamo attraversato durante il nostro viaggio della vita. E potremmo così riconoscere e accogliere, in questo far memoria, che questi cambiamenti, queste evoluzioni, felici o dolorose che siano, non solo hanno potuto essere traversate, ma sono state anche fonti zampillanti di vita».
Perché questo avvenga occorrono alcune condizioni. Prima di tutto la consapevolezza che l’apertura all’interculturalità non si fa da sé e non siamo spontaneamente pronte ad accogliere le differenze culturali, in rapporto al parlare e a fare silenzio, all’uso del tempo, al modo di parlare e di riflettere, all’apprendimento delle lingue.
L’interculturalità caratterizza anche i percorsi formativi. È importante «avere chiari gli elementi della propria cultura al punto da saperli declinare verso le altre culture con gradualità. L’interculturalità in astratto non esiste, ma è uno stile di vita, una “forma mentis” che si matura. Nessuno nasce interculturale».
In secondo luogo prendere tempo per conoscersi, senza dare per scontato che ci conosciamo già, sostenute dalla fede e dalla preghiera. «Per abbracciare tutte le razze, Cristo ha steso le braccia sulla croce. È necessario accettare di morire a se stessi per vivere e far vivere». Prendere tempo per ascoltarsi, diversamente si cancella la novità di ognuno, rischiando di alimentare pregiudizi e arroccamenti nelle proprie sicurezze. E «non pensare che la propria personale cultura, etnica e generazionale, sia la norma universale della cultura».
Per sr. Modica la formazione è il luogo privilegiato per l’intercultura, in uno stile di reciprocità, in cui la centralità della persona deve avere la precedenza su tutto il resto. E ogni persona, con la sua propria cultura, chiede di essere conosciuta con onestà intellettuale, nella consapevolezza che ogni cultura ha delle criticità, degli elementi da purificare ed evangelizzare.
Cammino lento
ma obbligatorio
Sr. Elisa Kidanè, «eritrea per nascita, missionaria comboniana per vocazione, cittadina del mondo per scelta» come ama definirsi, offre la sua riflessione con una domanda: «Quali esperienze di interculturalità ci possono essere là dove la storia ha offeso, schiacciato e disprezzato tanti popoli diversi da noi? Non possiamo far finta che non sia successo niente. E ancora oggi stanno emergendo elementi insidiosi di nazionalismi, di razzismo, di divisioni. Ma il Cristo è venuto ad abbattere il muro “di divisione”. Proprio a partire da Lui c’è un cammino da fare, lento ma obbligatorio». E ricorda il sogno di M. Luther King, di sedere tutti insieme al tavolo della fratellanza, a prescindere dalle differenze, dal colore della pelle.
La multiculturalità prima e l’interculturalità poi, sono un processo inevitabile. E allora conviene imparare a cogliere quegli aspetti che fanno crescere e migliorano una cultura, senza perdere i propri fondamentali valori, ma anzi rafforzandoli con quelli che offrono culture venute da lontano. «I documenti sull’interculturalità non servono se non “decolonizziamo” lo sguardo, i pensieri, il cuore. Essere capaci di interculturalità è innanzitutto un nuovo modo di essere, prima che di fare. Non ci sono straniere nelle nostre comunità, nelle Congregazioni, non ci sono persone di colore. Dobbiamo metterci alla scuola “insieme”, maturando soprattutto l’arte di vivere, dove ci sia semplicemente un io e un tu in relazione con la possibilità concreta di un riconoscimento reciproco». Allora ci sarà incontro di culture e di valori, senza più innalzare frontiere per sopravvivere, con apertura di orecchie, di occhi, di cuore, nella convivialità delle differenze. «Come consacrate dobbiamo fare un salto di qualità, rimettere al centro Cristo e decentrarci da noi stesse per la costruzione di una cittadinanza nuova, quella del Regno e per la realizzazione di un sogno, quello di Dio».
Con uguale
dignità
Perché il passaggio dalla multiculturalità all’interculturalità sia concreto e vero, prima di ogni altra considerazione operativa è necessario verificare se abbiamo ben compreso la nostra realtà battesimale come adesione a Cristo: «prima di essere consacrati, siamo cristiani».
Alla luce della pericope della lettera alle comunità della Galazia 3,23-29, mons. Morandi evidenzia come l'apostolo Paolo mostri la funzione provvisoria della Legge e la prevalenza della Fede, denunciando il pericolo che rischia di far morire quella comunità: le pratiche del giudaismo portano i Galati a una pericolosa involuzione, rendendo vana la croce di Cristo. In questo contesto paolino, si vuole affermare che rispetto alla salvezza che si ottiene mediante la fede in Cristo, le distinzioni sono e diventano irrilevanti, in quanto tutti ci troviamo nella medesima condizione sia che siamo giudei o greci, liberi o schiavi, maschio o femmina. Tutti siamo uniti nell'esperienza di essere stati gratuitamente salvati. È il battesimo, non la cultura, il fondamento della nostra identità più profonda e di conseguenza il fondamento della nostra unità. Solo sulla base della cultura scateniamo le conflittualità e le incompatibilità di identità; tanto protagonismo personale diventa motivo di tante sofferenze e incomprensioni. Il rinnovamento non è dunque problema di metodo ma è questione di rigenerazione, non sta nel riempire le sale ma nel rianimare i cuori, lasciandosi abitare da Cristo. Senza di Lui “si può fare il bene senza voler bene”. Con Cristo, invece, si realizza la fondamentale unità, senza discriminazioni e con uguale dignità.
Processo
lungo e faticoso …
Inculturarsi in un'altra cultura è «come cambiare casa ed entrare in un'altra famiglia dove si arriva con ciò che si è e dove si impara un altro universo di relazioni sociali con cui si dà senso alla vita, si organizza la comunità, si producono e si distribuiscono i beni necessari. È sempre un dialogo tra la cultura da cui si viene e quella nella quale si arriva. L'arrivo in casa dell'altro con l'intenzione di trasferirsi in essa, provoca una vera e propria fecondazione della propria cultura, il cui frutto è l'identificarsi nella cultura incontrata fino a divenirne parte naturale». Alcuni riferimenti biblici possono confermare questa riflessione. «Tracciare il cammino camminando, è il modo in cui il Signore umanizza coloro che sceglie. Abramo, per esempio, visse nella sua casa, in un buon equilibrio con l'ambiente che lo circondava, con la sua famiglia e con se stesso». Ascolta il Signore che gli dice: “Lascia il tuo paese, la tua patria, e la casa di tuo padre e va’ verso il paese che io ti indicherò” (Gen 12,1). Abramo lo fa e diventa padre della fede e origine di una discendenza immensa e diversa. «Non si aggrappò alla sua tranquillità personale e nemmeno alla stabilità che la sua cultura gli dava. Seppe relativizzarla riconoscendo Dio solo come Assoluto e seppe dirigersi verso ciò che gli era culturalmente sconosciuto, sostenuto dalla sua piena fiducia in Dio, portando con sé la sua identità culturale e aperto alla novità che un nuovo cammino avrebbe potuto offrirgli».
Il Signore ascolta il grido del popolo di Israele reso schiavo in Egitto. (Es 3,7) «Per liberarlo, gli chiede di mettersi in cammino, di uscire da sé e di far rotta verso una terra promessa, diversa da ciò che è noto. Nel deserto si incontra con la novità e sente nostalgia dei suoi costumi, della sicurezza offerta dalla schiavitù. Il processo per giungere alla Terra Promessa, a una nuova situazione culturale, è lungo e faticoso. Tanto da richiedere più di una sola generazione».
Anche il mistero dell'incarnazione può essere letto come un processo di inculturazione. Dio decide la salvezza del genere umano. «Per questo, fa uscire il Figlio verso il mondo umano facendo di lui uno dei tanti. Salvare l'altro comincia con il riconoscerlo, e vuol dire uscire dalla propria posizione per incarnarsi nella realtà dell'altro, assumendo tutte le conseguenze».
… ma sempre
incompleto
«L'inculturazione è un processo sempre incompleto», evidenzia p. Sosa. «I contesti sociali cambiano molto e rapidamente. Le culture si muovono anche secondo la dinamica dei contesti locali ed internazionali. Per questo, «l'inculturazione, dalla prospettiva della vita consacrata, esige un discernimento comune, fondato su un'autentica vita nello Spirito». L'inculturazione così compresa è «la compagna della missione evangelizzatrice della vita consacrata al servizio della missione di Cristo, cercando di essere il più possibile simile a Lui».
L’inculturazione può favorire il «cammino di accesso alla cattolicità, perché riconosce le differenze culturali come rivelazione del volto dell’umanità creata a immagine e somiglianza di Dio, arricchita dallo scambio sempre più profondo tra di esse».Cattolico è l'essere umano «capace di sentirsi membro dell'umanità perché è cosciente criticamente della sua propria cultura (inculturazione), è capace di riconoscere con gioia la cultura degli altri esseri umani (multiculturalità) e di relazionarsi con altri, arricchendosi con la varietà di cui la sua cultura è parte (interculturalità). L’interculturalità è quindi il mezzo per il quale creiamo le condizioni «per vivere in pieno l’umanità. Contribuisce ad umanizzare le persone, le culture e i popoli», può diventare «impulso verso la giustizia sociale, la fraternità e la pace, favorendo il superamento dei fondamentalismi».
Visione critica
della storia e formazione
L’interculturalità coinvolge la vita consacrata su diversi versanti.
«La prima conseguenza per la vita consacrata è approfondire con visione critica le origini di ciascuna famiglia religiosa e il loro sviluppo storico. Ciascuna congregazione ha cercato di discernere lungo la sua storia come vivere il carisma in contesti diversi e mutevoli».È necessaria una visione critica della storia in cui la vita consacrata nasce e si sviluppa, come è necessario «fare del discernimento spirituale comunitario il modo normale per prendere decisioni sulla missione in ogni contesto dove la vita consacrata è inculturata»: sempre più grande è il numero di comunità religiose internazionali e multiculturali. «Ciò richiede religiosi e religiose con un'autentica vita nello Spirito, nutriti dall'Eucaristia, capaci di pensare liberamente e criticamente e dedicati alla missione con generosità».
Una delle sfide maggiori della formazione per l’interculturalità è conoscere e prendere in considerazione le culture giovanili nei vari contesti sociali attuali.
Per tematizzare nei piani di formazione iniziale e permanente la pluralità dell'esperienza religiosa e culturale contemporanea in vista di una visione spiritualmente integrata della diversità, occorre riesaminare le pratiche della vita religiosa. «Potranno essere confermate in modo nuovo, per esempio, l'austerità comunitaria in chiave più ecologica, la condivisione dei beni o la vita di preghiera quale condizione per il discernimento spirituale. L'obbedienza e la castità dovranno essere oggetto di una riflessione più profonda, e sottomesse al vaglio della diversità. L'obbedienza ci pone dinanzi a strutture e modi di esercitare l'autorità religiosa, indicandoli come strumenti per facilitare come cercare e trovare la volontà di Dio sulle persone, le comunità e le opere apostoliche. La diversità obbliga anche ad un approfondimento etico, filosofico e teologico dell'affettività umana, nelle sue manifestazioni e nei modi di vivere la sessualità e il senso del celibato religioso».
I processi formativi dovranno essere in dialogo con i diversi contesti culturali, con la storia di ogni popolo, con i percorsi personali. «Solo con l’aiuto della grazia è possibile aprirsi all’esperienza dell’interculturalità, come dimensione della nostra vita cristiana, religiosa e missionaria».
Anna Maria Gellini