Un'Italia in chiaroscuro
2018/2, p. 26
In concomitanza con la fine della travagliata XVII
legislatura – dal 2013 al 2017, con ben tre presidenti del
Consiglio dei ministri e una grave frantumazione dei
gruppi parlamentari – è di particolare interesse la lettura
del Rapporto sulla situazione sociale del Paese a cura del
Censis (51° edizione).
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51° Rapporto Censis 2017
UN’ITALIA
IN CHIAROSCURO
In concomitanza con la fine della travagliata XVII legislatura – dal 2013 al 2017, con ben tre presidenti del Consiglio dei ministri e una grave frantumazione dei gruppi parlamentari – è di particolare interesse la lettura del Rapporto sulla situazione sociale del Paese a cura del Censis (51° edizione).
Nelle Considerazioni generali del Rapporto si sottolinea come si stia chiudendo un lungo ciclo di sviluppo senza espansione economica e in cui “il futuro è rimasto incollato al presente”. Nella seconda parte, intitolata “La società italiana al 2017”, si affrontano i temi di maggiore interesse con lo scopo di ricomporre un immaginario collettivo che non lasci prevalere nel corpo sociale il rancore e la nostalgia. Nella terza e quarta parte si presentano le analisi per settori: la formazione, il lavoro e la rappresentanza, il welfare e la sanità, il territorio e le reti, i soggetti e i processi economici, i media e la comunicazione, la sicurezza e la cittadinanza. In generale la ricerca del Censis arriva ad affermare che torna il primato del “benessere soggettivo", ma anche che si accentua il divario tra chi ha compiuto il balzo in avanti, liberandosi dalle strettoie della crisi, e una maggioranza rabbiosa che è rimasta indietro: non si è distribuito il dividendo sociale della ripresa economica e il blocco della mobilità sociale crea rancore.
In questo contesto di rancore che muove dal basso, vale la pena di ricordare subito in particolare l’aspro dibattito sull’efficacia del Jobs Act che ha riformato il mondo del lavoro. Il provvedimento, è stato accompagnato da sgravi contributivi a favore delle imprese per la ‘stabilizzazione’ dei contratti di lavoro. Nei fatti, si è trattato di un provvedimento che sembra aver reso le condizioni di lavoro ancora più precarie, sia per l’introduzione di una nuova tipologia contrattuale (il contratto a tutele crescenti) che non stabilizza il rapporto di lavoro (rende più difficile e costoso il licenziamento al crescere dell’anzianità di servizio), sia per l’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori (tutela sui licenziamenti). In più, si è accentuato il dualismo del mercato del lavoro italiano, inserendo una cesura nel 2015 fra lavoratori assunti con veri contratti a tempo indeterminato e lavoratori assunti con contratti a tutele crescenti.
Il futuro è incollato
al presente
Nell’attuale situazione la contrazione dei consumi e degli investimenti ha portato le imprese a concentrarsi sulla ripresa di capacità competitiva. Così, tanti settori nel 2017 hanno accelerato in fatturato e produttività: dall’agroalimentare all’automazione, dai macchinari alla nautica e all'automobile, dall'ingegneria al design e al lusso. Si sono però indebolite le funzioni esercitate dalla politica industriale e di investimento, con uno spostamento verso interventi a pioggia con i cosiddetti bonus (80 euro in più in busta paga per i lavoratori dipendenti; assegno mensile di natalità; 500 euro annuali per la carta docenti) o i crediti di imposta.
Le riforme dell'apparato istituzionale per la scuola, il fisco, la sanità, la difesa interna e internazionale, le politiche attive per il lavoro, gli incentivi alle imprese, la bonifica delle grandi periferie urbane, fino alle riforme di livello costituzionale, sono rimaste prigioniere nel breve termine. Infatti la ripresa registrata negli ultimi mesi del 2017 sembra indicare, più che l’avvio di un nuovo ciclo di sviluppo, il completamento del precedente. In questi anni l'innovazione tecnologica è stata il fattore propulsivo dominante, mentre la polarizzazione del lavoro – determinata dalla domanda squilibrata verso professioni ad alta competenza o verso servizi alla persona a bassa specializzazione – è una componente strutturale del progresso industriale dettato dall'innovazione.
Perciò la fiducia verso il futuro cresce tra chi è riuscito a stare dentro la modernizzazione, meno tra chi subisce la fragilità del tessuto connettivo e di protezione sociale. In questo contesto la politica ha mostrato il fiato corto rimanendo intrappolata nel brevissimo periodo. Il disimpegno dalla creazione delle grandi riforme di sistema, dalla realizzazione delle infrastrutture, dalla politica industriale, dall'agenda digitale, dalla riduzione intelligente della spesa pubblica, dalla ricerca scientifica, dalla tutela della reputazione internazionale del paese, dal dovere di una risposta alla domanda di inclusione sociale, ha prodotto una società che ha manifestato segni di sviluppo, ma che nel suo complesso si è mostrata impreparata al futuro.
Nei prossimi anni la politica è chiamata a evitare il continuo vizio del procedere a tentoni, senza metodo e obiettivi, senza ascoltare e prevedere la lenta crescita del corpo sociale. La ricerca del Censis focalizza gli snodi strategici che occorre affrontare sul serio: l’Italia è un paese invecchiato e che fatica a guardare il continente al di là del Mediterraneo pieno di giovani; impotente di fronte a cambiamenti climatici e a eventi catastrofici che chiedono grandi risorse e impegno collettivo; ferito dai crolli di scuole, ponti, abitazioni per una scarsa cultura della manutenzione; incerto sulla concreta possibilità di offrire pari opportunità al lavoro e all'imprenditoria femminile, immigrata, nelle aree a minore sviluppo; ambiguo nel diffondersi di nuove tecnologie che spazzano via lavoro e redditi; incapace di vedere nel Mezzogiorno una riserva di ricchezza preziosa per tutti.
Siamo in fase
di ripresa economica
La ripresa c'è, come confermano tutti gli indicatori economici. L'industria è uno dei baricentri della ripresa. L'incremento del 2,3% della produzione industriale italiana nel primo semestre 2017 è il migliore tra i principali paesi europei (Germania e Spagna sono al +2,1%, Regno Unito al +1,9% e Francia al +1,3%) e cresce al +4,1% nel terzo trimestre dell'anno. Si conferma la capacità di esportare delle aziende del made in Italy: il saldo commerciale nel 2016 è pari a 99,6 miliardi di euro, quasi il doppio del saldo complessivo dell'export di beni (51,5 miliardi). La quota dell'Italia sull'export manifatturiero del mondo è oggi del 3,4%, con primati in alcuni comparti: materiali da costruzione in terracotta, cuoio lavorato, prodotti da forno, calzature, mobili, macchinari. L'export italiano corre e aumentano le aziende esportatrici: circa 22mila nel 2016, circa 10mila in più rispetto al 2007. Si evidenzia la creatività per il comparto moda, la tipicità per l'alimentare, il design nell'arredo. E nel comparto delle macchine utensili l'Italia nel 2016 ha raggiunto il 5° posto nel mondo per valore della produzione (dopo Cina, Germania, Giappone e Usa) e il 3° tra i paesi esportatori (dopo Germania e Giappone). In questo comparto sono previsti 5,9 miliardi di euro di produzione a fine anno.
L'Italia poi è sempre più attrattiva per il turismo domestico e internazionale. Nel 2016 gli arrivi complessivi hanno sfiorato i 117 milioni e le presenze i 403 milioni, con una componente di visitatori stranieri al 49% del totale. Rispetto al 2008 si registra un incremento degli arrivi del 22,4% e dei pernottamenti del 7,8%. Cresce di più la componente straniera dei flussi turistici e c’è l’incremento degli esercizi extralberghieri (esercizi di affittacamere; attività ricettive a conduzione familiare – bed & breakfast; unità abitative ammobiliate a uso turistico; strutture ricettive – residence; ostelli per la gioventù; foresterie per turisti; case religiose di ospitalità; rifugi alpini ecc.).
Un paese
di rancori e paure
Il Rapporto, come già detto, ha il coraggio di mettere a fuoco una situazione molto preoccupante: nella ripresa economica non si è distribuito il dividendo sociale e il blocco della mobilità sociale crea rancore. L'87% degli italiani di ceto popolare pensa che sia difficile salire nella scala sociale, come l'83,5% del ceto medio e anche il 71,4% del ceto benestante. Al contrario, pensano sia facile scivolare in basso nella scala sociale il 71,5% del ceto popolare, il 65,4% del ceto medio, il 62,1% dei più ricchi. La paura del declassamento insomma si presenta come il nuovo “fantasma sociale”. Questa paura emerge soprattutto nella psicologia dei millennials (la “generazione Y”, i nati tra il 1980 e il 2000 che si trovano nella fascia d’età 15-35 anni): l'87,3% di loro pensa che sia molto difficile l’ascesa sociale e il 69,3% che al contrario sia molto facile scendere in basso. In questo scenario psico-sociale si rimarcano le diffidenze e le distanze dagli altri: il 66,2% dei genitori italiani si dice contrario all'eventualità che la propria figlia sposi una persona di religione islamica, il 48,1% è contrario che sposi una persona più anziana di vent’anni, il 42,4% è contrario che sposi una persona dello stesso sesso, il 41,4% che sposi un immigrato, il 27,2% che sposi un asiatico, il 26,8% che sposi una persona che ha già figli, il 26% che sposi una persona con livello di istruzione inferiore, il 25,6% che sposi una persona di origine africana, il 14,1% che sposi una persona con una condizione economica più bassa. L'immigrazione poi evoca sentimenti negativi nel 59% degli italiani, con valori più alti quando si scende nella scala sociale: il 72% tra le casalinghe, il 71% tra i disoccupati, il 63% tra gli operai.
In ordine all’aumento del rancore sociale, non vanno dimenticati anche i rischi del mancato consenso sociale sull'età pensionabile (cf la cosiddetta Riforna Fornero del 2011). L'Italia ha l'età di accesso alla pensione più alta d'Europa, preceduta solo dalla Grecia: per gli uomini è di 66 anni e 7 mesi nel settore pubblico, nel privato e per il lavoro autonomo; per le donne 66 anni e 7 mesi nel settore pubblico, 65 anni e 7 mesi nel privato e 66 anni e 1 mese per le lavoratrici autonome. In media negli altri paesi europei si va in pensione a 64 anni e 4 mesi per gli uomini e a 63 anni e 4 mesi per le donne. Questo gap è destinato ad aumentare nel prossimo futuro. In media, l'età alla quale gli italiani pensano che andranno in pensione è 69 anni, ma l'età alla quale vorrebbero andarci è 62 anni. Nel periodo 2007-2017 diminuisce dal 47,8% al 40,8% la quota di cittadini convinti che il loro reddito in vecchiaia sarà adeguato, passa dal 23,4% al 31,2% la percentuale di chi è convinto che percepirà un reddito appena sufficiente a sopravvivere, sale dal 18% al 21,7% la quota che ritiene che avrà un reddito insufficiente.
In questo quadro di disagio e di paura si conferma la grave onda di sfiducia che ha investito la politica e le istituzioni: l'84% degli italiani non ha fiducia nei partiti politici, il 78% nel Governo, il 76% nel Parlamento, il 70% nelle istituzioni locali, Regioni e Comuni. Il 60% è insoddisfatto di come funziona la democrazia nel nostro paese, il 64% è convinto che la voce del cittadino non conti nulla, il 75% giudica negativamente la fornitura dei servizi pubblici. Non sorprende dunque che i gruppi sociali più destrutturati dalla crisi, dalla rivoluzione tecnologica e dai processi della globalizzazione siano anche i più sensibili alle sirene del “populismo” e del “sovranismo” (posizione che propugna la difesa o la riconquista della sovranità nazionale, in antitesi alle dinamiche della globalizzazione e alle politiche sovrannazionali di concertazione come quelle dell’Europa). L'astioso impoverimento del linguaggio rivela non solo il rigetto della classe dirigente, ma anche la richiesta di attenzione da parte di soggetti che si sentono esclusi dalla dialettica socio-politica.
Una nazione
“rimpiccolita”
La demografia italiana è segnata dalla riduzione della natalità, dall'invecchiamento e dal calo della popolazione. Per il secondo anno consecutivo, nel 2016 la popolazione è diminuita di circa 76mila persone, dopo che nel 2015 si era ridotta di circa 130mila persone. Il tasso di natalità si è fermato a 7,8 per mille residenti, segnando un nuovo minimo storico di bambini nati (solo 473.438). Per di più si è ridotta la compensazione assicurata dalla maggiore fertilità delle donne straniere. A fronte di un numero medio di 1,26 figli per donna italiana, il dato delle donne straniere è di 1,97, ma era di 2,43 nel 2010. Nel 1991 i giovani di 0-34 anni (26,7 milioni) rappresentavano il 47,1% della popolazione, nel 2017 sono scesi al 34,3% (20,8 milioni). Pesa anche la spinta verso l’estero: i trasferimenti dei cittadini italiani nel 2016 sono stati 114.512, triplicati rispetto al 2010 (39.545).
Il ricambio generazionale non viene assicurato e, come si è già rimarcato, la nazione invecchia: gli over 64 anni superano i 13,5 milioni (il 22,3% della popolazione) e le previsioni annunciano oltre 3 milioni di anziani in più già nel 2032, quando saranno il 28,2% della popolazione complessiva. Come denuncia il direttore generale del Censis, Massimiliano Valeri: «la riduzione del peso demografico dei giovani è una miccia accesa che sta per accendersi in futuro. Nel momento in cui si inverte quella che non ha più senso chiamare piramide demografica si crea un grave problema per il paese. Oggi i millennials tra i 18 e i 34 anni sono 11 milioni rispetto a 50 milioni di elettori, e quindi l’offerta politica non li guarda con sufficiente attenzione, si parla molto di più di pensioni che di disoccupazione giovanile. Il problema dei giovani in Italia è che non contano perché sono pochi».
Mario Chiaro