Paganoni Antonio
Gli inferi dei minatori
2018/3, p. 33
L’accompagnamento pastorale ai nostri emigranti di alcuni decenni fa da parte di diverse famiglie religiose, in particolare scalabriniani, raccoglie memorie preziose. Speranze, sofferenze e vittime hanno accompagnato i processi di integrazione. Ammonimento per il nostro presente.

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Belgio: scalabriniani, miniere e memorie
GLI INFERI
DEI MINATORI
L’accompagnamento pastorale ai nostri emigranti di alcuni decenni fa, da parte di diverse famiglie religiose, in particolare scalabriniani, raccoglie memorie preziose. Speranze, sofferenze e vittime hanno accompagnato i processi di integrazione. Ammonimento per il nostro presente.
Nel prossimo Triduo pasquale ricorderemo la «discesa agli inferi» di Gesù. Mi riesce difficile pensare che abbia oltrepassato la porta della solitudine ultima senza inquietudine. E tuttavia solo così è risuonata la voce di Dio nel regno della morte. La memoria liturgica mi è tornata alla mente ascoltando i racconti di alcuni miei confratelli anziani della famiglia scalabriniana, quando narrano le vicende dei minatori italiani in Belgio. E della loro quotidiana “discesa agli inferi”. Dopo tanti anni di cura pastorale le conversazioni ritornano di frequente sulle peripezie avute in varie missioni: Marchienne-au-Pont, La Louviere, Marcinelle e altre località che, con l’intesa della Chiesa locale, cadevano sotto la loro responsabilità pastorale. I racconti dalla viva voce sono corredati da numerose pubblicazioni, apparse dopo la seconda guerra mondiale, che risalgono fino ai primi giorni dell’utilizzo di minatori italiani nei vasti giacimenti carboniferi.
Nel saggio L’ Emigrazione italiana in Belgio (1962), studio storico e sociologico (pp. 274) Giacomo Sartori, missionario scalabriniano vissuto con i minatori dal 1949 al 1957, traccia uno sviluppo storico delle miniere, a partire dal 1750 come «un lungo cammino bagnato di sangue» (pp. 48-67) con migliaia di vittime ingoiate dalle miniere belghe ancora prima della seconda guerra mondiale. Si parla di 470 vittime e 882 feriti dal 1821 al 1840. Ricordiamo che p. Sartori costruì la prima chiesa italiana e fondò le ACLI in Belgio. Resoconti dettagliati sono inoltre tramandati nelle numerose pubblicazioni di Abramo Seghetto, anche lui scalabriniano, vissuto in Belgio 55 anni. Dei suoi scritti ne ricordo solo due: Sopravvissuti per raccontare (1993) CSER, Roma e in collaborazione con R. Nocera, Il Belgio degli Italiani. Ricordare è giusto, non dimenticare un dovere (2006), Rai/Eri,Roma.
Il Belgio ha un’estensione limitata, ma è ricco di enormi giacimenti di carbone. Nel secondo dopoguerra la mancanza di manodopera nelle miniere di carbone in Belgio aveva creato una situazione insostenibile: a fronte dei 30 milioni di tonnellate di carbone estratte prima della guerra, alla fine del 1945 non se ne produceva neanche la metà, mentre le scorte erano completamente esaurite. Inoltre, dei 137.000 minatori del 1940, nel 1945 ne restavano solo 88.000. Il calo vistoso aveva spinto le compagnie carbonifere a buttarsi in una campagna organizzata di reclutamento di nuova manodopera. Il 23 giugno 1946, il Belgio sottoscriveva con l’Italia, uscita malmessa dalla guerra, un protocollo in cui era possibile leggere tra le righe la formula: uomo=carbone. L’Italia si impegnava a trasferire nel tempo 50 mila uomini, di età non superiore a 35 anni e in buono stato di salute e, in cambio, otteneva una corsia preferenziale per il carbone: il Belgio si impegnava a vendercene 2.500 tonnellate ogni 1000 operai inviati in ciascuno dei cinque bacini carboniferi.
Proprio così: uno scambio tra persone e merce. L’accordo, firmato dai due governi, mirava anche a garantire parità di salario e trattamento pensionistico e sanitario ai minatori italiani e belgi, nonché il diritto agli assegni familiari per le famiglie rimaste in Italia. Nello stesso documento erano previsti due vincoli fortemente sanzionatori: l’obbligo di rispettare la durata minima contrattuale di un anno, sotto pena addirittura della detenzione (nel tristemente famoso Petit-Chateau a Bruxelles) prima del rimpatrio e il mancato rinnovo del passaporto oltre all’impossibilità di cambiare lavoro prima di aver trascorso in miniera almeno cinque anni.
Gli inizi:
una benedizione del cielo!
Ai giovani disoccupati italiani capitava fra le mani un foglietto giallo distribuito da agenti del governo belga con il pieno consenso delle autorità italiane del tempo: «una benedizione dal cielo» racconterà uno dei futuri minatori. Dopo una visita medica sommaria alla stazione di Milano, simile a quella obbligatoria per la leva militare, non si perdeva tempo. Insieme a tanti altri si saliva su treni diretti in Belgio e nel giro di pochi giorni si intraprendeva un altro viaggio che si sarebbe ripetuto ogni giorno, in verticale, sprofondando nelle viscere della terra.
In poco più di 10 anni (1946-1957) gli italiani emigrati in Belgio sono stati 223.972 con 51.674 rimpatri, ritorni forzati di coloro che si sono rifiutati di ritornare sottoterra! «Se risalgo in superficie, laggiù non ci torno più» rammenta un ex-minatore, a distanza di tanti anni. Parte così il lungo e doloroso cammino dell' emigrazione italiana in Belgio, segnata da eventi drammatici: 867 minatori italiani sono morti per incidenti dal 1946 al 1963, e a questi bisogna aggiungere la lunga fila di minatori deceduti silenziosamente a causa della silicosi (riconosciuta come malattia professionale solo nel 1964).
Le baracche
Il governo belga si impegnava a garantire “convenienti alloggi” agli italiani, sotto contratto annuale rinnovabile. All’inizio i minatori erano alloggiati in baracche di lamiera, di legno o di zinco, che già avevano ospitato i prigionieri russi prima, e quelli tedeschi dopo. Solo in un secondo momento ebbero accesso a casette di proprietà della miniera: 250 franchi mensili per l’affitto. Se non facevi assenze sul lavoro, beninteso. Altrimenti una penalità di 50 franchi per ogni giorno saltato. «D’estate non ci potevi stare per il caldo. D’inverno, invece, nonostante la grande stufa, si crepava dal freddo», spiega un ex-minatore dopo alcuni anni in baracca. E continua: «Quando siamo arrivati per la prima volta al campo 17, mia madre chiese a mio padre dove fossero le case. Sono queste. Per il momento ci dobbiamo dare pace, rispose, rosso in volto per la vergogna».
Se risalgo
non torno più
Oltre alle precarie condizioni abitative e lavorative, sia in miniera che in superficie, la sfida principale era rappresentata dalle otto ore trascorse nelle viscere della terra. E le condizioni si erano fatte ancora più difficili da quando l’industria carbonifera si era sentita messa al muro dalla temuta invasione del petrolio sul mercato, a prezzi più competitivi, causando risparmi sulla manutenzione di attrezzature già malandate. Senza contare i costi umani, perché l’estrazione del carbone ha sempre e ovunque mietuto numerose vittime. Gli operai belgi ne erano ben consapevoli e sempre più restii a prestarsi.
A distanza di anni, ricordando la sua prima esperienza «al fondo», uno di loro ricordava: «se risalgo in superficie, laggiù non ci torno più». Ma la maggior parte ci tornava. Padre Gelmino Metrini, scalabriniano (vissuto in Belgio dal 1957 al 1985) ricorda la sua prima discesa, avvenuta pochi giorni dopo il suo arrivo in Belgio, su un montacarichi, fino a 750m, in compagnia di un ingegnere che gli aveva consigliato di non pensare mai alla profondità in cui sarebbero andati. Vi rimase per due ore circa, osservando il lavoro estenuante dei minatori, il carbone che veniva caricato su carrelli, trainati da cavalli diventati ciechi, perché vivevano sempre nell’oscurità. La tuta era obbligatoria per tutti, minatori e visitatori: scarponi, pantaloni, giubbone, casco di cuoio e batterie sulla schiena per alimentare la piccola lampadina appoggiata sul casco. Padre Gelmino, dopo la sua prima esperienza in miniera, ricorda:« i miei occhi “impolverati” avevano avuto bisogno di continui lavaggi per vari giorni». A distanza di anni, un trentino in cura per polmoni silicotici affermava: «là sotto in miniera, dappertutto, c’era quella polvere. Ti rimaneva sulla pelle e addosso ai vestiti, anche dopo che erano stati lavati più volte».
Era la lamentela comune delle donne, mamme e spose: «Una volta steso il vestiario all’aperto, soprattutto se bianco come le lenzuola, non veniva raccolto mai pulito per quella maledetta polvere che non spariva mai».
Quella polvere
che ti inseguiva ovunque
In miniera si può perdere la vita per varie cause: sotto una frana, per la rottura dei cavi dell’ascensore, per l’incendio delle polveri o per lo scoppio del grisù (un gas combustibile inodore e incolore, costituito prevalentemente da metano e altri componenti). Nelle miniere belghe i disastri si son susseguiti a breve distanza (Trazegnies a Charleroi, con 39 morti; Couillet, con 10). I due anni più tragici per l’emigrazione italiana, prima di Marcinelle, furono il 1952 con 75 morti e il 1953 con 101 (vedi l’elenco anno per anno con le cause dei decessi per regione in Sartori a p.57). Nel ricordo comune rimane soprattutto Marcinelle, evocata nel film “Marina”: nel terribile incendio divampato l’8 agosto 1956 nella miniera Le Bois du Cazier, a 1035 metri di profondità, persero la vita 136 minatori italiani. Alle vittime per disastri noti e meno noti, occorre poi aggiungere i numerosi invalidi per silicosi, consumati a fuoco lento, stimati intorno al 30% sul totale dei minatori.
Oggi: di nuovo
quei volti
Alla vista di foto scattate durante i numerosi funerali nelle missioni in Belgio, con tutte quelle ghirlande, mi son venute in mente le bare viste e benedette all’aeroporto di Manila nei decenni scorsi. Accolte dai loro familiari straziati, erano soprattutto salme di donne filippine provenienti dal Medio oriente e dal Giappone. Quei corpi ora inermi, erano il risultato di sevizie e torture, ad opera dei loro padroni nel Medio Oriente o della malavita giapponese (Yakuza). Una fine tragica, dopo un percorso iniziato a Manila, sull’onda di politiche sostenute da Imelda e Ferdinando Marcos nei primi anni del 1970. Con l’aiuto delle numerose agenzie di reclutamento, con i loro foschi commerci vendevano contratti al miglior offerente. Ogni emigrante doveva munirsi di un contratto di lavoro. Senza quel foglio in mano non era possibile recarsi agli uffici governativi per organizzare l’espatrio. Non poche volte i contratti di lavoro, sonoramente pagati, erano fasulli e in questi casi, una volta giunti a destinazione, gli emigranti si accodavano al crescente numero di clandestini in città straniere. Vedevo quelle file di giovani esistenze in fila davanti all’ ingresso delle agenzie di reclutamento. Era facile avvicinarli, anzi avevano piacere di poter chiacchierare con uno straniero. Un missionario poi. In me tutti destavano un senso di sorpresa ed ammirazione per il loro ardire.
Situazioni simili a quelle descritte formano un elenco nutrito nel mondo d’oggi! Il desiderio di far fortuna o crearsi un avvenire meno precario non è meno rischioso ai nostri giorni. Un giovane nigeriano, ospitato nella mia parrocchia in provincia di Bergamo, alla domanda su come mai avesse deciso di partire, raccontava di aver visto l’uccisione dei suoi genitori e di due sorelle e di aver perso le tracce degli altri due fratelli, e aggiungeva: meglio affrontare, con il viaggio nel deserto e la traversata del Mediterraneo, una morte probabile piuttosto che andare incontro a una morte certa!
p. Tony Paganoni