Un maestro nella foresta
2018/4, p. 46
Il libro, a cura dei professori Canevaro
e Farnè, dell’Università di Bologna,
insieme a Volpi e a Giulia Manzi,
presenta un interessante profilo di
quel “maestro speciale” che fu Alberto
Manzi (1924-1997). Reso famoso
dalla trasmissione televisiva Non è
mai troppo tardi, Manzi, dal 1960 al
1968, insegnò a moltissimi italiani a
leggere e scrivere, e sfidò l’analfabetismo
anche in Paesi d’oltreoceano.
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NOVITà LIBRARIA
UN MAESTRO
NELLA FORESTA
Il libro, a cura dei professori Canevaro e Farnè, dell’Università di Bologna, insieme a Volpi e a Giulia Manzi, presenta un interessante profilo di quel “maestro speciale” che fu Alberto Manzi (1924-1997). Reso famoso dalla trasmissione televisiva Non è mai troppo tardi, Manzi, dal 1960 al 1968, insegnò a moltissimi italiani a leggere e scrivere, e sfidò l'analfabetismo anche in Paesi d’oltreoceano.
Maestro e pedagogista
Laureato in biologia, pedagogia e filosofia, Manzi aveva iniziato nel 1946 a insegnare nel carcere minorile Gabelli di Roma. Nel 1954, lasciata la direzione dell'Istituto di Pedagogia della Facoltà di Magistero, fece il maestro elementare e condusse «sul campo» ricerche di psicologia didattica. Dal 1955 al 1984 si recò ogni estate in America Latina: profondamente colpito dalle condizioni di vita dei nativos, tenuti nell'ignoranza e nello sfruttamento, insegnò agli indios e li aiutò a costituire cooperative agricole e piccole attività imprenditoriali. Nel 1987 fu invitato a collaborare al Piano nazionale di alfabetizzazione dell’Argentina, che sarà poi premiato dall’UNESCO. Nel 1993 Manzi fece parte della Commissione per la legge quadro in difesa dei minori e nel 1994 venne eletto sindaco di Pitigliano (Grosseto). Alberto Manzi, con la sua attività di maestro in e con la televisione ha mostrato anche a un grande pubblico di far parte di quella «tribù» di educatori e educatrici che non insegna nel senso stretto del termine, ma rende l'altro consapevole di possedere già in sé i semi per accrescere le proprie conoscenze. «Ciascun essere vivente è un archivio, una biblioteca, in cui, cercando, si trovano semi di conoscenza da curare e coltivare».
Manzi si mette in gioco, raggiungendo l'altro e percorrendo un buon pezzo di strada con lui. Riconoscere l'altro, i suoi bisogni, la sua storia, aiutarlo ad aiutarsi, avere fiducia nelle sue possibilità, attribuirgli compiti e responsabilità, significa anche non imporre necessariamente i propri modi e stili. Nel medesimo tempo occorre dichiarare le aspettative, le motivazioni, il proprio sogno, e accettare di entrare in un processo di mediazione anche attraverso patti e regole, lasciando però all'altro l'ultima parola riguardo alle decisioni sulla sua vita e sulla sua cura. In Alberto Manzi c'è, ben radicata, una grande professionalità che lo porta a guardare la realtà con il gusto dell'impegno, della comprensione profonda, vivendo l'aiuto non come un dovere che si assolve nel tempo libero ma come impegno dell'intera esistenza.
Avventura e pedagogia
Il senso dell'avventura per Manzi è stato un dispositivo pedagogico oltre che una connotazione sul piano esistenziale. Raccontando di sé, disse che «il suo sogno da ragazzo era di fare il capitano di lungo corso e per questo aveva frequentato l'istituto nautico, prima di prendere il diploma di maestro elementare».
Quando alla metà degli anni Cinquanta, Manzi si imbarca per la prima volta su una nave diretta in America Latina, non è ancora il «maestro più famoso d'Italia».
Quel primo viaggio ha uno scopo preciso - studiare le formiche della foresta amazzonica - ma ben presto le motivazioni si convertono in qualcos'altro: Manzi accantona i suoi studi sugli insetti per liberare tante persone dall’ignoranza.
Il viaggio per mare, raccontato con la cura quasi di un «diario di bordo», e quello per terra nella foresta amazzonica, lungo sentieri pressoché impercorribili, a dorso di mulo o su una vecchia Ford e alle prese con una natura affascinante e non-amica, ci restituiscono un'immagine di Manzi reporter a vocazione didattica. Ciò che racconta ai suoi giovani lettori è semplicemente il resoconto di ciò che lui impara facendo quel viaggio. Lo sguardo di Manzi biologo sembra rendere omaggio a Kipling quando coglie i tratti di un mondo animale dove il giaguaro, l'orso grigio, il tapiro sono come personaggi che, ognuno col proprio «carattere», animano la scena della foresta. E poi ci sono le formiche, il «fiume nero» di quelle carnivore; e Manzi di formiche se ne intendeva, visto che nel 1955 aveva fatto il suo primo viaggio in Sudamerica, nella foresta amazzonica, con una borsa di studio proprio per studiare un tipo di formiche.
A volte il tono, lo stile, è quello dello «stupore infantile», altre volte della descrizione geografica ed etnografica, altre ancora dell'umana compassione.
Dalle esperienze alla conoscenza
«Questa è la storia!», diceva Manzi ai suoi allievi di quinta elementare quando, dopo la visita al campo di Dachau, qualcuno di loro gli chiedeva: «Perché ci hai portato qui, maestro?». La pedagogia di Alberto Manzi non ha alcun carattere «protettivo nei confronti dell'infanzia, nel senso che egli concepisce l'educazione come un percorso dove i soggetti devono conoscere la realtà in presa diretta, con la guida di un insegnante che mette loro a disposizione le esperienze e gli strumenti perché quelle esperienze si trasformino in conoscenze. Per Manzi non si tratta di «proteggere» i bambini da una realtà dura e difficile, ma di aiutarli a entrare in quella realtà dando loro, progressivamente, gli strumenti per esserne protagonisti e per cambiarla.
Anna Maria Gellini