Bassani Ines Albarosa
L'altra Caporetto
2018/3, p. 23
Dietro alla disfatta di Caporetto nella prima guerra mondiale c’è una storia sconosciuta che non sarà mai scritta nei manuali di scuola. È la storia vissuta dalla gente in un silenzio coraggioso che rimarrà scavata come una ferita profonda e incancellabile, nel cuore e nei ricordi.

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Testimoni
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Suore, orfanelle e pazze di Valdobbiadene – 1917-1918.
L’ALTRA
CAPORETTO
Dietro alla disfatta di Caporetto nella prima guerra mondiale c’è una storia sconosciuta che non sarà mai scritta nei manuali di scuola. È la storia vissuta dalla gente in un silenzio coraggioso che rimarrà scavata come una ferita profonda e incancellabile, nel cuore e nei ricordi.
Si contano a centinaia i diari della Grande Guerra, le memorie, le cronache scritte da ufficiali o da soldati combattenti, da gente comune, da sacerdoti, parroci o cappellani militari. Le memorie scritte da suor Geltrude Bisson – per 31 anni maestra nelle scuole comunali di Valdobbiadene – narrano le vicende di due gruppi di suore doroteerimaste sole, con trecento donne pazze e un gruppo di orfanelle, sotto i bombardamenti nella linea del fronte, e profughe nei territori occupati alla sinistra del Piave, dopo la disfatta di Caporetto. È la guerra “vista dal basso”, quella della popolazione rimasta prigioniera in casa propria, quella dei profughi affamati in cerca di cibo e di un rifugio, la guerra della povera gente, con il tuono dei cannoni delle battaglie vicine, fino all’offensiva finale e all’arrivo in paese dei primi arditi italiani, la mattina del 30 ottobre 1918.
La triste fine
delle donne pazze
Quando il 10 novembre1917 le truppe tedesche invasero il paese di Valdobbiadene, la maggior parte dei civili, donne, vecchi e bambini, fu evacuata e andò profuga verso il Friuli; pochi scelsero di restare a casa a difendere la loro proprietà e si trovarono a vivere tutti i rischi e i disagi della prima linea. «Domani mattina prenderemo il caffè a Venezia e dopodomani pranzeremo a Roma», andavano ripetendo i tedeschi, ritenendosi sicuri di passare oltre il Piave e di scorrere in breve tutta la pianura veneta.
Alle prime avvisaglie di arrivo degli invasori, le ventiquattro suore infermiere dell’ospedale e del manicomio di Valdobbiadene si trovarono sole, con cinquanta ammalate e trecento donne pazze da accudire, senza medici né infermieri, fuggiti in fretta di là del Piave. Rimasero per due mesi sotto i bombardamenti delle granate che gli italiani lanciavano dal Grappa e dal Montello. I tedeschi, infatti, avevano piazzato le batterie principali dei cannoni intorno all’ospedale, sperando che la bandiera con la croce rossa li salvaguardasse dagli attacchi. Gli italiani, però, individuarono subito le postazioni nemiche, e così l’ospedale divenne uno degli obiettivi più colpiti.
Quando cominciarono i bombardamenti, le suore si precipitarono a portare nel sotterraneo tutte le ammalate, anche le pazze più furiose, che rimasero in quel rifugio quasi un mese. In quelle terribili settimane caddero intorno e dentro l’ospedale quasi un centinaio di granate, ma non ci fu alcuna vittima. Solo la superiora rimase ferita a un braccio e alla testa, riportando gravi danni a un occhio, mentre assisteva una moribonda: un obice 305 squarciò il soffitto, spezzando in due una grossa trave che rimase miracolosamente sospesa sopra il suo capo.
La coraggiosa superiora si presentò più volte al Comando tedesco, e insistette finché ottenne che le malate e le pazze fossero trasferite con dei carri all’ospedale civile di Vittorio. Ospiti scomode e sgradite, separate dalle loro suore, in un mese quasi duecento pazze morirono di fame e di freddo, perché «i matti sono bocche inutili alla società», diceva il medico del reparto. Solo novanta di loro sopravvissero, e il 4 luglio 1918 furono trasportate all’ospedale militare di Palmanova, riunite finalmente alle loro infermiere dorotee.
L’orfanotrofio
occupato dai “barbari”
All’orfanotrofio di Valdobbiadene si trovavano altre cinque consorelle, maestre nella scuola comunale, tra cui la nostra suor Geltrude, e tredici orfanelle affidate alle loro cure.
All’arrivo dei tedeschi, gli amministratori dell’istituto erano tutti scomparsi, e le suore si preoccuparono subito per la sorte delle bambine, alcune ancora piccole, altre già adolescenti. Per venticinque giorni, durante i bombardamenti, suore e orfanelle rimasero rifugiate in una piccola stanza del sottoscala. La casa fu invasa a più riprese da varie compagnie di soldati, che si fermavano una notte e la mattina uscivano per marciare verso il fronte. I militari andavano e venivano da padroni, di notte dormivano dove volevano, e le suore erano sempre in angoscia a fare da sentinelle, per timore che le ragazze fossero molestate. I “barbari”, come li chiamavano, saccheggiarono tutte le stanze, rovesciarono cassetti, tavolini, disseminando in giro libri, quaderni, carte. Salirono in soffitta e riuscirono a scovare i miseri fagottini che le orfanelle avevano preparato per partire. Sparsero a terra la biancheria e i vestiti, rubarono il denaro e i pochi oggetti preziosi che le bambine avevano nascosto in fondo ai sacchi. Presero perfino le scarpe nuove delle tre più piccole, e tutto davanti alle orfanelle che guardavano spaventate, senza osare una parola.
Tremila profughi
in colonna
Il 5 dicembre, alle sette del mattino, le orfanelle e le suore si misero in viaggio insieme ai tremila abitanti di Valdobbiadene che avevano avuto l’ordine di emigrare a piedi, con fagotti e povere masserizie, verso paesi lontani dal fronte. Era gente di ogni età e condizione, carica di tutto, silenziosa e piangente. C’erano bambini che volevano essere presi in braccio, ragazzini e bambine che portavano pesanti carichi, trascinandosi a stento, donne con tre o quattro fagotti sulle spalle, uomini con masserizie caricate sulla schiena. Procedevano disordinatamente, in colonna, senza sapere dove sarebbero stati condotti. Finalmente alle nove e mezzo della sera, dopo trenta chilometri, i profughi giunsero stremati a Revine Lago, il paesino di montagna assegnato ai valdobbiadenesi. In quel buio pesto qualcuno rubò alle orfanelle uno dei fagotti che conteneva una soppressa (salame), due chili di formaggio, sei pezzi di sapone, un pacco di candele, delle salviette e alcuni libri.
Le suore bussarono a diverse porte, ma il loro gruppo era troppo numeroso per essere alloggiato nelle piccole stanze di quelle case. Intravidero il campanile della chiesa,e suonarono alla porta del parroco, che le accolse tutte in canonica. Era padre Innocente Bortoluzzi, un religioso camilliano amato dalla gente per la sua carità e generosità. «Non ho stanze sufficienti, né letti, materassi, né coperte – disse – sono povero anch’io e vivo della carità dei paesani, che ora non hanno più niente, perché i germanici ci hanno saccheggiato tutto». Padre Innocente riuscì a ottenere per il gruppo delle orfanelle il permesso di fermarsi a Revine per tutto quel “lungo anno della fame”, mentre gli altri profughi di Valdobbiadene furono fatti ripartire verso i paesi del Friuli.
Ramingando
con un carrettino
Le suore dovettero inventare ogni possibile espediente per riuscire a sopravvivere e non morire di fame, di stenti e di freddo, in quel terribile inverno del 1917-1918. Organizzarono la scuola per i bambini del paese, usando come banchi i davanzali delle finestre; chiesero agli scolari di portare ciascuno una patata, un pugno di fagioli o di farina; tentarono inutilmente di ottenere la tessera del grano concessa per un breve periodo alla popolazione di Vittorio. E quando non ebbero più il coraggio di chiedere la carità alla gente del paese, quando nei dintorni non trovarono più niente, nemmeno pagandolo, decisero di “ramingare” con un carrettino, oltre Vittorio, in cerca di grano per la polenta.
Percorsero centinaia di chilometri a piedi, da un campanile all’altro, da un Comando di tappa all’altro, passando da Vittorio a Pordenone, oltre i fiumi Meduna e Livenza, fin verso il Tagliamento. Camminarono quasi sempre digiune, e videro la grande miseria in cui viveva la gente. Vissero l’umiliazione del chiedere la carità di un po’ di cibo. Sperimentarono i soprusi e l’arroganza dei nemici, ma anche le gentilezze ricevute da qualche ufficiale più sensibile. Videro tante canoniche occupate dai Comandi militari, parroci che erano anche sindaci del paese, nominati dai tedeschi dopo la fuga delle autorità civili al momento dell’invasione. Molti di questi preti, pur trovandosi in situazioni di estrema povertà, dopo le razzie subìte dagli invasori, le accolsero con gentilezza e ospitalità, offrendo loro una fetta di polenta, un bicchiere di vino e un giaciglio di paglia per la notte. Ad aprile il tempo fu orribile, e le pellegrine camminarono per strade fangose sotto una pioggia ininterrotta, senza poter mai cambiarsi gli abiti inzuppati, che non riuscirono ad asciugare nemmeno dormendoci sopra la notte. Si azzardarono ad andare lontano, raggiungendo paesi sconosciuti della provincia di Pordenone e della diocesi di Concordia. Arrivate a Barco, furono arrestate e sottoposte a interrogatorio, perché sospettate di essere delle spie. Dopo una notte trascorsa in mezzo ai militari austriaci che le sbeffeggiavano, furono rilasciate con l’ordine di uscire dal paese entro ventiquattro ore. Ripresero di corsa la strada del ritorno. Lungo il viaggio una delle orfanelle, stanchissima, lasciò cadere a terra il suo sacco di grano che si sparpagliò sulla strada, così dovettero raccattare tutti i granelli, uno ad uno, con infinita pazienza.
In dodici giorni avevano percorso 210 chilometri, ed erano riuscite a raccogliere un quintale e 60 chili di grano, una trentina di uova e pochi fagioli.
Una popolazione
stremata
Quando gli austriaci non concessero più i passaporti per spostarsi da un paese all’altro, le suore decisero di andare ai Comandi austriaci di Vittorio, per barattare la biancheria e i rocchetti di filo. Ricevettero in cambio poche pagnotte di pane, qualche chilo di farina e rare medicine, come le polveri per la dissenteria, il chinino, la caffeina per le iniezioni e il laudano.
A settembre non si trovava più da nessuna parte grano per la polenta e le orfanelle, come tutta la gente, arrivarono a mangiare solo pannocchie di granoturco mezzo crudo, cotte nell’acqua: i contadini le rubavano di notte dai propri campi che erano sorvegliati dai soldati. A causa della denutrizione generale, crebbe notevolmente la mortalità, specialmente fra gli anziani. La popolazione cominciò a morire di un morbo che chiamavano “la nessa” e si manifestava con gonfiore alle gambe, sete ardente, dissenteria e prostrazione, fino alla morte per inedia. Quasi tutte le suore e le orfanelle ne furono colpite, e suor Ghita, la maestra più anziana, morì.
L’altra Caporetto
Nel 1927, quando suor Geltrude cessò di dettare le sue memorie, era ormai cieca, a causa delle cataratte. Riposti i fogli con cura, dopo un lungo silenzio, la suora aggiunse qualcosa, come parlando tra sé, quasi in un soffio, con la voce divenuta debole, a causa della malattia che l’avrebbe condotta alla morte poco dopo: «Ecco, questa fu “l’altra Caporetto” per la povera gente, per le nostre donne pazze, per le orfanelle e per noi, suore di Valdobbiadene». Poi non aggiunse altro.
La Caporetto sconosciuta alla grande Storia, intendeva dire, che non sarà mai scritta nei manuali di scuola. Quella che ognuna di loro aveva vissuto in un silenzio coraggioso e rimaneva scavata, come una ferita profonda e incancellabile, nel cuore e nei ricordi. Con l’incubo dei bombardamenti, l’angoscia della fuga, il ramingare di profughe a chiedere la carità, l’ansia per proteggere e salvare le orfanelle e le povere pazze ad esse sole affidate.
E, sopra tutti quei ricordi, il tormento indescrivibile di quel freddo e di quella fame insaziabile, patita giorno e notte, ora dopo ora, per un lungo interminabile anno.
Albarosa Ines Bassani