Chiesa dalle genti
2018/12, p. 6
Si è trattato di un cammino intenso durato circa un anno,
in cui si sono voluti elaborare, attraverso un metodo
sinodale, gli orientamenti pastorali per riconoscerci come
popolo santo di Dio, formato da fedeli di diverse culture
e nazioni.
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Testimoni
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Il sinodo minore della Chiesa ambrosiana
“CHIESA
DALLE GENTI”
Si è trattato di un cammino intenso durato circa un anno, in cui si sono voluti elaborare, attraverso un metodo sinodale, gli orientamenti pastorali per riconoscerci come popolo santo di Dio, formato da fedeli di diverse culture e nazioni.
Lo scorso 3 novembre nel duomo di Milano, con una festosa partecipazione di un popolo multietnico, con il pontificale presieduto dall’arcivescovo Mario Delpini, si è chiuso il sinodo minore della Diocesi ambrosiana dedicato alla “Chiesa dalle Genti”. Si è trattato di un cammino intenso durato circa un anno, in cui si sono voluti elaborare, attraverso un metodo sinodale, gli orientamenti pastorali per riconoscerci effettivamente ed affettivamente come popolo santo di Dio, formato da fedeli di diverse culture e nazioni.
Sia il cardinale Martini che il cardinale Tettamanzi avevano insistito sull’importanza di cogliere l’opportunità delle immigrazioni come occasione decisiva per rivedere il volto della Chiesa ambrosiana. Il cardinale Angelo Scola nei suoi anni di episcopato milanese ha parlato di“meticciato di civiltà e di culture” per descrivere il mescolamento di popoli in atto in forza dei movimenti migratori dalle proporzioni inedite che caratterizzano il nostro tempo. Si tratta di una metafora molto ardita che trascrive a livello culturale il meticciamento dei popoli latino-americani con i conquistadores delle Americhe all’inizio dell’epoca moderna. Con ciò non si intende una opzione politica da compiere, ma un processo in atto, che occorre riconoscere e guidare, con evidenti ricadute anche sulla vita della Chiesa.
Tuttavia, il sinodo minore voluto dall’arcivescovo Mario Delpini non si è dedicato innanzitutto al tema dei migranti, ma ha riflettuto su cosa voglia dire per la Chiesa ambrosiana riconoscere a pieno titolo come propri fedeli le migliaia di cattolici presenti sul territorio diocesano, provenendo da diverse nazioni, arrivati ormai alla seconda e terza generazione. Si tratta di persone che si sentono in effetti italiane, avendo lavoro e abitazione sul nostro territorio da lungo tempo. Tuttavia dal punto di vista ecclesiale spesso non sono integrate nella vita della Chiesa.
Allo scopo di maturare delle linee pastorali adeguate, sotto la regia di una commissione di esperti guidata da mons. Luca Bressan, si è svolta un’ampia consultazione su tutto il territorio diocesano. Particolarmente coinvolti nel processo sinodale sono stati il consiglio pastorale diocesano e il consiglio presbiterale, che hanno potuto usufruire dei suggerimenti provenienti dalle parrocchie, associazioni e movimenti. Attraverso il documento preparatorio e lo strumento di lavoro si sono svolti su tutto il territorio diocesano incontri e dibattiti su come essere oggi Chiesa dalle genti.
La vita consacrata
laboratorio di comunione
Nel processo sinodale un ruolo sorprendente è stato riconosciuto alle persone consacrate. Il documento conclusivo, approvato dall’assemblea congiunta del consiglio pastorale diocesano e presbiterale, ha dato ampio spazio al valore della vita consacrata, definita come un vero e proprio “laboratorio di comunione”. La stessa vita consacrata è stata coinvolta nel processo sinodale non solo attraverso i propri membri presenti nei consigli diocesani, ma anche attraverso una consultazione fatta sul territorio nelle diverse comunità di vita consacrata. Per capire l’importanza della vita consacrata in questo processo occorre riflettere su alcuni fenomeni rilevanti: innanzitutto il fatto che da tempo gli istituti tradizionalmente presenti sul territorio diocesano stanno dando origine a vere e proprie comunità interculturali. Consacrati di diversi continenti, condividendo lo stesso carisma, formano comunità in cui sperimentare, non senza fatiche, la reciprocità feconda delle differenze. Nella diocesi di Milano ci sono circa 4500 suore e 1000 religiosi (oltre a 600 membri di istituti secolari); si può dire che ormai almeno un consacrato su dieci non è italiano. Inoltre, sono in rapido sviluppo comunità di vita consacrata di istituti nati in altri continenti, formate interamente da persone non italiane. Sono ormai 80 le comunità di questo tipo operanti sul territorio della diocesi. Queste persone consacrate si inseriscono nelle parrocchie, negli oratori, nelle scuole, negli ospedali e nelle opere di carità.
Una presenza
originale
Nelle risposte dei consacrati ai questionari preparati per il sinodo sono emerse alcune indicazioni che il documento sinodale ha sostanzialmente recepito. Una prima osservazione riguarda il valore dei diversi carismi di vita consacrata che hanno capacità di aggregare persone di culture diverse. Vivere insieme tra persone di provenienza culturale differente testimonia in modo singolare l’essere Chiesa dalle Genti. È chiaro che ad una tale interculturalità non ci si improvvisa; chiede profonda revisione della formazione. Non si tratta certo di spostare indiscriminatamente persone da una parte all’altra del mondo con un criterio di mera supplenza, ma di costruire percorsi formativi che permettano questo vicendevole arricchirsi in forza dell’appartenenza ad una storia carismatica condivisa. Se la presenza di persone consacrate provenienti dall’estero può essere occasionata dal calo delle vocazioni in Europa, tuttavia la loro presenza è portatrice di un dono originale che va riconosciuto, custodito e promosso. Per questo il sinodo ha raccomandato che l’arrivo di comunità di vita consacrata sul territorio diocesano sia adeguatamente preparata, perché le comunità cristiane comprendano il senso della loro presenza e della loro testimonianza di vita, che non può certo essere ridotta a una attività da svolgere. La vita consacrata non è manovalanza a buon mercato ma presenza originale di testimonianza evangelica. Anche qui valgono le parole di Sacramentum caritatis: “Il contributo essenziale che la Chiesa si aspetta dalla vita consacrata è molto più in ordine all'essere che al fare” (SC a 81).In effetti, in un mondo sempre più “misto”, la testimonianza di persone consacrate di diverse culture che vivono insieme, condividendo la stessa spiritualità, possiede una grande valenza ecclesiale e sociale. Il sinodo minore ha poi riconosciuto che queste persone consacrate possono svolgere un’autentica mediazione culturale con gli immigrati. Possono aiutare a capire problemi, risorse e indicare concreti percorsi di aiuto. Per tutti questi motivi è stato chiesto che la diocesi valorizzi adeguatamente la loro presenza negli organismi rappresentativi ai diversi livelli, dal consiglio pastorale diocesano ai consigli parrocchiali, fino alle diverse consulte.
Alcune criticità
e loro affronto
Oltre a sottolineare le grandi opportunità che la presenza interculturale nella vita consacrata può comportare, nelle osservazioni giunte dalla consultazione non sono mancate criticità. Quella maggiore è costituita certamente dal rischio che le persone consacrate provenienti da altri paesi vengano impiegate solo in lavori secondari, di mera assistenza, senza assumere responsabilità. Una tale collocazione è del tutto inadeguata. Si deve evitare che queste persone abbiano solo un ruolo passivo. Il documento finale ha recepito questa preoccupazione e ha formulato la richiesta che il vicario episcopale per la vita consacrata segua adeguatamente tutto il processo di inserimento nella diocesi, verificando che vi siano effettivamente le condizioni per una vera presenza nel tessuto ecclesiale. Tutto ciò implica, ad esempio, che venga curata la formazione previa di coloro che vengono a vivere e ad operare in diocesi; che si curino le convenzioni perché le comunità abbiano quanto necessario per vivere la propria vita di consacrazione, tempi di preghiera, di formazione e di riposo; occorre verificare che vi sia giusta retribuzione per il lavoro che viene svolto.
Il vicario deve anche vigilare perché le persone consacrate che provengono da altri paesi siano adeguatamente valorizzate nel tessuto diocesano ed evitino di essere relegate in lavori non corrispondenti al proprio carisma. Un altro elemento emerso dalle risposte al questionario sinodale è l’impatto che le persone consacrate provenienti da altri paesi europei hanno con la società europea. In particolare, è stata messa in evidenza la sorpresa amara che sorge nel vedere i segni diffusi della secolarizzazione. Spesso le nazioni di origine di questi fratelli e sorelle sono molto religiose, possiedono un profondo senso del sacro e della spiritualità, coltivano il valore della famiglia e delle relazioni parentali. Prendendo contatto con la nostra società si rendono faticosamente conto dei processi che hanno portato alla separazione tra fede e vita, tra vangelo e cultura, della debolezza delle relazioni familiari e dallo sfrenato consumismo. L’impatto con la società postmoderna, caratterizzata da individualismo e frammentarietà, può disorientare i religiosi provenienti da altre culture, provocando a volte anche sconcerto. Per questo è decisivo garantire a tutti i consacrati che vengono ad operare sul territorio diocesano una adeguata formazione circa il contesto culturale che deve essere incontrato. Questa esigenza potrebbe essere considerata in analogia a quanto devono fare i missionari che vanno a svolgere il loro ministero ad gentes per portare il vangelo là dove non è ancora giunto o in aiuto a giovani Chiese. Non è pensabile oggi un missionario che si dedichi alla missio ad gentes senza prepararsi adeguatamente in relazione al contesto su cui dovrà operare; allo stesso modo queste persone consacrate che vengono in aiuto alle nostre Chiese devono conoscere adeguatamente le caratteristiche della nostra società per poter in essa interagire. È necessario che studino le tradizioni della nostra Chiesa locale e le scelte pastorali di fondo per poterle assumere e apportare in esse il proprio contributo creativo.
Infine è stato fatto notare che impostato in tal modo il rapporto tra vita consacrata, Chiesa locale e territorio, esso chiederà un ripensamento anche della vita consacrata stessa. In buona sostanza, il sinodo minore sulla Chiesa dalle genti ha in sé indubbiamente una grande spinta alla riforma della Chiesa, a quella “conversione pastorale” tanto raccomandata da papa Francesco fin dall’inizio del suo pontificato. Tale riforma non potrà che riguardare anche la vita consacrata, nel suo rapporto con la società e la Chiesa locale, ma anche nella concreta prassi della vita fraterna e dei consigli evangelici, che occorre vivere più che mai oggi come “terapia spirituale”(VC 87) per il nostro tempo e come profezia di un modo nuovo di abitare questa terra alla luce del vangelo.
Concludo ricordando che il primo frutto del sinodo minore è stata l’attivazione, a partire da quest’anno, di un corso di introduzione della vita consacrata nella Chiesa particolare in cui fare emergere queste tematiche ed affrontarle in modo sistematico.
mons. Paolo Martinelli