Una generazione all'ombra del muro
2018/4, p. 35
Il dossier della Caritas racconta e indaga i tanti muri nel
mondo, concentrandosi nel caso più emblematico
costituito dalla “barriera israelo-palestinese”, che dal 2002
non ha smesso di ampliarsi. Ma è un fenomeno in
espansione in tutto il mondo.
Accedi alla tua area riservata per visualizzare i contenuti.
Questo contenuto è riservato agli abbonati a
Testimoni
.
Dossier della Caritas sui tanti muri del mondo
UNA GENERAZIONE
ALL’OMBRA DEL MURO
Il dossier della Caritas racconta e indaga i tanti muri nel mondo, concentrandosi nel caso più emblematico costituito dalla “barriera israelo-palestinese”, che dal 2002 non ha smesso di ampliarsi. Ma è un fenomeno in espansione in tutto il mondo.
«Signori Presidenti, il mondo è un’eredità che abbiamo ricevuto dai nostri antenati, ma è anche un prestito dei nostri figli: figli che sono stanchi e sfiniti dai conflitti e desiderosi di raggiungere l’alba della pace; figli che ci chiedono di abbattere i muri dell’inimicizia e di percorrere la strada del dialogo e della pace perché l’amore e l’amicizia trionfino». Questo discorso è stato pronunciato da papa Francesco in occasione dell’invocazione della pace in Terra Santa insieme al capo di stato palestinese Mahamoud Abbas e del presidente israeliano Shimon Peres (giugno 2014).
Sin dalla sua elezione il pontefice non ha mai smesso di scagliarsi contro i muri nel mondo, generati da paura, aggressività ed egoismo, puntando il dito contro quei “muri visibili e invisibili” che creano frammenti incoerenti in un mondo sempre più globalizzato. Per papa Francesco al concetto di “muro” va contrapposto quello di “ponte”. Il muro nasce dalla paura che crea paralisi: «Sentirci paralizzati. Sentire che in questo mondo, nelle nostre città, nelle nostre comunità, non c’è più spazio per crescere, per sognare, per creare, per guardare orizzonti, in definitiva per vivere, è uno dei mali peggiori che ci possono capitare nella vita. La paralisi ci fa perdere il gusto di godere dell’incontro, dell’amicizia, il gusto di sognare insieme, di camminare con gli altri». Da qui la necessità di costruire ponti fra nazioni, religioni e popoli. Il ponte è strumento edificato sui mattoni della solidarietà, il primo passo per il conseguimento della pace. Un interessante dossier della Caritas intitolato All’ombra del muro racconta e indaga i tanti muri nel mondo, concentrandosi nel caso più emblematico costituito dalla “barriera israelo-palestinese”, che dal 2002 non ha smesso di ampliarsi.
Il livello internazionale
del problema
Nel 1989 si decretava l’unificazione della Germania, l’agonia dell’Urss e la creazione della miriade di piccoli post-comunisti. Con la caduta del muro di Berlino venivano alla luce le gravi fratture sottostanti a una illusoria unità dell’Europa. Da allora il numero di barriere tra gli uomini è aumentato esponenzialmente: secondo uno studio del 2016 di esperti dell’Università del Quebec, nel 1989 si contavano 16 recinzioni in tutto il mondo; oggi sono 63, in 67 Stati. Un terzo dei paesi del mondo presenta recinzioni, di diversi tipi, lungo i suoi confini. In particolare, nel continente africano se ne contano 12, due sono i muri che dividono l’America (separando Stati Uniti e Messico, Messico e Guatemala), 36 i muri che frammentano Asia e Medio Oriente, mentre 16 sono le recinzioni che attraversano l’Europa nella parte orientale del continente, 14 di queste barriere sono recenti, dal 2103 in poi: una delle cause principali alla base della loro costruzione è legata alla gestione dei migranti dopo la riapertura della rotta balcanica. Nel corso del 2015 sono iniziati i lavori di 17 recinzioni in tutti i continenti, a cui si aggiungono le 4 del 2016. Un vero boom della fortificazione: dal 2000 in poi sono comparsi circa 10mila km di cemento e filo spinato. Dall’Ungheria alla Bulgaria, dalle due Coree alla Cisgiordania, dall’Arabia Saudita all’India fino al muro degli USA al confine con il Messico, i paesi si blindano per arginare i migranti e proteggersi dal terrorismo.
Globalizzazione e guerre hanno messo in movimento milioni di esseri umani, minando la convivenza collettiva e diffondendo paura e insicurezza. I muri nell’immaginario collettivo sono dunque essenzialmente di due tipi: quelli anti-flussi migratori (protezione degli Stati sovrani dalle invasioni delle masse del Sud del mondo) e le barriere contro popoli nemici (tutela del proprio territorio da guerre e terrorismo). A questi tipi di muro si aggiunge una nuova tipologia di barriera, rappresentata dal caso di Pretoria, capitale del Sudafrica: nel 2017 il sindaco propone la costruzione di un muro per separare due comunità, dopo le tensioni tra gli abitanti della ricca zona residenziale e quelli delle township (baraccopoli senza servizi di base). Emerge dunque un tipo di muro costruito per separare i ricchi dai poveri, un assurdo in uno Stato che nel 1994 aveva abolito l’apartheid (segregazione razziale).
Muri europei
anti-immigrazione
Il 2016 è stato l’anno dei muri anti-immigrazione, della militarizzazione delle frontiere, del record dei morti nel Mediterraneo. Già dal 2012 la cosiddetta “rotta balcanica” che porta migranti dal Medio Oriente all’Europa centrale è stata frammentata con una serie di barriere per arginare i flussi: il muro dell’Evros tra Grecia e Turchia, seguito nel 2014 da quello tra Bulgaria e Turchia. Il 2015 si conclude con la decisione della cancelliera tedesca Angela Merkel di sospendere il regolamento di Dublino (legislazione che impone ai migranti di chiedere protezione nel primo paese d’ingresso nell’Unione) e di accogliere oltre 600mila siriani in fuga dalla guerra. Il 2016 ha visto un fenomeno opposto: la rotta balcanica è bloccata per il ripristino dei controlli di frontiera da parte di Ungheria e della ex Repubblica di Macedonia (Fyrom) e da muri e recinzioni come quelli di 175 chilometri che separano l’Ungheria dalla Serbia.
In pochi mesi, campagne populiste e xenofobe, messe in atto da partiti nazionalisti di estrema destra, hanno fatto dei migranti un capro espiatorio funzionale ai problemi di un’Unione sempre più debole. Ai muri di cemento e filo spinato, se ne è aggiunto uno fatto di burocrazia che ha bloccato milioni di persone in fuga: l’accordo tra Europa e Turchia (marzo 2016) ha definitivamente chiuso la rotta balcanica che si snodava attraverso Grecia, Fyrom, Serbia, Ungheria, Austria e gli altri paesi balcanici. In cambio di sei miliardi di euro in aiuti, la Turchia s’impegna a non lasciar partire i profughi dalle sue coste e ad accettare che i migranti arrivati in Grecia siano deportati di nuovo in territorio turco. In poco tempo, il muro politico Ue-Turchia ha moltiplicato i suoi effetti, trasformando gli hotspot (centri di registrazione) in prigioni a cielo aperto con migranti costretti ad aspettare un rimpatrio forzato.
Di pari passo al sorgere dei muri è cresciuto il fenomeno degli investimenti per il controllo delle frontiere. L’Europa ha lanciato nel 2016 l’idea di una guardia di frontiera comune, un rafforzamento di Frontex (agenzia europea per il controllo dei confini esterni). Il nuovo corpo può contare su 1.500 agenti scelti fra le guardie di frontiera nazionali. I primi a beneficiare delle politiche di rafforzamento dei confini sono aziende militari, tecnologiche e della sicurezza (come Airbus, Finmeccanica, Thales e Safran, con il gigante tecnologico Indra). Ad aver beneficiato di fondi europei sono state anche compagnie israeliane, per il loro apporto al rafforzamento dei confini di Bulgaria e Ungheria. Molte aziende che stanno facendo affari con Frontex però sono le stesse che vendono armi ai paesi del Medio Oriente e Africa, dai quali i migranti fuggono per inseguire il “sogno europeo”. Va rimarcato che questo dispendio economico per il controllo e la militarizzazione delle frontiere ha coinciso con il record di morti nel Mediterraneo: nel 2016 hanno perso la vita in mare oltre 5mila persone (1.300 in più del 2015).
Il caso
del Messico
Tra i muri anti-immigrazione, fuori dall’Europa, c’è il muro fra Messico e Stati Uniti. Il confine è quello più trafficato al mondo, con circa 350 mln di attraversamenti legali ogni anno. Secondo alcune stime, dal 2005 a oggi gli USA hanno speso 132mld di dollari per rafforzarne la sicurezza. Un confine che misura 3.200km è difficile da sorvegliare e allora il governo americano spende ogni anno miliardi di dollari in spese aggiuntive come sensori, telecamere a visione notturna, radar, elicotteri, droni e spese legali per perseguire coloro che oltrepassano irregolarmente il confine. Il principale ente che si occupa di controllare il confine è la Border Patrol, un’agenzia federale con più di 20mila dipendenti. Nonostante tutto, centinaia di migliaia di persone tentano ogni anno di attraversare la frontiera, soprattutto per migliorare le proprie condizioni di vita: infatti negli Stati Uniti il Pil pro capite è sei volte superiore a quello del Messico, 56mila dollari contro 9mila. Nel 2016 sono stati quasi 416mila i migranti fermati dalle forze armate. Al momento vivono negli Stati Uniti circa 11mln di persone irregolari che però contribuiscono all’economia americana. Il muro desiderato da Trump non risolverà questi problemi, e anzi causerà più sofferenze e danni all’economia americana. Le critiche al presidente americano sono arrivate con forza anche da papa Francesco che, al ritorno dal suo viaggio apostolico in Messico nel febbraio 2016, ha dichiarato che «una persona che pensa solo a costruire muri» e «non a costruire ponti, non è cristiana».
Ferite
tra popoli vicini
Secondo la Caritas, i muri sono come un’infezione che impedisce la cicatrizzazione di ferite fra popoli vicini. Ferite che al posto dei muri avrebbero bisogno di “ponti di sutura”, basati sul dialogo e la conoscenza reciproca. Per quanto riguarda il territorio europeo, la pesante eredità dello scontro fra Oriente e Occidente, fra musulmani e cristiani all’epoca della dominazione ottomana, prende oggi la forma concreta di due muri: quello lungo il fiume Evros e quello sull’isola di Cipro tagliata in due dal 1974 dalla “linea verde”. Sempre in ambito europeo c’è la Peace-Line di Belfast, costruita a partire dal 1969, che ancor oggi separa la Belfast cattolica da quella protestante.
In Asia invece, dopo la Guerra fredda tra blocco comunista e blocco capitalista, c’è la barriera del 38esimo parallelo che dal 1948 separa Corea del Nord e Corea del Sud. L’India ha costruito barriere sia con il Pakistan (per il controllo della ricca area del Kashmir), sia con il Bangladesh (4mila chilometri di barriere per impedire i flussi migratori e porre fine alle azioni terroristiche bengalesi). Ancora, i confini militarizzati fra Arabia Saudita e Yemen hanno lo scopo di impedire infiltrazioni terroristiche e bloccare il traffico di droga dallo Yemen. Fra i muri più antichi in Africa c’è il Muro di sabbia marocchino, che dal 1982 divide in due il Sahara occidentale (2.700 km), per difendere il territorio marocchino dagli attacchi del Fronte Polisario del popolo Saharawi.
Tra Israele e Palestina
un orizzonte murato
Il caso più emblematico rimane quello della nazione israeliana. Dal 2000 a oggi Israele ha recintato se stesso circondandosi di barriere che lo isolano all’esterno dalle nazioni vicine (Libano, Egitto, Siria e Giordania) e all’interno per gestire i conflitti con i palestinesi (muri di Cisgiordania e Gaza). Le motivazioni di questa scelta sono rintracciabili nelle dichiarazioni del premier Netanyahu: Israele è una «villa nella giungla» circondata da «bestie feroci» e l’unica soluzione per difendere il paese è chiuderlo in una grande gabbia. Centinaia di km di muri separano Tel Aviv dalla Striscia di Gaza e dai Territori palestinesi occupati; entro due anni verrà completato il muro intorno a Gaza (96 km fra la Striscia e il sud di Israele), che si snoderà sia in superficie che sottoterra: una barriera per impedire infiltrazioni da Gaza attraverso i tunnel sotterranei costruiti dal movimento islamico Hamas e da altre organizzazioni palestinesi.
Sul fronte della Cisgiordania, la costruzione della “barriera di sicurezza” che separa i territori palestinesi da quelli israeliani risale al 2002: 730 km di reticolato e cemento che serpeggiano tra i quartieri di Gerusalemme e Betlemme, per l’85% all’interno del territorio palestinese e solo per il 15% sulla linea di frontiera. Il muro di cemento alto 8 metri penetra al di là della “linea verde” istituita dalle Nazioni Unite nel 1967, creando di fatto “isole palestinesi” all’interno del territorio israeliano. Il muro che condiziona ogni giorno la vita di 4,81 mln di palestinesi è il segno più evidente di un’occupazione militare che dura da 50 anni. È la più lunga crisi umanitaria della storia delle Nazioni Unite! Nonostante il progetto nascesse come misura di sicurezza temporanea, per proteggere la popolazione israeliana dagli attacchi terroristici, il tracciato odierno dimostra che di fatto sono state annesse a Israele porzioni di territorio palestinese, soprattutto in corrispondenza degli insediamenti dei coloni.
Il business
della paura
L’ultima parte del dossier Caritas 2017 rileva che la maggior parte dei muri e delle barriere sono sorte negli ultimi decenni in sistemi democratici, economicamente sviluppati, come quelli europeo, statunitense, israeliano. In questi sistemi l’opinione pubblica è sempre pi�� facilmente condizionabile attraverso lo strumento della paura. Tenere separati popoli e persone, facendo leva su un timore reciproco alimentato da reciproca ignoranza, si rivela una strategia utile per conseguire precisi scopi politici e/o economici. Un muro però si configura come un “placebo temporaneo”: attraverso un fittizio senso di protezione di fatto alimenta ogni giorno le paure, ostacolando la conoscenza e la razionalizzazione dell’eventuale pericolo. Al contrario, una comunità che basa le proprie scelte sull’esperienza e sulla conoscenza è in grado di fronteggiare lobby e gruppi di potere che cercano di influenzare la politica per imporre i propri interessi. In particolare va segnalata la lobby del settore della difesa, una delle più potenti, legata a doppio filo alla finanza internazionale.
Ebbene, alimentare le paure, non solo danneggia “il più debole”, ma stravolge la natura stessa della comunità più forte. Questa è la tesi sostenuta nel saggio “L’impatto dell'ultima occupazione, lezioni dalla società israeliana”, secondo il quale gli effetti dell’occupazione dei territori palestinesi corrompono la società israeliana, che abbandona i valori del rispetto reciproco con culture e religioni diverse, per lasciare spazio alla logica del sospetto e del disprezzo. Ma ci sono altri effetti egualmente importanti, che si possono individuare nelle tre fasi della storia recente. La prima fase (1967-1987) corrisponde a un periodo in cui l’occupazione era un affare redditizio per gli israeliani. La seconda fase (prima Intifada palestinese: 1987-2004) mostra un’inversione di tendenza, con alti costi in termini di danni a edifici e di spesa militare. La terza fase (dal 2004 a oggi) è caratterizzata dalla nascita di aziende private specializzate nella produzione di prodotti per la “protezione della patria”, esportati in tutto il mondo.
Mario Chiaro