Rosati Domenico
Riflessioni e sfide
2018/4, p. 14
Dopo il terremoto, bisogna sgombrare le macerie e cominciare a ricostruire. Il punto cruciale resta quello della coniugazione delle aspirazioni e delle pulsioni della società civile con l’istanza di impostare soluzioni politiche, valide per l’insieme, secondo la tensione all’uguaglianza esplicitata dalla nostra Costituzione.

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Testimoni
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Dopo le elezioni politiche
RIFLESSIONI
E SFIDE
Dopo il terremoto, bisogna sgombrare le macerie e cominciare a ricostruire. Il punto cruciale resta quello della coniugazione delle aspirazioni e delle pulsioni della società civile con l'istanza di impostare soluzioni politiche, valide per l'insieme, secondo la tensione all'uguaglianza esplicitata dalla nostra Costituzione.
Giustamente le elezioni del 4 marzo 2018 sono state catalogate come un terremoto politico. Per estensione e intensità hanno superato tutti i precedenti tellurici che pure hanno segnato la storia della Repubblica. Non reggono al paragone il voto del 1953, quando la Democrazia Cristiana perse la maggioranza assoluta, e neppure quello del 1994 quando Berlusconi trapiantò nelle istituzioni la sua spregiudicatezza di venditore di promesse.
Dopo il terremoto, però, bisogna sgombrare le macerie e cominciare a ricostruire. Il “come” investe due ambiti: quello immediato e pratico della costituzione di un nuovo governo e quello, di più lunga lena, della lettura dell'accaduto e della decifrazione delle coordinate etico-culturali su cui le maggiori scosse si sono registrate.
Il nodo
del governo
Per quanto le cronache ci facciano credere il contrario, il compito relativamente più facile è il primo, quello che concerne il governo. C'è una chiara situazione di stallo che presenta due vincitori: il Movimento5Stelle di Grillo-Di Maio, l'”homo novus” del momento, che è il maggior partito; e il rassemblement Lega, Forza Italia, Fratelli d'Italia (con una netta trazione del gruppo di Matteo Salvini) che primeggia come coalizione. E c'è un terzo soggetto, il Pd di Matteo Renzi, che appare non solo nettamente sconfitto ma anche attraversato da una crisi drammatica.
Analogie
e diversità
Molti richiamano il precedente del 1976, quando la Dc di Moro e il Pci di Berlinguer raggiunsero un sostanziale pareggio e tentarono di dividersi il potere in nome della solidarietà nazionale; operazione che fu troncata violentemente nel 1978 con l'eliminazione fisica del principale protagonista ad opera delle “brigate rosse”.
Allora però c'erano i presupposti perché i due vincitori si cercassero reciprocamente: la Dc per prevenire il proprio declino, di cui Moro percepiva i sintomi, ed il Pc per acquisire, con il compromesso governativo, una crescente autonomia dal blocco ideologico comunista, del quale il suo leader aveva riconosciuto essersi “esaurita la spinta propulsiva”. Viceversa oggi i due principali soggetti sono e si dichiarano duramente antagonisti e non disposti per il momento ad una qualsiasi intesa.
Il “potere
di coalizione”
Tuttavia almeno sul piano teorico le soluzioni non mancano: o i due vincitori si accordano (difficile, ma le sorprese sono un ingrediente della politica) oppure... Oppure ciascuno si rivolge al terzo escluso e ne chiede l'appoggio. Che può essere pieno (programma concordato e partecipazione all'esecutivo) oppure “esterno” con diverse varianti, tutte riassumibili nel fatto che il “terzo” non entra in una pattuizione ma si limita a concedere un “voto di investitura” all'esecutivo che nasce mantenendo per il resto la propria autonomia in opposizione.
Le tecnicalità di simili ed altre operazioni sono molte, tutte giocate sul ricorso alle astensioni, ma anche qui con una nota significativa: chi concede l'appoggio esterno diventa, in sostanza, arbitro della sorte del governo. Si chiama potere di coalizione, talvolta di interdizione, e si traduce, in volgare, nel gesto di...staccare la spina.
Tra il dire
e il fare
Il presidente Mattarella è chiamato a lavorare sulle modalità per risolvere il rompicapo che le urne gli hanno regalato; e conviene lasciarlo lavorare il più possibile in pace.
Diverso è invece il caso per il terzo giocatore, lo sconfitto Pd, il quale a sua volta ha da prendere due decisioni capitali: da un lato regolare i conti al proprio interno, che vuol dire stabilire la sorte del Segretario Matteo Renzi e, dall'altro, valutare se concedere, e a chi, la propria “benevola attesa” come gli chiedono, alternativamente, i due contendenti e come in fondo gradirebbe lo stesso Presidente della Repubblica.
Con ciò si può considerare esaurito il capitolo sui lavori in corso per costituire il nuovo governo. Essendo chiaro che a guidarlo non sarà il Pd ma non è detto che sia uno dei due contendenti che si sono affrontati nelle piazze, uno di loro persino con l'esibizione di una “squadra” di ministri assolutamente virtuale. L'esperienza consiglia anche di non sbilanciarsi troppo neppure sui programmi perché, come ha saggiamente osservato il presidente emerito della Corte Costituzionale Cesare Mirabelli, “un partito deve dire prima quel che vuol fare; poi, una volta nelle istituzioni, deve dire quello che può fare”.
Spiegazioni
utilitarie
Molto più intricata e impegnativa – e tuttavia indispensabile – è la ricerca sulle correnti profonde, sui movimenti delle faglie che hanno determinato gli smottamenti degli elettori. Materia delicatissima perché, come nel campo sanitario, se si sbaglia diagnosi il paziente soccombe. Per questo è bene limitarsi a mettere in luce qualche spunto di riflessione, da utilizzare per la composizione del quadro.
Prima però va sgombrato il campo dalle semplificazioni utilitaristiche, come ad esempio quella per cui la sconfitta del Pd sarebbe da attribuire al rifiuto del Presidente della Repubblica di sciogliere le Camere subito dopo la sconfitta renziana nel referendum costituzionale del 4 dicembre 2016. Nessuno del resto può sapere quale in tal caso sarebbe stato l'esito.
Minor incertezza c'è invece sul fatto che una miglior sorte sarebbe arrisa al Pci se dopo quell'insuccesso si fossero coinvolte tutte le anime di partito in un approfondimento autocritico unitario. Ciò che invece non si volle fare dando fiato, in concreto, ad una scissione comunque sbagliata che era già nell'aria e che una leadership più avveduta avrebbe dovuto evitare. Ora c'è il rischio che l'affanno pregiudichi la qualità delle riflessioni e delle scelte. Ma anche qui non c'è, per chi scrive, né abilitazione né volontà di interloquire.
Lo stato
dell'arte
Dove invece si può e si deve prendere la parola è nell'esame dello stato dell'arte della politica e del rapporto tra politica (istituzioni) e società civile, così come è venuto modificandosi per effetto di due fattori: le modificazioni strutturali del sistema economico e i riflessi di essi sulla vita delle comunità.
Tra le tante opinioni espresse a ridosso del voto mi ha colpito quella di un esponente meridionale del Pd, Francesco Boccia. “Il M5S – ha detto – esiste perché noi non abbiamo fatto il Pd. Se ci fossimo occupati di poveri, disuguaglianze, periferie, non sarebbe accaduto che un meridionale su due li votasse”.
Il primo aspetto da mettere a fuoco riguarda l'atteggiamento delle forze politiche rispetto alle esigenze e alle aspirazioni delle persone e dei gruppi sociali. Qui si può giungere a constatare che il credito che hanno ottenuto le proposte più plateali e demagogiche in mezzo alla gente comune è inversamente proporzionale alla capacità di contrastarle con argomenti e atteggiamenti altrettanto e più credibili ed efficaci da parte delle forze vicine al governo.
Colpa
degli elettori?
Alla vigilia del voto alcuni opinion leaders hanno attribuito agli elettori, (definiti come svagati, impreparati o...”vagotonici”) la diffusa propensione ad affidarsi ai...venditori di tappeti che frequentano i nostri giorni. Erano stati però molti degli stessi intellettuali a magnificare le virtù genuine di una società civile detentrice di valori autentici a fronte di un ceto politico bollato, in blocco, come irrimediabilmente perverso e corrotto.
La guerra contro la “casta”, condotta poi con baldanza dai 5Stelle, è stata infatti iniziata sulla stampa borghese senza che fosse consentito di discernere tra il marcio da eliminare e il valido da salvare.
Allo stesso modo e per lungo tempo la giusta battaglia contro la partitocrazia è stata pilotata in modo da diffondere la credenza per cui, cambiando la legge elettorale, si sarebbe favorito l'avvento di un sistema di giustizia e di trasparenza.
Il partito
dei semplificatori
In proposito la mia opinione, non da oggi, è che tali approcci, unitamente all'idea che potesse passare dai tribunali la moralizzazione del sistema, erano altrettante scorciatoie che non avrebbero prodotto risultati ma solo favorito lo scatenamento di un “partito unico dei...semplificatori”, come quelli che hanno una risposta pronta per ogni problema.
Sovranisti verso l'Europa, mercatisti in economia, sciovinisti verso i migranti ed anche...rottamatori verso il passato. Voglio dire che non si può ostentare meraviglia per l'epifania di quel che non piace nelle indicazioni del voto: tutte le “novità” che esso contiene erano già presenti e spesso anche percettibili in quel che accadeva nel periodo precedente, che dunque va indagato come l'incubatrice di un presente che assilla e preoccupa ma col quale occorre misurarsi.
Un deficit
di iniziativa
Se penso ai temi che si sarebbero dovuti affrontare e non s'è fatto abbastanza, non posso omettere di notare che molti dei soggetti che animano il dibattito politico – partiti, sindacati, associazioni, intellettuali – non hanno affrontato se non episodicamente la questione del cambio d'epoca che deriva dal combinato disposto tra globalizzazione e informatizzazione dei processi produttivi e sociali.
Le conseguenze sul lavoro umano, pure consacrate nei lavori di alcuni studiosi, sono state trascurate dagli operatori dell'economia e della politica, se non per gli aspetti di immediata convenienza.
Si è continuato tra l'altro a ritenere che il mercato con i suoi meccanismi sarebbe stato in grado non solo di produrre ma anche di tutelare il lavoro umano, mentre al contrario si è scatenata la guerra di tutti contro tutti; e la politica si è limitata a registrare i processi; al limite ad inseguirli senza coltivare un'idea, non dico alternativa, ma almeno correttiva di quel che si andava delineando. Nessuno, ad esempio, ha preso in considerazione l'idea di integrare l'iniziativa privata con quella pubblica nella promozione di blocchi di domanda fuori mercato al fine di non perdere di vista l'obbiettivo della piena occupazione. Un deficit di iniziativa che investe l'Europa non meno che i singoli paesi e in essi, in particolare, le forze più socialmente sensibili.
Il contrasto
alla povertà
Perché meravigliarsi allora se le aree più produttive del paese si affidano al miracolo della flattax come fonte di sviluppo senza oneri per i contribuenti, mentre in quelle più arretrate si formano le file per prenotare il “reddito di cittadinanza” come se fosse già in vigore. Le due offerte elettorali risultate più attraenti per i vincitori non hanno avuto dagli sconfitti nessuna obiezione di merito, se non quella della insostenibilità degli oneri.
Sul reddito di cittadinanza, poi, va detto che in tutto lo scontro nessuno ha fatto lo sforzo di ricordare che esso era stato istituito come “reddito minimo di inserimento” nella legge (centrosinistra, 2000) che riformava l'assistenza ed era stato successivamente declassato a “reddito di ultima istanza” dal centro destra per essere infine relegato tra le foglie morte del welfare state. Così è mancato un corpo a corpo positivo dal quale avrebbero potuto trovare conforto le ragioni che avevano condotto a tentare un nuovo approccio al tema della povertà. Sul quale si sarebbe potuto anche rammentare che, nel remoto “programma economico nazionale” (anni '60 Centrosinistra Moro), veniva stabilito, per legge, il “superamento del criterio della povertà” come titolo per ottenere prestazioni assistenziali di carattere monetario.
Se lo si fosse fatto si sarebbe colto lo scarto tra la fiducia di allora nelle potenzialità di uno sviluppo programmato e lo stretto orizzonte della condizione attuale; e magari per mettere a fuoco le cause nascoste e i possibili rimedi.
Pedagogia
del bene comune
Ma il punto cruciale resta quello della coniugazione delle aspirazioni e delle pulsioni della società civile, che sono pur sempre particolaristiche quando non egoistiche, con l'istanza di impostare soluzioni politiche, cioè valide per l'insieme, secondo la tensione all'uguaglianza che è esplicitata dalla nostra Costituzione.
Qui c'è da compiere un'autocritica sull'eccesso di fiducia concesso negli ultimi decenni, anche dalle sinistre, agli automatismi di mercato come risolutori di ogni questione sociale. E sarebbe cresciuta la persuasione che non avviene spontaneamente un aumento della consapevolezza politica all'interno della società civile. È un campo da coltivare, una pedagogia da applicare, un'esperienza da compiere. Anche se va controcorrente.
Nessuno oggi avrebbe l'ardire di proporre la via d'uscita dell'austerità, come il Berlinguer o le Acli di una volta, ma che almeno si richiamasse con assiduità ed anche con severità il dovere, costituzionale e civico, di pagare le tasse come premessa di ogni ampliamento delle tutele: questo è il minimo che si può richiedere non tanto e non solo per chi si proclama “di sinistra” ma anche per tutti quelli che hanno in tasca – e tra essi i credenti – una bussola orientata sulla solidarietà come valore e come dovere.
Un sfida
per tutti
Secondo il mio parere il tema da rimettere al centro dell'attenzione non è solo quello dell'appianamento dei contrasti tra le forze in contesa o quello delle operazioni tattiche per superare la congiuntura. Senza arroganze e senza false certezze credo che sia necessario rivisitare l'idea di una crescita della società civile che sia anche crescita politica e non solo economica e di influenza sociale.
Che la politica abbia da essere riformata non v'è dubbio e che i soggetti sociali abbiano una parola decisiva da dire è altrettanto certo. Ma se politica vuol dire “uscirne insieme”, come ripeteva don Milani, occorre che la crescita avvenga senza l'ipoteca dei particolarismi individuali e corporativi che allignano a tutti i livelli del corpo sociale.
Potrebbe essere, quello indicato, il cuore di un confronto serio anche tra i cattolici che permetta di superare le lamentazioni per la mancata influenza sui luoghi della decisione o per la banalizzazione delle presenze al livello del bacio delle reliquie di san Gennaro (Di Maio), del giuramento sui “segnacoli cristiani” (Salvini) e della riduzione dell'ispirazione cristiana alla esibizione dei valori non negoziabili.
Da quando è implosa la stella della Dc l'area cattolica o vive di nostalgia o si agita in una confusione a somma zero, non riuscendo a scuotersi neppure in presenza della profezia del Concilio e dell'impulso di Papa Francesco. Non per una...rivincita elettorale ma per dare un contributo alla vita della città dell'uomo sarebbe bello che anche dal mondo della vita consacrata questa sfida venisse raccolta.
Domenico Rosati