La salvezza dell'uomo viene da Dio
2018/4, p. 12
La lettera pubblicata il 22 febbraio 2018 a cura della
Congregazione per la Dottrina della Fede, è stilata sulla
base del magistero recente di papa Francesco. Denuncia le
tendenze neo-pelagiane e gnostiche del nostro tempo,
indicando in Cristo, fatto uomo, l’unico vero Salvatore del
mondo.
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Lettera Placuit Deo
LA SALVEZZA DELL’UOMO
VIENE DA DIO
La lettera pubblicata il 22 febbraio 2018 a cura della Congregazione per la Dottrina della Fede, è stilata sulla base del magistero recente di papa Francesco. Denuncia le tendenze neo-pelagiane e gnostiche del nostro tempo, indicando in Cristo, fatto uomo, l’unico vero Salvatore del mondo.
C’è una corrente, sommessa ma in crescita, interna alla cattolicità, che sostiene la tesi di un eccesso di documentazione prodotta dalla Chiesa stessa. Nel quadro dell’ipertrofia della comunicazione che caratterizza l’odierna società, in effetti anche diversi addetti ai lavori ritengono che simili materiali scivolino via, nella grande maggioranza dei casi, senza lasciare traccia, per cui si interrogano (retoricamente): vale la pena proseguire su questa linea tradizionale, o non sarebbe opportuno tirare il freno e produrre testi ufficiali solo se significativi e davvero necessari? In questo contesto, la recente uscita di Placuit Deo, a cura della Congregazione per la Dottrina della Fede, a firma del prefetto Luis F. Ladaria il 22 febbraio 2018 e stilato sulla base del magistero recente di papa Francesco, ha notevoli probabilità di passare inosservato, o quasi, presso il popolo di Dio delle parrocchie. Peraltro, sarebbe un peccato se ciò avvenisse, anche perché il tema ivi affrontato – alcuni aspetti della salvezza cristiana che possono essere oggi difficili da comprendere a causa delle recenti trasformazioni culturali – non solo è assai attuale, ma ancor più tocca questioni delicate e non di poco conto nel panorama planetario e multiculturale. Se ne sono accorti, ad esempio, diversi siti di chiara impostazione tradizionalista e anticonciliare, che non ci hanno messo molto ad attaccare frontalmente il testo, accusandolo – fra l’altro – di non affrontare argomenti fondamentali quali il peccato mortale, il rischio reale dell’Inferno, e l’escatologia nel suo complesso.
Una densa sintesi
soteriologica
Ma di cosa parla Placuit Deo, allora? Il documento, piuttosto breve, è, di fatto, una densa sintesi di soteriologia cattolica, quasi a riprendere il filo di un altro documento elaborato diciotto anni fa, la dichiarazione Dominus Iesus (6/8/2000), che non mancò di suscitare un certo scalpore. Vi si sviluppa il legame inscindibile, già evidenziato all’epoca (il prefetto era il cardinale Joseph Ratzinger), tra Gesù Cristo quale unico mediatore della salvezza che ha comunicato agli uomini in quanto verbo incarnato (cap. IV), la Chiesa da intendersi come corpo di Cristo, sacramento universale di salvezza del genere umano (cap. V) e l’esigenza di comunicare la fede, in attesa del Salvatore (cap. VI). Lo si fa, dopo e alla luce di una succinta introduzione che si ricollega al Vaticano II, tenendo conto dell’incidenza delle odierne trasformazioni culturali sul significato della salvezza cristiana (cap. II) e della legittima aspirazione umana alla salvezza (cap. III). Ecco lo scenario descritto: “Ogni persona, a suo modo, cerca la felicità, e tenta di conseguirla facendo ricorso alle risorse che ha a disposizione. Tuttavia, questa aspirazione universale non è necessariamente espressa o dichiarata; anzi, essa è più segreta e nascosta di quanto possa apparire, ed è pronta a rivelarsi dinanzi a particolari emergenze. Molto spesso essa coincide con la speranza della salute fisica, talvolta assume la forma dell’ansia per un maggior benessere economico, diffusamente si esprime mediante il bisogno di pace interiore e di una serena convivenza col prossimo” (n.5).
Per coglierne la novità converrà soffermarsi sul capitolo centrale, il III, ponendolo a confronto, in particolare, con la conciliare Gaudium et spes, e verificando quanto sia radicalmente mutato l’orizzonte culturale. In effetti, le grandi domande di senso riportate in quella costituzione, dal mistero della morte al problema dell’ateismo nelle sue forme sistematiche, dall’attesa di un uomo nuovo da parte del messianismo marxista alla liberazione predicata dai cosiddetti maestri del sospetto, compaiono appena marginalmente in Placuit Deo, che si rivolge ormai all’uomo postmoderno, chiuso tanto ai grandi racconti di senso proposti dalle ideologie quanto a un sistema di riferimento cristiano, di fatto irrecuperabile.
Due tendenze
culturali
Due le tendenze culturali che campeggiano, in negativo, nel nuovo documento: da una parte, “l’individualismo centrato sul soggetto autonomo” e autosufficiente, che “tende a vedere l’uomo come essere la cui realizzazione dipende dalle sole sue forze”. Visione, questa, in cui “la figura di Cristo corrisponde più a un modello che ispira azioni generose, con le sue parole e i suoi gesti, che non a Colui che trasforma la condizione umana, incorporandoci in una nuova esistenza riconciliata con il Padre e tra noi mediante lo Spirito”. Dall’altra parte, “la visione di una salvezza meramente interiore, la quale suscita magari una forte convinzione personale, oppure un intenso sentimento, di essere uniti a Dio, ma senza assumere, guarire e rinnovare le nostre relazioni con gli altri e con il mondo creato”. “Con questa prospettiva – ecco il monito relativo – diviene difficile cogliere il senso dell’Incarnazione del Verbo, per cui Egli si è fatto membro della famiglia umana, assumendo la nostra carne e la nostra storia, per noi uomini e per la nostra salvezza”. Placuit Deo considera tali tendenze – qui definite neo-pelagianesimo e neo-gnosticismo – come autentiche deviazioni, in cui non pochi credenti, forse senza accorgersene, rischiano di cadere. Ma già Bergoglio le aveva apostrofate come pericolose tentazioni per la Chiesa tutta, sia nell’enciclica Lumen fidei (n. 47) sia nell’esortazione post sinodale Evangelii gaudium (nn. 93-94). In particolare, per quanto riguarda la Chiesa italiana, lo disse con tono severo il 10 novembre 2015, intervenendo a Firenze in Santa Maria del Fiore nel quadro del V Convegno ecclesiale nazionale (In Gesù Cristo il nuovo umanesimo), con un’intenzione più pastorale che teologico-dogmatica: pelagianesimo e gnosticismo, secondo lui, equivalgono in effetti a patologici disagi pastorali, da cui occorre guarire quanto prima perché minano gravemente la salute del corpo ecclesiale. Ma è possibile tradurre questa terminologia, indubbiamente specialistica? Proviamoci: individualismo e intimismo, ma anche autoreferenzialità e spiritualismo eccessivo. La dottrina di Pelagio sulla salvezza finale – contro cui, all’inizio del V secolo, si batterono teologi come Girolamo e Agostino – e le teorie che i pensatori gnostici elaborarono sulla stessa questione soteriologica (nel greco biblico e patristico salvezza si traduce sotería) riguardano i primi secoli della storia della Chiesa, e all’apparenza – ma solo all’apparenza – sembrano molto distanti dalla consapevolezza credente contemporanea. In realtà non è così.
Pelagianesimo
e gnosticismo
Per capirlo meglio, sarà utile riprendere in mano il discorso papale di tre anni fa, nel suo primo vero faccia a faccia con la Chiesa italiana, quando Francesco scelse di guardarla realisticamente, nelle sue virtù e nelle sue debolezze, auspicando si renda povera, umile, inquieta, esortandola a rifarsi non a un umanesimo da essa ricreato o progettato più o meno astrattamente, ma all’unico umanesimo cristiano, quello narrato da Gesù Cristo. “Il pelagianesimo – spiegò – ci porta ad avere fiducia nelle strutture, nelle organizzazioni, nelle pianificazioni perfette. Spesso ci porta pure ad assumere uno stile di controllo, di durezza, di normatività. La norma dà al pelagiano la sicurezza di sentirsi superiore, di avere un orientamento preciso. In questo trova la sua forza, non nella leggerezza del soffio dello Spirito”. E da questo irrigidimento derivano sterili “conservatorismi e fondamentalismi”, oltre che un anacronistico tradizionalismo che, in un contesto culturale sempre cangiante, potremmo dire decisamente postmoderno, non è più capace di veicolare significativamente il messaggio cristiano, tendendo semmai a musealizzarlo.
Dall’altra parte, lo gnosticismo “porta a confidare nel ragionamento logico e chiaro, il quale però perde la tenerezza della carne del fratello” e, in definitiva, della carne di Cristo Gesù, per risolversi “in un astratto intellettualismo, al quale le pieghe della storia sembrano troppo strette e che prova tedio per le piaghe del mondo”. Se, dunque, il pelagianesimo spinge la Chiesa a trincerarsi nella regola, lo gnosticismo l’induce ad alienarsi nel concetto, immaginando così di valorizzarne l’attitudine a trascendersi in direzione di Dio. Ma, al contempo, facendole dimenticare che la cifra più autentica della stessa trascendenza divina è il mistero dell’incarnazione, vale a dire la disponibilità di Dio a trascendere la propria trascendenza, abbassandosi nella kenosis del Figlio umanato: “per venire a farci compagnia, immergendosi nella nostra condizione, e per riscattarci dalla nostra debolezza, non disintegrandola d’incanto bensì assumendosela Egli stesso”.
La memoria
dei grandi santi
Il Papa suggerì che potrebbe aiutarci a uscire dalle secche citate la memoria dei grandi santi – da Francesco d’Assisi a Filippo Neri – che hanno saputo vivere la fede cristiana con umiltà, disinteresse e letizia; ma anche il ricorso a personaggi inventati come il guareschiano don Camillo, che, in coppia con il sindaco Peppone, trova il coraggio di ammettere: “Sono un povero prete di campagna che conosce i suoi parrocchiani uno per uno, li ama, che ne sa i dolori e le gioie, che soffre e sa ridere con loro”.
Ecco, direi, una chiave di lettura in grado di farci percepire le tesi di Placuit Deo più vicine alla nostra quotidianità e al sentire comune di una Chiesa oggi piuttosto affaticata, in un tempo difficile e quanto mai aggrovigliato. Capire la nostra epoca comporta uno sforzo necessario anche se non semplice, questo il messaggio, non banale, che possiamo reperire in un documento che varrebbe la pena di leggere e studiare. “In questo sforzo – conclude Placuit Deo - saremo anche pronti a stabilire un dialogo sincero e costruttivo con i credenti di altre religioni, nella fiducia che Dio può condurre verso la salvezza in Cristo «tutti gli uomini di buona volontà, nel cui cuore lavora invisibilmente la grazia» (Gaudium et spes n.22)”. Perché forse non siamo gli ultimi cristiani – come si domandava retoricamente il teologo canadese Jean M.R. Tillard nel volgere del nuovo millennio (1999) – ma siamo i primi a vivere consapevolmente il vangelo in un palcoscenico pluralistico e interreligioso. Chiamati, ancora una volta e nonostante tutto, a rendere ragione della speranza che è in noi (1 Pt 3,15).
Brunetto Salvarani