Una carità senza confini
2018/2, p. 31
Ha incarnato pienamente nella sua vita il Vangelo mediato
dalla Regola di san Benedetto. La sua esistenza è stata una
lode a Dio operatore di meraviglie in coloro che, con
docilità, si abbandonano in Lui.
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Il beato card. Dusmet: 200 anni dalla nascita
UNA CARITÀ
SENZA CONFINI
Ha incarnato pienamente nella sua vita il Vangelo mediato dalla Regola di san Benedetto. La sua esistenza è stata una lode a Dio operatore di meraviglie in coloro che, con docilità, si abbandonano in Lui.
Ricorre quest’anno 2018 il 2° centenario della nascita del beato Giuseppe Benedetto Dusmet, monaco benedettino e arcivescovo di Catania. «La fama delle sue virtù, l’incisività della sua opera, l’affabilità del tratto e soprattutto la sua presenza profetica sono realtà vive che non possono tramontare».
La vita e la scelta
prioritaria dei poveri
Nato a Palermo il 15 agosto 1818 da una nobile famiglia di origine belga, fu battezzato con il nome di Melchiorre. Sin da bambino era attratto dalla preghiera e mostrava una predilezione per i poveri e i sofferenti. Fu portato nell’abbazia di San Martino delle Scale per essere istruito e qui maturò la vocazione religiosa. Dopo un breve soggiorno a Napoli, dove si era trasferita la famiglia, tornato in monastero, vestì l’abito benedettino nel 1833 a soli 15 anni. Emise i voti il 15 agosto 1840 a 22 anni con il nome di Giuseppe Benedetto. Due anni dopo fu ordinato sacerdote; dal 1842 al 1844 insegnò filosofia e teologia. Seguirono altre mansioni e incarichi di responsabilità. Nel 1847 fu mandato nel monastero di Santa Flavia a Caltanissetta dove rimase sino al 1850 amatissimo e apprezzato da tutti. Successivamente fu nominato priore del monastero dei Santi Severino e Sossio a Napoli distinguendosi per la prudenza nel dirigere la comunità. Nel 1852 fu nuovamente a Caltanissetta prodigandosi senza risparmiare fatiche durante un’epidemia di colera nel 1854. Nel 1858 fu inviato a Catania a reggere il monastero di San Nicola l’Arena. L’esempio fu la scelta educativa del nuovo abate che dovette faticare non poco per richiamare i monaci alla fedele osservanza della Regola.
Inutilmente lottò contro le leggi eversive del 1866 e, con i suoi monaci, dovette lasciare San Nicola. Nel 1867 fu eletto da Pio IX arcivescovo di Catania ed accolto dai fedeli con grande entusiasmo in quanto la sua fama di uomo di Dio era già diffusa nella città etnea.
L’aspetto più importante della sua incisiva azione pastorale, durata 27 anni, fu il contatto con la gente, ricchi e poveri, fedeli e dissidenti, con grande dolcezza e carità. Fu apostolo di pace nella sua diocesi e anche a Caltagirone dove, nel 1885, in qualità di amministratore apostolico, risolvette una controversia tra il vescovo e il comune. Nella città e nella diocesi di Catania favorì la presenza di istituti religiosi, ebbe una intensa corrispondenza con san Giovanni Bosco; diede il suo apporto per l’apertura di ospizi, convitti, si adoperò per accrescere il fervore, soprattutto eucaristico e mariano, nelle parrocchie e fu esigente nel far rispettare le norme della Chiesa cattolica.
Nel 1886, portando in processione il velo di sant’Agata, ottenne l’arresto di una colata lavica che minacciava il paese di Nicolosi. Nel 1889 fu promosso cardinale. Il 4 aprile 1894 chiuse gli occhi per riaprirli davanti al Dio cercato, amato e servito per tutta la vita. I funerali, celebrati in un clima di dolore e lutto cittadino, furono un segno tangibile dell’unanime attaccamento dei catanesi a colui che era stato, lungo le strade della città, l’“angelo della carità”. È stato beatificato il 25 settembre 1988.
La carità è l’aspetto evangelico da lui vissuto con più forza non senza gli altri, pure belli e intensi e che, in un certo senso, riassume e racchiude: una carità che si traduceva in una generosità commovente per quanti ricorrevano a lui. Nel suo cuore di padre e di pastore c’era spazio per tutti: accoglieva, ascoltava… a tutti rendeva visibile e credibile l’amore di Dio. Durante la diffusione di epidemie, i disastri del terremoto, le eruzioni dell’Etna la sua figura slanciata rivestita del povero abito benedettino si aggirava tra le macerie delle case e il pianto della gente. Per tutti aveva qualcosa da dare e una parola di speranza da dire. Invitava sempre il suo buon popolo ad affidarsi «pure tutto intero al nostro amore di padre», un amore che lo portava sin nelle periferie urbane, ma ancor prima esistenziali, della città e della diocesi.
La beatitudine dei poveri
Si tratta di quella “sfida della beatitudine dei poveri” lanciata da papa Francesco e che il Dusmet ha vissuto intensamente con i mezzi e le modalità del suo tempo. Al n. 198 dell’Esortazione apostolica Evangelii gaudium il Santo Padre scrive: «Desidero una Chiesa povera per i poveri. Essi hanno molto da insegnarci. Oltre a partecipare al sensus fidei, con le proprie sofferenze conoscono il Cristo sofferente. È necessario che tutti ci lasciamo evangelizzare da loro». E, ancora, al n. 15 della Misericordiae vultus il Pontefice raccomanda una particolare riscoperta delle opere di misericordia corporale e spirituale: «Sarà un modo per risvegliare la nostra coscienza spesso assopita davanti al dramma della povertà e per entrare sempre più nel cuore del Vangelo, dove i poveri sono i privilegiati della misericordia divina. La predicazione di Gesù ci presenta queste opere di misericordia perché possiamo capire se viviamo o no come suoi discepoli».
San Benedetto, nella Regola, riserva un posto centrale alla carità, sempre intesa in riferimento a Cristo. Nel fratello, nell’abate, ma soprattutto nel povero, nell’ammalato e nell’ospite c’è Cristo stesso amato, accolto, curato, ospitato in chi ci sta accanto. Il cardinale Dusmet, vivendo in pieno il voto di povertà, ossia facendosi povero (così come pure casto e obbediente) per amore del Signore, ha fatto della scelta prioritaria dei poveri un suo peculiare stile di vita, mantenuto costante anche da Vescovo in un episcopio trasformato in monastero. Povertà interiore ed esteriore, effettiva privazione del superfluo – ma tante volte anche del necessario - a favore dei poveri.
Vogliamo a proposito mettere davanti agli occhi dei lettori l’icona stupenda della porta, già scelta da Gesù (Gv 10,9) per indicare se stesso nell’atteggiamento dell’accoglienza e dell’ascolto, quella porta da cui transita, sicuro e amato, il gregge costituito da pecore ciascuna con una propria unica, preziosa, irrinunciabile identità e dignità: pecore/figlie conosciute e chiamate una per una dal Pastore/Padre. Come non ripensare a quella porta, espressione di un concreto atteggiamento ecclesiale, ben delineata dal Dusmet nella prima Lettera pastorale all’arcidiocesi di Catania (Roma, 14 marzo1867): «La nostra porta per ogni misero che soffra sarà sempre aperta. L’orario che ordineremo affiggersi all’ingresso dell’episcopio sarà che gli indigenti a preferenza entrino in tutte le ore. Un soccorso, ed ove i mezzi ci manchino, un conforto, una parola di affetto l’avranno tutti e sempre».
Alla luce di tutto questo diventa quanto mai significativa la scelta di aver apposto, insieme a tutta l’inerente simbologia iconografica, la famosa “sentenza” del Dusmet «sin quando avremo un panettello, noi lo divideremo con il povero» nel monumento eretto in sua memoria nel 1935 in una piazza di Catania.
Ecco che, in questo anno giubilare, ci è nuovamente rivolto e riconsegnato l’invito a quella carità che, nel momento in cui ci sprona ad uscire dai nostri egoismi e piccole o grandi avidità, ci apre al dono di noi stessi, di ciò che siamo prima ancora di ciò che abbiamo; un’apertura e un dono ricolmati dalla lieta notizia che Dio è Padre e che, in Gesù Cristo, ci ha amati sino all’estremo, per darci la vita in abbondanza e, con essa, una gioia piena che nessuno potrà mai toglierci.
Il rinnovamento
monastico in Italia
Quasi sempre le conoscenze sul Dusmet, per lo meno al di fuori del mondo monastico, si limitano agli anni del suo fecondissimo episcopato, ma è bello far risuonare anche l’eco di intenso impegno profuso a servizio dell’ordine benedettino. Anzi, tra le varie fasi del suo servizio ministeriale non c’è frattura, bensì continuità. È il benedettino Dusmet a reggere la diocesi di Catania con una indiscutibile saggezza e accortezza derivanti da quella equilibrata simbiosi tra contemplazione e azione, tra otium monastico e pastoralità che fecero di lui il padre, il pastore, il santo che ancora viene ricordato con affetto.
Con sano orgoglio di parte – in quanto benedettine e catanesi – ci piace evidenziare che Dusmet fu un tassello, davvero prezioso, incastonato nell’ampio mosaico del monachesimo del suo tempo e fu una delle voci più autorevoli perché concordemente stimato e apprezzato per la pietà, la santità della vita, ma anche per la cultura e quella sua capacità di apertura caratterizzata da lungimiranza e sagace intuito. A proposito del periodo difficile della soppressione del 1866, Reginald Gregoire osb, in una sua pubblicazione, porta in testa ad una significativa lista – non è certo una classifica! – proprio il Dusmet: «Le difficoltà dei tempi non piegarono comunità e personalità di alto livello: per esempio, D. Giuseppe Benedetto Dusmet, diventato arcivescovo di Catania e cardinale, ora beatificato da Giovanni Paolo II». Nell’elenco è posto accanto a nomi che hanno fatto davvero la storia del rinnovamento monastico in Europa: D. Guglielmo Sanfelice (+1897) arcivescovo cardinale di Napoli, D. Prospero Guéranger (+1877) abate di Solesmes per la Francia, i fratelli D. Mauro (+1890) e D. Placido (+ 1908) Wolter per la Germania e altri ancora.
Sappiamo dell’eroica opposizione che il beato Dusmet, quando era ancora abate, portò tenacemente avanti per difendere l’imponente abbazia, e in generale i monasteri e i conventi della diocesi, prima dalla chiusura e poi dai tentativi di incameramento nel demanio statale. E anche se non riuscì nel suo intento, egli non si rassegnò mai alle dure leggi anticlericali del giovane Stato italiano. Egli, tuttavia, accettò con serena adesione quanto permesso dalla Volontà divina pronunciando, all’uscita definitiva dei monaci da San Nicola l’Arena il 25 ottobre 1866, un dignitoso e convinto fiat: «Noi restiamo sereni e tranquilli. Noi non nutriamo in cuore ira, odio, malevolenza, di sorta. Guardando in alto noi chiniamo la fronte agl’imperscrutabili e pur giusti disegni della Provvidenza e, pronti a seguire lungo il cammino della tribolazione l’esempio dei nostri maggiori, pregheremo tutto il giorno prosperità e pace a coloro per cui mezzo piacque al Signore di visitarci […] sicché rassegnati affatto ripetiamo ancora noi: Dominus dedit, Dominus abstulit, sit nomen Domini benedictum».
Fede nella vitalità perenne
del monachesimo
Gregorio Penco osb ha sottolineato come «proprio in quegli anni la coscienza monastica, per bocca del beato Giuseppe Benedetto Dusmet, aveva affermato solennemente che fino a quando fosse esistita la Chiesa monaci e monasteri sarebbero esistiti sulla terra».
Questa viva fede nella vitalità perenne del monachesimo fece sì che il Dusmet non si sentisse smarrito neanche dopo l’apparente dispersione di monaci e religiosi. E lo spiraglio di luce degli anni successivi lo portò a vedere riaccendersi a poco a poco quel dinamismo che le forze avverse non avevano potuto fiaccare del tutto. Nel 1882 si riunì, infatti, a Roma una commissione di abati per esaminare diversi progetti per la ripresa e il rinnovamento. Come presidente di tale commissione fu scelto proprio il cardinale Dusmet che, alla dignità e alla qualità di abate, oltre che di arcivescovo, univa l’ascendente della sua significativa personalità. Fu lui, infatti, a suggerire a papa Leone XIII l’istituzione della Confederazione benedettina allo scopo di unire le varie congregazioni monastiche. Portavoce di una esigenza comune a tanti, seppe concretizzare questo ideale che corrispondeva alla volontà di chiarificare l’identità benedettina e di fornire alla Chiesa uno strumento di presenza, non solo spirituale, ma anche culturale. Questa Confederazione di congregazioni, nata nel 1883, fu messa, come lo è tuttora, sotto la guida morale di un Abate primate e trovò il suo centro ideale nel “Collegio Sant’Anselmo” a Roma, divenuto poi Pontificio Ateneo con facoltà di conferire i gradi accademici. Esso era stato fondato nel 1687 da Innocenzo XI per provvedere alla formazione dei giovani monaci e, come altre istituzioni ecclesiastiche, era stato travolto dalla bufera napoleonica.
Ripristinata la Congregazione si accese il desiderio di ridare nuovo impulso anche al prestigioso Collegio; mediatore efficace per la sua riapertura fu ancora il Dusmet che ne ebbe l’incarico direttamente da Leone XIII con parole che sintetizzano bene i validi contributi apportati all’Ordine e alla Chiesa: «Voi sapete, Venerato Fratello, quanto Ci sia a cuore questa cosa, la quale si collega pure con altri Nostri intendimenti… vi concorreremo come possiamo anche Noi, perché presto si possa avere cominciamento. Ma per questo molto contiamo ancora sull’opera Vostra, la quale, come fu utilissima in seno del Congresso, così confidiamo sia per essere opportunissima per avviare sulle prime il nuovo Collegio in guisa che abbia da rispondere pienamente al fine che Ci proponiamo». Tutto questo si concretizzò il 4 gennaio 1888 con la solenne e ufficiale riapertura. Sono questi alcuni segni del rinnovamento delle comunità monastiche iniziato verso la metà del XIX secolo, ed è bello che il nostro Cardinale ne sia stato uno dei fautori più convinti.
L’abate Luigi Crippa ha sottolineato l’intento che san Giovanni Paolo II ha avuto di presentare alla comunità ecclesiale tre modelli «concreti e contemporanei di figure di monaci benedettini che egli stesso ha elevato agli onori degli altari». Si tratta dell’abate Columba Marmion, del cardinale Alfredo Ildefonso Schuster e del cardinale Dusmet. Nell’omelia di beatificazione di quest’ultimo avvenuta il 25 settembre 1988, richiamando anche il contributo a favore del Collegio internazionale sull’Aventino, il Santo Padre ha così concluso: «Il cardinale Dusmet, decoro e gloria del monachesimo, dell’Episcopato e del Sacro Collegio, ci trasmette così il messaggio profetico di un’autentica solidarietà evangelica e di una docile e operosa fedeltà al carisma della propria vocazione, vissute ed espresse nella realtà fattiva del dono totale di sé sull’itinerario tracciato dalle orme di Cristo Salvatore».
La commemorazione dei 200 anni dalla nascita del Dusmet accresca l’ardore nelle nostre comunità monastiche sempre chiamate ad essere nel mondo e nella storia quelle “scuole del servizio divino” che san Benedetto ha voluto quali indicatori del primato di Dio e della carità.
sr Maria Cecilia La Mela osbap