Cozza Rino
E' tempo di creatività
2018/4, p. 29
La situazione attuale si presenta come difficile ma nel contempo come reale opportunità-necessità di ripensarsi nel quadro della contemporaneità. È necessario prendere atto della relatività storica di ogni forma. Ma nessun cambiamento è possibile senza la rinuncia a schemi obsoleti.

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Il modello di fraternità
È TEMPO
DI CREATIVità
La situazione attuale si presenta come difficile ma nel contempo come reale opportunità-necessità di ripensarsi nel quadro della contemporaneità. È necessario prendere atto della relatività storica di ogni forma. Ma nessun cambiamento è possibile senza la rinuncia a schemi obsoleti.
Mai come oggi nella vita religiosa si è pungolati a essere nuovi con il trovare nuove tracce di senso che ne rendano evidente la funzione di “segno”, di “sale” e di “fermento”. In ciò si è aiutati dal convincimento che il peso della memoria ha accumulato soluzioni più per un fenomeno di inerzia che per convinta scelta.
Certamente la situazione attuale si presenta come difficile ma nel contempo come reale opportunità-necessità di ripensarsi nel quadro della contemporaneità, che ci mette in guardia dal fatto che «abituati al gusto del vino vecchio e rassicurati da modalità già sperimentate, non si è realmente disponibili ad alcun cambiamento se non sostanzialmente irrilevante».
Relatività storica
di ogni forma
Siamo eredi di un passato spesso paradossalmente portato a rendere più sacra la memoria storica che il Vangelo. L’abbaglio è nato dal credere di poter dare risposte a domande nuove traendole da un repertorio culturale preesistente e limitato, considerato irriformabile punto di arrivo, portandosi sempre più all’omologazione di ciò che nel tempo era stato fatto, piuttosto che alla creatività.
Ora in tempo di cambio d’epoca, il punto da cui partire sta nel riconsiderare in profondità e con occhi nuovi le narrazioni delle comunità neo-testamentarie da cui tutto è partito, le quali non avevano lo scopo di formare quel tipo particolare di cristiano che poi è stato il “religioso”, ma di plasmare il credente in Cristo. In questa originaria forma di vita cristiana non è presente il vivere sotto lo stesso tetto, come non c’è la fuga dal mondo e quanto ne è conseguito: in verità questi elementi sono estranei ai noti sommari di Luca.
Il riferimento alla comunità di Gerusalemme quale presunta ispiratrice della vita in comune (cenobitica) si trova nei “regolamenti” di Orsiesi (360 circa) successore di Pacomio il quale stabilisce una relazione tra koinonia e vita comunitaria quale emerge – a suo dire – negli Atti degli Apostoli. Ma negli Atti il vocabolo koinonia – scrive il biblista S.B.Pacheco – non equivale mai a vita in comune sotto lo stesso tetto, bensì a comunione di beni (At 2,42) o di fede (1Gv 1,3). Luca voleva che nella comunità nessuno fosse indigente: era questo che creava tra i credenti uno stretto vincolo che ne faceva dei “condividenti” e non dei “conviventi”. È, in particolare, con Basilio (330-379) che fu introdotta la “vita cenobitica”, nonostante definisse i suoi seguaci semplicemente come cristiani. Per Basilio però non era una seconda vocazione, ma la vocazione cristiana presa in tutta la sua serietà, di coloro che cercavano di dare vivezza alle vicende quotidiane, di scoprire le tracce di Dio nella realtà feriale, di umanizzare la sua parola, così che potesse entrare nell’avventura degli uomini.La tradizione dell’origine apostolica del cenobitismo si ebbe a partire da G. Cassiano, per il quale la Chiesa sarebbe nata monaca, e la vita cenobitica conserverebbe l’espressione più autentica della vita cristiana.
Dunque il chiudersi nelle categorie che la vita religiosa si è portata dietro, è iniziato dopo la fase anacoretica, quando il mettersi assieme era dovuto a esigenze di sopravvivenza. Vari secoli dopo, specie a partire dal millecinquecento, i religiosi si misero assieme in vista di una maggiore efficienza apostolica.
Si può dunque convenire che la diversità di forma comunitaria vissuta nella vita religiosa non sia dovuta ad un elemento teologico che la differenzi dalle altre, ma a fattori diversi, quanto lo sono stati i tempi entro cui è andata sviluppandosi con il supporto di idee e prassi pigramente sopravvissute a se stesse.
Avvedendosi di questo pericolo già san Agostino (354-430), stabiliva per i suoi seguaci le seguenti direttive: «tutte quelle cose che non trovano fondamento nella S. Scrittura…. quelle di cui non si riesce a vedere quali scopi perseguano, si devono semplicemente abolire. Sebbene non contraddicano la fede, appesantiscono la religione, che dev’essere, secondo il disegno di Dio, libera da sovraccarichi che la rendono schiava».Nonostante questi avvertimenti, per troppi secoli ci siamo inebriati di una cultura dell’aggiungere, tanto che ora «togliere» ci sembra perdita.
Rinuncia
a schemi obsoleti
Tra i pionieri del cambiamento ci sono, nei primi decenni del ‘900, gli Istituti Secolari i quali partendo dalla presa d’atto che non è possibile essere fermento standone a distanza, danno l’avvio a un’inedita forma di vita discepolare, nella consapevolezza di «essere nel mondo, non del mondo, ma per il mondo» (Paolo VI). Si apre così, con la costituzione apostolica Provida Mater (1947) una nuova prospettiva discepolare poggiata su elementi diversi da quelli della vita religiosa, quali ad esempio, il passaggio dalla “separazione!” alla “immersione”, con contenuti e stili di vita adeguati alla situazione del mondo. In questa nuova forma, inoltre, la “vita in comune” diventa “vita di comunione”,dove lo stare assieme ha qui un significato di unione interiore piuttosto che in senso locale temporale.
Successivamente sono sorte altre forme, in numero crescente, tutte orientate a un differente tipo di presenza nella società, la cui forza non è riposta nella difesa di sistemi organizzativi o mentali fissi, ma nell’ascolto della richiesta di spiritualità che è al di fuori.Sono forme che hanno coscienza di rappresentare qualcosa di ben diverso dalle istituzioni canoniche e che rifiutano di diventare tali.Forme che partendo dal fatto che il “valore” è la vita fraterna e il “come” ne è solo la forma, sono andati, senza storicizzazioni, alle origini, vale a dire alla esigenza di koinonia incuriosente, cioè capace di esprimere elementi di fascinazione. Così facendo hanno avuto la possibilità di poter tradurre la comunione in forme plurime e più elastiche che vanno dal coabitare per alcuni, al convenire per altri. Diceva J.M.Tillard: «la koinonia con i suoi assi di accoglienza e di perdono, impensabili senza un essere-insieme reali, non va necessariamente confusa con una perpetua presenza simultanea».
Oltre a queste forme di vita evangelica nel contempo ne sono nate anche altre: i movimenti ecclesiali, «manifestazione di energia e di vitalità ecclesiale – nel dire di Giovanni Paolo II – da considerarsi certamente uno dei frutti più belli del vasto e profondo rinnovamento spirituale promosso dall’ultimo Concilio». Tutto ciò è andato incontro all’aspirazione di numerosi laici che avevano preso coscienza della crisi profonda che travaglia la Chiesa e la vita consacrata, ma anche delle insospettate possibilità che questa crisi rivelava.
Oggi la fraternità non dipende da un solo tipo di vita comunitaria.
Come essere comunità è ora il nodo maggiormente problematico per la vita consacrata tradizionale, ma lo è stato anche nella Chiesa nascente: la disputa tra la comunità di Antiochia e quella di Gerusalemme si concluse in buona pace, con il convenire che un unico modello di vita fraterna non è possibile, e in ogni caso non proponibile, per il fatto che le comunità devono essere il frutto di un continuo processo di interpretazione delle diverse situazioni culturali, nelle quali i cristiani si trovano a vivere. La vicenda di Antiochia viene a dire che «un rinnovamento incapace di toccare e cambiare anche le strutture, oltre che il cuore, non porta a un cambiamento reale e duraturo».
Se la fraternità è al cuore della vita religiosa allora l'impegno, non procrastinabile, è di trovare modelli di fraternità che rispondano alla concezione della persona ripensata alla luce dell'attuale cultura. Fraternità costruite sul paradigma relazionale della famiglia con parole tipiche degli ambienti familiari, amicali, empatici. Allora il futuro della vita religiosa sarà in diversificate forme espressive di comunione, che siano il riflesso di qualcosa che è mutato nei rapporti Chiesa-mondo, persona-istituzione, sacro-profano. Forme che non prediligano sistemi organizzativi complessi, inevitabilmente caratterizzati da spinte spersonalizzanti e che creano dipendenza. Diversamente – è ciò che sta accadendo – varie figure storiche correranno il rischio di essere messe fuori dal gioco della vita.
Che cosa
già si intravvede?
Tra non molto ritroveremo quella che fu la condizione delle origini: una realtà nuova generata dalla fede in Cristo che si presentava come forza alternativa, con la capacità di custodire quella differenza cristiana che metteva in crisi la religione e la società di allora.
A prevederlo, oltre cinquant’anni fa, è stato J.M.Tillard – il più noto teologo della vita religiosa del ‘900 – il quale scriveva: «ci ritroveremo tra poco con piccole fraternità disseminate, che entrano nel territorio attraverso vissuti relazionali intensi, per rispondere ai bisogni di questo».
Sulla linea delle premesse precedentemente espresse, i nuovi sentieri discepolari partono tutti dal chiedersi: che cosa fare per suscitare voglia di Vangelo e per proclamare che anche l’oggi è storia sacra abitata da Dio?
Domanda che sottende innanzitutto l’invito a una immaginazione feconda di “nuovi sentieri dello Spirito”. Oggi a dirlo è la stessa Congregazione della vita consacrata: «Il vino nuovo esige la capacità di andare oltre i modelli ereditati, per apprezzare le novità suscitate dallo Spirito, accoglierle con gratitudine e custodirle fino alla piena fermentazione oltre la provvisorietà».
In questa direzione intravvedo, per congregazioni e ordini di vita apostolica alcuni modelli qui sotto segnalati.
• Il primo di questi è quello su cui va insistendo papa Francesco, il quale avendo colto d’essere nel tempo di mutua fecondazione tra laici e religiosi/e, propone, con il nome di “Famiglia carismatica”, l’incontro comunionale di queste due diverse realtà che si mettono in rapporto – non a senso unico – per la condivisione di un progetto di vita evangelico. Si tratta di laici e laiche che quando vengono in contatto con un carisma vissuto dai religiosi/e non incontrano qualcosa di esterno, ma incontrano se stessi, avvertendo immediatamente una profonda consonanza tra la propria realtà interiore più vera e quella che incontrano, la quale accende una dimensione latente che genera un processo di riconoscimento da cui emerge una nuova conoscenza e uno svelamento di sé che dia forma a uno “stile di vita” connotato da una particolare visione spirituale, ma anche dal saper leggere insieme le sfide, di orientare le scelte, dell’interrogarsi come “insieme” in rapporto al territorio. Questa è una rilevante novità. Non è invece novità che dei laici si organizzino per vivere una spiritualità vissuta dai religiosi; è novità il fatto che laici e religiosi si costituiscano famiglia, cioè persone che non stanno solo a fianco, ma si sentono gli uni e gli altri a casa propria perché accomunati da feconde sintonie.
• Il secondo modello è dato da una vita consacrata il cui ambito non sia un luogo avulso ma inserito nel territorio con modelli di vita che siano nuovi modelli di identità ecclesiale, proponendo con la vita dei valori che sono necessari a ogni persona umana. Secondo questo modello i religiosi/e si portano a «essere viandanti nelle strade della storia tra luci e ombre, gioie e amarezze, timori e speranze», non per esprimere verdetti ma emozioni, attraverso un cammino fatto insieme, che esprima gesti di tenerezza, con il dire agli “affaticati”: «io non sono diverso da te ma io con te cerco»; anch’io sono tardo di cuore e lento nel credere, ma ti dico anche che è venuto a visitarmi il «divino viandante» il quale mi ha detto: «stolto e tardo di cuore» tirati fuori e rimettiti in cammino: questa è l’esperienza della mia vita. Questo modello chiama a passare dall’essere esperti nel “predicare” ad esperti dell’ascoltare, condividere, dialogare per poter dire al fratello, che sta cercando di ancorare la vita: vieni che cerchiamo assieme: non c’è nulla della tua vita che mi lasci indifferente.
• Un terzo modello che va facendosi strada è quello di coloro che si propongono una vita consacrata radicata in particolari “sfide” di frontiera, cioè dove nessuno vuol esserci, con la capacità di «dar vita a strutture mentali, spirituali, affettive, religiose e organizzative semplici, accoglienti, poco pesanti e aperte», con in sé la capacità di modificarsi, di innovare, di sapersi adattare alle variazioni di quantità e qualità della domanda. Risposte che investono la vita in «piccole utopie» nate dall’intreccio fra vita religiosa e chiesa locale, dunque impastate con quelle delle altre vocazioni perché integrati fra la gente, con relazioni significative, facilitatrici di fermentazione evangelica con il porsi dalla parte di chi è nel bisogno.
Questi tre modelli hanno vari punti che li differenziano ma hanno una cosa che li accomuna: l’unica preoccupazione per il futuro è quella di originare tracce di cui altri, in momenti successivi e contesti diversi, si possano servire per nuove inculturazioni.
Rino Cozza csj