Prezzi Lorenzo
"Indurre" o "Non abbandonare"
2018/3, p. 13
Nel prossimo mese di novembre i vescovi italiani approveranno la terza edizione del Messale Romano. Ivi comprese le variazioni su alcune preghiere come il Padre nostro. Metodi, forme e responsabilità nei cambiamenti delle traduzioni. Per la fedeltà al Signore Gesù e la comprensione del popolo di Dio.

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Testimoni
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Correzioni al Padre nostro
“INDURRE”
O “NON ABBANDONARE”
Nel prossimo mese di novembre i vescovi italiani approveranno la terza edizione del Messale Romano. Ivi comprese le variazioni su alcune preghiere come il Padre nostro. Metodi, forme e responsabilità nei cambiamenti delle traduzioni. Per la fedeltà al Signore Gesù e la comprensione del popolo di Dio.
Le chiese cattoliche di Francia, Germania e Italia sono contemporaneamente interessate a ritoccare il Padre nostro, una delle preghiere fondamentali, suggerita dalla bocca di Gesù e trasmessa a tutte le generazioni cristiane, non solo come singoli credenti, ma per la Chiesa e nella sua liturgia. Credo, sacramenti, comandamenti e Padre nostro sono anche le parti del Catechismo della Chiesa cattolica. I vescovi italiani discuteranno la sua formulazione nel prossimo novembre in assemblea generale (si tratterà di approvare la terza edizione del Messale Romano). I vescovi francesi l’hanno già introdotta dal 3 dicembre scorso. Quelli tedeschi in una nota del 25 gennaio 2018 hanno preferito non modificare l’attuale formulazione. La questione è relativa sostanzialmente alla sesta richiesta contenuta nella preghiera, quella che nell’attuale dicitura specifica «non indurci in tentazione». E’ probabile che venga modificata nel senso della nuova traduzione italiana della Bibbia del 2008, «e non abbandonarci alla tentazione» (Lc 6,13). Così i francesi hanno introdotto «Et ne nous laisse pas entrer en tentation». Del tutto sovrapponibile al francese il testo portoghese e spagnolo. Mentre i tedeschi hanno mantenuto: «Und führe uns nicht in Versuchung».
La scelta del concilio Vaticano II di aprire nella liturgica l’uso delle lingue “volgari” ha favorito il bene dei fedeli e il loro diritto a una consapevole e attiva partecipazione alle celebrazioni. Ma ha anche avviato il problema di salvare l’unità sostanziale del Rito Romano. Il rito è uguale, le parole sono diverse. Inoltre i Padri erano consapevoli che l’eleganza dello stile e la gravità dei concetti avrebbe richiesto molto lavoro e tempo per sedimentarsi nelle diverse culture linguistiche. Il caso del Padre nostro è solo un piccolo e fondamentale frammento di questo cammino.
I tre livelli
Fra le questioni maggiori si possono indicare tre livelli. Il primo è relativo all’autorità e alle modalità con cui i testi vengono stesi e approvati. Il secondo è interno ai testi stessi: cioè l’inevitabile tensione fra traduzione e interpretazione, fra ripresa letterale della parola e il suo senso complessivo per quelli che l’ascoltano. Il terzo è la coerenza dell’immagine di Dio trasmessa da Gesù dentro le parole e i gesti della Chiesa. La piccola modifica prevista per il Padre nostro li intercetta tutti e tre.
All’indomani del Concilio c’è stata una straordinaria fioritura di traduzioni della Scrittura e dei libri liturgici, alimentata e sostenuta dalle Conferenze episcopali dei singoli paesi o in collaborazione con quelle che usano la stessa lingua. A livello centrale, cioè a Roma, si provvedeva a una verifica e alla conferma. Nel corso dei decenni il processo ha spostato su Roma un ruolo sempre maggiore, fino alla istruzione Liturgiam authenticam (2001) che, senza annullare il lavoro delle Chiese locali, lo sottoponeva a una revisione spesso radicale e fortemente letteralista. È nota la tensione sulla traduzione inglese del Messale. Papa Francesco, col motu proprio Magnum Pincipium (settembre 2017) ha riequilibrato le responsabilità. «Si deve senz’altro prestare attenzione all’utilità e al bene dei fedeli, né bisogna dimenticare il diritto e l’onere delle Conferenze episcopali che insieme con le Conferenze episcopali di regioni aventi la medesima lingua e con la Sede apostolica devono far sì e stabilire che, salvaguardata l’indole di ciascuna lingua, sia reso pienamente e fedelmente il senso del testo originale e che i libri liturgici tradotti, anche dopo gli adattamenti, sempre rifulgano per l’unità del Rito romano» E così modifica il can 838 del CDC: «Spetta alle conferenze episcopali preparare fedelmente le versioni dei libri liturgici nelle lingue correnti, adattate convenientemente entro i limiti definiti, approvarle e pubblicare i libri liturgici, per le regioni di loro pertinenza, dopo la conferma della Sede apostolica». In una successiva lettera (15 ottobre 2917) del papa al card. Robert Sarah, prefetto della Congregazione per il culto divino, lo spostamento di responsabilità diventa netto: «Sulla responsabilità delle Conferenze episcopali di tradurre fideliter, occorre precisare che il giudizio circa la fedeltà al latino e le eventuali correzioni necessarie, era compito del Dicastero, mentre ora la norma concede alle Conferenze episcopali la facoltà di giudicare la bontà e la coerenze dell’uno e dell’altro termine nella traduzione dall’originale, se pur in dialogo con la Santa sede». La confirmatio resta a Roma (e non è solo atto formale), ma la recognitio e cioè il giudizio di conformità al diritto e al deposito ecclesiale, spetta ai vescovi. Nel nostro caso la migliore pertinenza con l’originale scritturistico fra «indurre» e «non abbandonare» resta dei vescovi italiani che si sono espressi a suo tempo con l’approvazione della traduzione della Bibbia (nel 2002, con 203 voti a favore e 1 contrario). Ma allora previdero, appunto, l’eccezione dell’uso liturgico.
Traduzione
e interpretazione
Ogni traduzione si presta al tradimento, ma soprattutto all’interpretazione. Traduzione e interpretazione costituiscono da sempre il cruccio per coloro che si approntano all’impresa. Rendere viva la solennità, la brevità e l’efficacia del testo originale è stata la sfida del post-concilio. Così ne parla Benedetto XVI: «Questa fusione di traduzione e interpretazione appartiene, in un certo senso, ai principi che, subito dopo il Concilio, guidarono la traduzione dei libri liturgici nelle lingue moderne. Si era consapevoli di quanto la Bibbia e i testi liturgici fossero lontani dal mondo del parlare e del pensare dell’uomo d’oggi, così che anche tradotti essi sarebbero rimasti ampiamente incomprensibili ai partecipanti alla liturgia. Era un’impresa nuova che i testi sacri fossero resi accessibili, in traduzione, ai partecipanti alla liturgia, pur rimanendo, tuttavia, a una grande distanza dal loro mondo; anzi, in questo modo, i testi sacri apparivano proprio nella loro grande distanza. Così ci si sentì non solo autorizzati, ma addirittura in obbligo di fondere già nella traduzione l’interpretazione, e di accorciare in questo modo la strada verso gli uomini, il cui cuore ed intelletto si voleva fossero raggiunti appunto da queste parole» (Lettera al presidente della Conferenza episcopale tedesca, aprile 2012). Gesù insegnò il Padre nostro in aramaico che si armonizza con le parole e i gesti raccontati dai Vangeli. Porta l’impronta della sua originalità, tanto che Tertulliano l’ha qualificato come «breviarium totius evangelii», compendio dell’intero Vangelo. Così C. Marucci si esprimeva nel 2006: la traduzione ottimale deve avere «almeno le due seguenti caratteristiche: essere quanto più fedele all’originale e al tempo stesso il più comprensibile da parte di chi la usa. Soprattutto a motivo del suo uso liturgico, sarebbe bene poi che una eventuale nuova traduzione della “preghiera del Signore” avesse un certo livello estetico». «Naturalmente il Padre nostro, come e forse più di altri passi biblici, non può essere compreso a fondo e gustato nelle sue ricchezze se non attraverso lo studio e l’approfondimento che può scaturire solo da una quotidiana frequentazione. È tuttavia dovere della Chiesa presentare un testo il più vicino possibile al senso originale e che al tempo stesso non renda la sua comprensione più difficile di quanto non inerisca per loro natura a testi evangelici, che possa essere convenientemente usato nella liturgia e che possa venir capito, seppur ad un primo livello di comprensione, anche dai lontani e dai non credenti».
L’immagine
di Dio-Abbà
Il terzo punto problematico è la coerenza dei testi all’orizzonte teologico di Gesù, al suo modo di rapportarsi al Padre, alla sua immagine di Dio. È difficile immaginare che una preghiera che inizia con Abbà (Padre), con la sua originalissima connotazione di infinita tenerezza, possa implicare elementi di negatività nei nostri confronti. Un linguaggio non sorvegliato può tradire un Dio che è giusto nel senso che rende giusti e che è misericordia nel senso della sovrabbondanza dell’amore. Può oscurare la sua tenerezza infinita generando dal fondiglio del “religioso” il fantasma di un dio indifferente, se non crudele e di parte (cf. gli interventi di Andrés Torres Queiruga in Settimananews).
Nel testo del Padre nostro rimangono distanze non superabili. La collocazione di Dio nel cielo esprime la sua assoluta trascendenza e non certo un “luogo”. La santificazione del suo Nome non suggerisce immediatamente il rispetto della sua volontà anche a costo della vita come nella cultura semita, né la sua dimensione escatologica. Non è immediato per noi che il «debito» sia «il peccato». Ma nell’«indurre in tentazione» non vi è solo una distanza, ma anche una possibile torsione di significato. È evidentemente inapplicabile a Dio la sollecitazione al male, ma anche l’indurre in tentazione crea problemi. Da qui l’orientamento del papa che durante l’intervista sul Padre nostro trasmessa da Tv2000 nel dicembre scorso l’ha indicata come una «traduzione non buona». «Sono io a cadere, non è Lui che mi butta nella tentazione per vedere come sono caduto. Chi induce in tentazione è Satana, è questo il mestiere di Satana». Sulla stessa lunghezza d’onda sono molte Chiese locali. Perché allora i vescovi tedeschi preferiscono la tradizionale «e non indurci in tentazione»? Nella formula c’è il peso della tradizione, della Vulgata, delle ragioni filosofiche ed esegetiche. C’è soprattutto una ragione ecumenica. Il testo è quello usato dalle confessioni protestanti e cambiarlo da parte dei soli cattolici può approfondire una distanza che si vuole superare. La fondazione linguistica che la Bibbia di Lutero ha avuto per la lingua tedesca è un ulteriore vincolo (come del resto anche per l’inglese la Bibbia di Re Giacomo). «È l’unica domanda del Padre nostro formulata in negativo; in Luca conclude la preghiera, in Matteo viene trasformata in senso radicalmente positivo; “ma liberaci dal male”. Solo perché gli uomini sono liberi, possono anche cadere nella tentazione. Questa tensione è espressa nel Padre nostro. Chi lo prega riconosce: “io sono soggetto alla seduzione, sono tentato ed esposto alla tentazione”; ma chiunque recita la preghiera con fede confida, nello stesso tempo, nell’ascolto misericordioso di Dio; devo affidarmi alla guida di Dio: “non indurmi in tentazione”». «La tentazione di cui parla il Padre nostro è di una serietà mortale; è la tentazione di separarsi da Dio e la seduzione di servire il male. Questa tentazione e questa seduzione rappresentano una forza enorme a cui gli uomini sono esposti e a cui essi stessi si espongono». «Il fatto che Dio possa preservare gli uomini dalla tentazione e non consegnarli alle loro false decisioni fa parte del significato della domanda del Padre nostro, ma essa è fatta anche per rispondere all’esperienza indecifrabile che Dio metta alla prova una persona oltre le sue forze» (espressione che mal si accorda con 1Cor 10,13).
Contenuti
e responsabilità
La possibile diversità è già percepita nel Catechismo della Chiesa cattolica (1992). Al n. 2846 ricorda che la domanda di non indurci alla tentazione significa «”non permettere di entrare in”, “non lasciarci soccombere alla tentazione” … Noi gli chiediamo di non lasciarci prendere la strada che conduce al peccato». Il dibattito sul «non indurre» ricorda la positiva tensione che nel 2012 c’è stata a proposito della formula della consacrazione sul calice. Allora papa Benedetto si pronunciò a favore del «per molti» rispetto al «per tutti». I vescovi tedeschi recepirono immediatamente il cambiamento. Quelli italiani si erano espressi due anni prima per mantenere il «per tutti»: nel novembre 2010 votarono il «per molti» solo 11 vescovi dei 187 votanti. Ciò che nel frattempo è cambiato è il riconoscimento di responsabilità diretto alle conferenze episcopali. Prima la relativa divergenza dal papa poteva suonare disobbedienza, ora contribuisce a manifestare la ricerca corale delle Chiese nella fedeltà al loro Signore. Va ricordato che ogni cambiamento è attraversato da tentazioni di rottura e di irrigidimenti, come ricorda un editoriale di Istina (LXII, 2017, p.383). E questo enfatizza la responsabilità di coloro che guidano le comunità a sorvegliare, spiegare, aggiornare o modificare i testi e i gesti nella fedeltà al rito e alla Scrittura, ma anche nella percezione delle richieste del popolo di Dio che è loro affidato.
Lorenzo Prezzi