Dall'Osto Antonio
Brevi dal mondo
2018/3, p. 36
Eritrea Germania I monaci di Tibhirine

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Testimoni
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ERITREA
L’Eritrea come la Corea del Nord
“L’Eritrea è il paese con meno libertà al mondo”. Ad affermarlo non è un oppositore del regime, ma un documento ufficiale delle Nazioni Unite. Il rapporto, frutto del lavoro di una Commissione d’inchiesta sui diritti umani che ha preso in esame le testimonianze di 550 eritrei e ha visionato 160 scritti, accusa il governo eritreo di «sistematiche, diffuse e gravi violazioni dei diritti umani», tra le quali torture, violenze sessuali, sparizioni e lavori forzati. L’Eritrea è dipinta come una «Corea del Nord africana» nella quale non esistono istituzioni e processi democratici, la libertà di stampa è inesistente, il servizio militare è a tempo indeterminato e i rapporti con tutte le nazioni vicine sono pessimi.La situazione si è ora ulteriormente aggravata. “In Eritrea – scrive l’Agenzia Fides in un servizio da Asmara del 12 gennaio 2018 – il regime ha iniziato a perseguitare le confessioni religiose e, in particolare, la Chiesa cattolica. L’obiettivo è chiaro: cercare di impedirne l’influenza sulla società: non vietando il culto, ma le attività sociali”. A lanciare l’allarme, in un colloquio con l'Agenzia Fides, è abba Mussie Zerai, sacerdote dell’eparchia di Asmara, da anni cappellano degli eritrei in Europa e attivo nel salvare i migranti in pericolo nel Mediterraneo. “Dal 1995 – spiega a Fides – nel paese è in vigore una legge in base alla quale lo Stato avoca a sé tutte le attività sociali. Queste ultime, quindi, non possono essere svolte da istituzioni private e neppure da quelle religiose. Finora la norma è stata applicata in modo blando e non ha intaccato seriamente la rete di servizi offerti da cristiani e musulmani. Negli ultimi mesi c’è però stata un’accelerazione”. I funzionari pubblici hanno decretato la chiusura di cinque cliniche cattoliche presenti in varie città. Ad Asmara è stato chiuso il seminario minore (che serviva sia la diocesi sia le congregazioni religiose). Hanno dovuto chiudere i battenti anche diverse scuole della Chiesa ortodossa e di organizzazioni musulmane. Proprio la chiusura di un istituto islamico, alla fine dell’ottobre scorso, ha scatenato le dure proteste degli studenti, represse poi nel sangue.“Al di là del danno economico alle singole confessioni religiose – continua Mussie Zerai– chi ci perde maggiormente è la popolazione che non ha più strutture serie ed efficienti alle quali rivolgersi. A Xorona, per esempio, hanno chiuso l’unico dispensario in funzione che era gestito da cattolici. A Dekemhare e a Mendefera, le autorità hanno proibito l’attività dei presìdi medici cattolici affermando che erano un doppione di quelli statali. In realtà, le strutture pubbliche non funzionano: non hanno medicine, non possono operare perché non hanno attrezzature adatte e, spesso, neppure l’energia elettrica”.Ma qual è la reazione della popolazione? “Ribellarsi non è facile” spiega il sacerdote. “La rivolta dei musulmani è stata fermata con le armi. E sono stati molti i morti e i feriti. «Dobbiamo continuare a pregare per la Chiesa in Eritrea, afferma p. Ferdinand Lugonzo, Segretario Generale della Association of Member Episcopal Conferences in Eastern Africa (AMECEA), in un colloquio con l’Agenzia Fides.
GERMANIA
A 110 anni la gioia di essere suora
In una società cosiddetta liquida come la nostra, in cui tutto è vacillante e incerto, fluido e volatile, stando alla celebre definizione di Zygmunt Bauman, trovare una persona, in questo caso una suora, che giunta all’età di 110 anni, dichiara di essere felice della vocazione vissuta, e di sceglierla nuovamente se potesse tornare indietro, è un’impressionante testimonianza di fedeltà e di fermezza nella vocazione. È il caso di sr. Konrada Huber, religiosa domenicana tedesca del convento di Niederviehbach della bassa Baviera. È nata quando in Germania regnava ancora l’imperatore Guglielmo II e nella Chiesa era papa Pio X. È la più anziana delle suore tedesche. Come ha fatto ad arrivare a questa età? «Il Padre eterno si è dimenticato di me» – ha detto scherzosamente. Ci sente poco, ma la vista è quasi perfetta e legge senza occhiali. Solo le gambe non la reggono e da diversi anni deve muoversi in carrozzella.
Nel convento di Niederviehbach ci sono 23 suore domenicane, 11 delle quali vietnamite. Quattro sono giunte in Germania come profughe politiche mentre le altre hanno saputo del convento attraverso conoscenti, sono entrate e sono rimaste.
«È sopravissuta alle due grandi guerre mondiali ed è meraviglioso che sia ancora qui tra noi», ha affermato la superiora del convento sr.Theresa. Inutile dire che sr. Konrada è la beniamina della comunità. Ha accanto una consorella giovane che l’assiste e l’accudisce. Parla poco ma è sempre sorridente e di buon umore. Tiene sempre la corona del rosario avvolta nella mano sinistra.
Rosalie Huber, questo il suo nome di famiglia, era nata il 29 settembre 1908. All’età di 22 anni entrò nel convento domenicano di Niederviehbach, dove allora c’erano più di 100 suore. Da quel tempo sono passati 88° anni e non si è mai pentita della sua scelta. Alla domanda se oggi entrerebbe ancora, ha risposto: “Ja, freilich” – sì certamente. Essendo una sarta esperta ha lavorato per molti anni nella sartoria del convento. Confezionava gli abiti per le suore e provvedeva al loro rammendo. Ma si occupava volentieri anche del bucato. Era una brava ricamatrice. “Anche in età molto avanzata – ha affermato sr. Theresa – ha continuato a ricamare. ” Molte tovaglie dell’altare e anche della mensa del convento sono state confezionate e ricamate da lei. Nella cappella, su una tovaglia dell’altare è accuratamente ricamata in caratteri rossi la giaculatoria: “Gelobt sei Jesus Christus. In Ewigkeit Amen” – Lodato sia Gesù Cristo. Per l’eternità Amen”.
Per sr. Konrada, ha una grande importanza la preghiera quotidiana. Anche se in carrozzella, tutti i giorni partecipa alle preghiere della comunità e alla Messa nella cappella del convento. E ogni giorno si fa condurre nel chiostro dove recita il rosario. I grani della corona sono ormai logori. Sr Theresa racconta: «Sr. Konrada prega molto per il papa, per le vocazioni e per il nostro Ordine»; «molti, – aggiunge un’altra consorella – le chiedono preghiere per i loro problemi concreti».
Ormai è giunta l’ora della preghiera della sera. Sr. Konrada saluta gioiosamente con la mano con un “Vergelt’s Gott” che corrisponde al nostro “Sia lodato Gesù Cristo”.
I monaci di Tibhirine
I sette monaci di Tibhirine presto “Beati”
Il 26 gennaio scorso, papa Francesco, ricevendo in udienza il card. Angelo Amato, Prefetto della Congregazione delle cause dei Santi, ha autorizzato la medesima Congregazione a promulgare i Decreti di beatificazione in cui viene riconosciuto il martirio dei Servi di Dio Pietro Claverie, OP, vescovo di Orano e di 18 compagni, religiosi e religiose, uccisi in Algeria dal 1994 al 1996, “in odio alla fede”, tra cui anche i sette monaci di Tibhirine. Nei medesimi Decreti vengono riconosciute le virtù eroiche della Serva di Dio Maria Maddalena Delbrêl (1904 – 1964), e il martirio di Veronica Antal, laica dell’Ordine francescano secolare uccisa anch’essa in odio alla fede il 24 agosto 1958 ad Hălăuceşti e di altri cinque Servi/e di Dio.
I sette trappisti francesi del monastero Notre Dame dell’Atlas, nel nord dell’Algeria, erano stati rapiti durante la guerra civile alla fine di marzo del 1996. Erano stati decapitati e le loro teste furono trovate alla fine di maggio dello stesso anno. L’assassinio fu attribuito a un gruppo di terroristi, ma alcune fonti hanno indicato come autori la polizia segreta algerina. La loro vicenda ebbe un’ampia risonanza in tutto il mondo e suscitò una rinnovata emozione nel 2010 con l’uscita del film di Xavier Beauvois, “Des hommes de Dieu” (in Italia “Uomini di Dio”).
Mons. Claverie invece era stato ucciso, assieme al suo autista musulmano, settanta giorni dopo l’assassinio dei monaci in un attentato mentre rientrava in auto, la sera, alla sua residenza.
In un’intervista, a firma di Anna Pozzi, al postulatore p. Thomas Georgeon, trappista, pubblicata su Mondo e Missione, il 1 gennaio scorso, è stato chiesto che cosa avevano in comune questi 19 martiri, religiosi e religiose, dell’Algeria: «Molte cose», ha risposto: «Ognuno di loro è stato un testimone autentico dell’amore di Cristo, del dialogo, dell’apertura agli altri, dell’amicizia e della fedeltà al popolo algerino. Con un’immensa fede in Cristo e nel suo Vangelo, per cui non hanno dato la vita per un’idea, per una causa, ma per Lui. Con un profondo amore per la terra dove il Signore li aveva inviati, l’Algeria. Con un’attenzione e una delicatezza evangelica verso quel popolo, specialmente nei confronti dei piccoli e degli umili, così come dei giovani. Con il rispetto della fede dell’altro e il desiderio di capire l’islam. Con un grande senso di appartenenza alla Chiesa algerina che ha visto la sua presenza completamente trasformata dopo l’indipendenza del Paese: è diventata una Chiesa “ospite”, piccola, umile, serva e amorevole. E questo, ciascuno dei 19 martiri, come tanti altri membri della Chiesa che sono ancora vivi, l’ha vissuto profondamente. La loro vita e la loro morte sono come un’icona dell’identità della Chiesa d’Algeria. Hanno incarnato fino alla fine la sua vocazione a essere sacramento della carità di Cristo per tutto il suo popolo».
Alla domanda che cosa continuano a dire al tempo di oggi, p. Thomas ha risposto: «Il messaggio di questi 19 religiosi e religiose è chiaro: occorre approfondire il significato di questa presenza di Chiesa e dimostrare che una coesistenza fraterna e rispettosa è possibile tra le religioni. Nel mondo musulmano, è il Vangelo della pace che viene annunciato e testimoniato, senza che questo necessariamente abbia una presa sull’altro, che può rimanere sordo e cieco di fronte a tale testimonianza. Mi sembra che nel mondo d’oggi essi ci insegnino cosa significano perseveranza e fedeltà. E, in una prospettiva di dialogo interreligioso, ci mostrano la via dell’umiltà. Chi vuole entrare in dialogo deve avere sia il “gusto” dell’altro, sia un grande rispetto per la sua fede. Il priore del monastero di Tibhirine Christian de Chergé ha scritto: “La fede dell’altro è un dono di Dio, misterioso certamente. Quindi richiede rispetto”».
«È un martirio – ha sottolineato il padre, nel mezzo di un oceano di violenza che ha travolto l’Algeria negli anni Novanta. Un martirio “con” e non “contro”. È impossibile pensare solo ai “nostri” martiri, ignorando le decine di migliaia di algerini vittime del decennio nero perché anche loro hanno dato la vita per il loro Paese e per la loro fede. Dunque, rendere omaggio ai 19 martiri cristiani significa anche rendere omaggio alla memoria di tutti coloro che hanno dato la vita in Algeria in quegli anni bui».
a cura di Antonio Dall’Osto