La danza come espressione artistica
2018/12, p. 25
Noi religiosi, educati da secoli dall’arte sacra, siamo
attirati dall’arte perché essa può dar voce, o meglio può
ospitare, il sentire affidato e amante che nasce dal nostro
credere.
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Seminario su “Arte e Chiesa”
LA DANZA COME
ESPRESSIONE ARTISTICA
Noi religiosi, educati da secoli dall’arte sacra, siamo attirati dall’arte perché essa può dar voce, o meglio può ospitare, il sentire affidato e amante che nasce dal nostro credere.
La riflessione chiede sempre un po’ di calma, ma chiede anche di non dovere e volere subito arrivare a conclusioni. Piuttosto quello che serve per avviarla e continuarla è una buona domanda, e questa sì che, invece, ha a che fare con l’immediatezza del vissuto. Come avviene per tutte le discipline un approfondimento chiede competenze, ma poi tutti noi andiamo al cinema, guardiamo volentieri uno spettacolo di danza, ascoltiamo musica e godiamo delle arti figurative. Oggi poi, spesso si fa riferimento alle arti per l’esperienza spirituale o per la catechesi, ma l’arte contemporanea sembra resistere ad un suo “uso”. E d’altra parte spesso non è facile al credente ritrovare parole proprie nelle espressioni artistiche. Ma è proprio così? E rispondere a questa domanda è così importante? L’arte ci raggiunge, anche se i religiosi non sono certo i più assidui frequentatori di musei e teatri. E d’altra parte educati da secoli dall’arte sacra, siamo attirati dall’arte perché essa può dar voce, o meglio può ospitare, il sentire affidato e amante che nasce dal nostro credere
Il senso
della danza
I seminari di tarda estate di casa santa Marcellina su arte e Chiesa nel contemporaneo (Pianoro BO) sin qui si sono interrogati su arti che nei secoli hanno visto uno stretto legame con la Chiesa, come arti visive, la poesia, la musica. Per molti secoli l’ambito sacro è stato il luogo di espressione, e alcune volte di nascita, di alcune forme d’arte, la danza, invece, no. Questa forma d’arte non ha vissuto la separazione dal mondo ecclesiale, come le altre arti dall’epoca moderna in poi. Incentrare il seminario sulla danza, ha avuto il senso di mettere alla prova la domanda che lo ha fatto sorgere e l’orizzonte di riflessione che ha dischiuso.
L’avvio più profondo è ben radicato nel nostro vivere: nel linguaggio e dunque anche nelle arti troviamo ben presenti tracce precise di significati che hanno la loro origine nel testo biblico, ma di cui ormai si è perso il riferimento. L’esempio più ovvio è quando nominiamo l’esodo estivo: questa è un’espressione che non si capisce se non si ha la consapevolezza dell’esperienza di liberazione, ma quanti si rifanno al testo biblico? Per le arti succede la stessa cosa. E però nel caso delle arti, e della danza, la sensibilità artistica è attenta a non farsi etichettare: arte religiosa o addirittura arte cristiana.
La traccia linguistica, che per la danza è nei titoli, nel tema di ricerca, ha che fare con il discorso che attiene alla teologia, è ormai solo questione di vocabolario o si può intrecciare? Gli artisti ne hanno il desiderio? E la Chiesa lo ha? Nei precedenti seminari avevamo abbozzato una riflessione. Guardare danzare e riflettere su di essa ci ha permesso di poter individuare alcuni riflessioni che costituiscono l’orizzonte per le risposte a queste domande. Ripercorrere le tappe costringe ad una schematizzazione, che non rispetta la ricchezza del vissuto, ma aiuta a comprendere.
La danza, come molte altre arti, accede al contemporaneo, attraverso un’opera di decostruzione dei canoni classici: il corpo non è più strumento con cui esprimere la tensione all’elevazione: il salto, le punte per le donne. La visione di spezzoni filmici su Pina Bausch, una delle madri fondatrici della danza contemporanea, assistere ad un performance, Avir, di Mariagiulia Serantoni e la parola di esperti di cinema e danza, riflettere con l’aiuto di Claudia Castellucci, coreografa e fondatrice di più scuole di drammatica e movimento ritmico, ci hanno immerso nell’orizzonte di senso della danza e nella domanda se e come essa istituisca un rapporto con la dimensione specificatamente spirituale e della ricerca religiosa. Credo che la prima notazione sia come su questo tema conti la differenza di generazione. Serantoni, più giovane, riportava un’attenzione alla questione più pacificata: la danza non teme di recepire linguaggi e significati che l’aiutino nella sua ricerca, le differenze di visione del mondo non sono ritenute un ostacolo. Diversa l’attenzione di Castellucci, che ci ha tenuto a sottolineare come la danza proceda per se stessa, senza l’attenzione a esprimere contenuti che le vengano suggeriti dalla dimensione di fede, pur condivisa.
Al centro resta il salto, ma ora non è più per la sua elevazione, ma per il suo essere una “buona caduta”, e così questa sorta di lettura al contrario del movimento ci permette di attingere alle dimensioni strutturanti l’antropologico. Ma non è un vivere la terra contro il cielo. Assistere a spezzoni del film di B. Dumont, Janette (2018), dedicato a Giovanna d’Arco: che mette nella forma di musical il testo di Péguy, ha mostrato quanto sia meglio cercare intrecci, più che separare gli ambiti.
La danza
e la Bibbia
L’interrogazione biblica e teologica hanno ulteriormente arricchito. L’antico Testamento conosce diversi modi per indicare la danza, radici che hanno anch’esse con il saltare, il dondolare o il contorcersi. Termini, però, che non indicano un’arte che possa essere esibita, ma un modo di stare davanti a Dio e alla storia, come le danze di vittoria. E allora apre prospettive la dichiarazione di Davide, quando al rimprovero della moglie rivendica la sua danza come un abbassarsi a Dio, che lo rende signore degli umili (cfr 2 Sam 6,22). La danza/caduta, così umana, diventa anche il movimento dell’uomo di Dio. E l’idea che il termine ebraico che traduciamo con beato, porti con sé, anche se lessicalizzata, la radice che rimanda ai passi ha offerto un fondamento al seminario che da qui trae il: I passi beati. Dell’avviarsi e del darsi a vedere.
Così il danzare ha ancora a che fare con l’umanità e il suo rapporto con Dio. E possiamo individuare un luogo dell’umano che sta alla radice dei diversi percorsi artistici e/o religiosi.
Prima di ogni possibile postura ed effetto c’è infatti un passo iniziale, un entrare del corpo in scena che avvia modi di porsi e di darsi a vedere. Finalità e intenzione possono essere ben note qualora si tratti di un rito o di una pièce, ma di per sé i passi e i movimenti si aprono a danza o a processione o a liturgia originariamente senza programma, e restano aperti nel loro apparire.
L’estetico
in teologia
La riflessione di mons. Sequeri ha saputo fare sintesi della sua riflessione sull’estetico in teologia e il tema specifico, un poco inusuale. Inoltre la sua relazione ha avuto anche la capacità di indicare con chiarezza i luoghi della vita della Chiesa in cui si pongono, nella concretezza dei gesti (o nella loro assenza) le questioni teoriche. Nella ricerca di un registro che chiarisse questa attenzione ha individuato un altro punto d’intreccio: la danza, come la vita della Chiesa, la vita sacramentale, la liturgia si danno, e ogni parola su di esse ha forza, solo nella concretezza del gesto. Esso non esegue, ma dà corpo. Nella quotidianità purtroppo molte occasioni di passi che abbiano la forza della danza, gesti umani capaci di accogliere l’eco un oltre da sé, semplicemente non ci sono. Basta considerare la celebrazione eucaristica: il convenire, non solo dei fedeli, l’ingresso del celebrante, l’andare verso il Pane da ricevere: sono solo spostamenti e questa banalizzazione ci fa prendere consapevolezza. La liturgia dovrebbe vivere per se stessa, non è il momento di imparare o altro, è il luogo in cui vivere la riconoscenza per ciò che accade: il dono di Dio che si fa presente, ma se il gesto, che resta inevitabilmente umano, è il gesto feriale e un po’ sciatto e non ha l’intensità del passo di danza, la grandezza del momento si perde. E dobbiamo svolgere molti, troppi ragionamenti per spiegare l’importanza e la bellezza della liturgia. La riflessione aveva presente uno stile molto europeo di celebrazione, e questo ha avuto il merito di non rimandare necessariamente a mutamenti rituali eccezionali, difficili da mutare.
Un altro legame lessicale è il comune impiego del termine “passi” in danza come nel linguaggio della Scrittura: i passi biblici. Non possiamo che rinviare velocemente alla bella immagine della passeggiata per la Scrittura: per quei luoghi frequentati e amati, più che studiati, che permetterebbero a ogni credente di orientarsi nell’ampiezza dei singoli libri per avere con sé riferimenti cui attingere nel cammino della vita.
Due sottolineature
A Marcello Neri è stato affidato il compito di riprendere le relazioni e il dibattito aprendo ulteriormente la ricerca. Senza pretese di organicità due sottolineature: l’aspetto performativo della danza. Essa c’è solo quando c’è, è ripetibile solo se di nuovo produce danza, e non è mai dimentica a se stessa. E di rimando è così anche per il cristianesimo, in cui ne va un po’ della sua specificità. Il cristianesimo è innanzitutto il vivere cristiano, la liturgia è innanzitutto la liturgia; enfatizzare la preparazione doverosa alla liturgia come al vivere cristiano, indicare sempre il destino dell’azione liturgica, il motivo, come più in generale del vivere cristiano, toglie al cristianismo la capacità di caricare di senso il qui e ora dell’esistenza di ciascuno. E mi sembra di poter aggiungere quanto sia efficace per la vita consacrata questa sottolineatura. Le varie forme di vita religiosa trovano qui la preziosità della loro gratuità: è il vivere cristianamente che attira, non il possibile esito, anche quando questo ha la forma della più alta carità.
E poi la preziosa considerazione per cui tra arte e Chiesa possiamo pensare un circolo virtuoso: l’arte contemporanea vive del linguaggio legato alla vita cristiana, senza cercarne consapevolezza. E però potrebbe continuare a impiegare un linguaggio se questo smettesse di forgiare l’esistere di uomini e donne? L’esperienza del cristianesimo, del vivere cristiano non è forse importante perché tutti possano riconoscere momenti del vivere utilizzando i suoi codici?
E d’altra parte non è questo che rende possibile sentire il vivere cristiano ospitato da espressioni artistiche che non nascono come confessionali, o con volontà testimoniale?
L’umano che l’arte esprime, i suoi drammi e le sue gioie sono quelli di ciascuno di noi e per questo l’arte riesce comunque a coinvolgerci, anche quando non ne capiamo immediatamente le forme. E le domande che essa suscita portano in sé anche quelle del nostro tempo, che sono anche quelle che rivolgiamo a Dio, alla Scrittura e alla vita della Chiesa. L’arte ci aiuta a cogliere la profondità del nostro sentire.
In ogni caso i passi dicono di un andare, di cuori che hanno deciso il santo viaggio, come la precedente traduzione della CEI del Sal 84,6.
Tener aperto il passaggio tra arte e Chiesa nell’ascolto e nell’ospitalità reciproca non è questione accademica. La testimonianza cristiana trova una via particolare per uscire e servire la ricerca degli uomini e delle donne contemporanei, a patto che seriamente ne apprezzi la ricerca, la condivida e ne faccia occasione per interpellare la Parola.
sr. Elsa Antoniazzi