Papa Francesco
Le risposte di Francesco
2018/12, p. 1
Un autore, il clarettiano spagnolo Fernando Prado, quattro ore di conversazione (il 9 agosto 2018), un libro di 120 pagine e un argomento bene espresso dal titolo: La forza della vocazione. La vita consacrata oggi.

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Libro-intervista sulla vita consacrata
LE RISPOSTE
DI FRANCESCO
Un autore, il clarettiano spagnolo Fernando Prado, quattro ore di conversazione (il 9 agosto 2018), un libro di 120 pagine e un argomento bene espresso dal titolo: La forza della vocazione. La vita consacrata oggi.
A pochi giorni dall’uscita del volume (in italiano dalle EDB) riprendiamo alcune delle risposte del papa, rimandando alla agevole e intrigante lettura dell’intero testo. Si tratta della più leggibile ed efficace sintesi del pensiero del papa sulla vita religiosa.
La stagione del sospetto
«Non si può negare che c’era un ambiente abbastanza rarefatto, poiché anni prima si era creata una certa reazione in alcuni settori della Chiesa contro il modo in cui si stava realizzando il necessario rinnovamento della vita consacrata che il concilio aveva richiesto. Era una reazione anche molto dura in alcune persone di alto rango nella gerarchia. E invece di accompagnare la vita consacrata con pazienza, hanno creduto di doverla disciplinare. Si arrivò a dire che alcune delle nuove congregazioni, di taglio nettamente conservatore, erano quelle che esprimevano meglio la vita consacrata. Lo dico con vero dispiacere ma, curiosamente, su varie di queste congregazioni – soprattutto su quelle che si distinguevano maggiormente – si è dovuto intervenire, perché si è visto che erano seriamente afflitte da problemi e corruzione. Uno di quelli che credevano nella necessità di accompagnare meglio la vita consacrata, invece di disciplinarla, era l’attuale cardinale Tobin (Joseph Villiams Tobin, ex-segretario della Congregazione dei religiosi, ora vescovo di Newark – USA, ndr.). Quando ho preso possesso della sede petrina ho voluto in qualche modo tornare a rafforzare quello che, sulla linea del suo predecessore, mons. Gardin (Giafranco Gardin, vescovo di Treviso, ndr.), aveva fatto anche mons. Tobin. Di fronte a quelli che pensavano: «Questi religiosi sono tutti pazzi», ho sempre pensato che non serviva la frusta, e che l’unico modo di disciplinare la Chiesa è servendosi del vangelo. Oggi, dopo un po’ di tempo, credo che viviamo tempi più sereni in questo ambito. Nella vita consacrata, come succede anche in altre realtà della Chiesa, vi sono sempre conflitti e questioni sulle cose che occorre portare avanti e migliorare. I conflitti fanno parte della realtà. Non c’è motivo per negarli. Camminiamo, invece, per superarli. Questa è la cosa importante: camminare, camminare sempre in avanti. In definitiva, quando sono giunto al soglio di Pietro ho trovato che la vita consacrata si stava riprendendo molto bene».
Oltre il quadrante
europeo
«Qui non c’è dubbio che ci troviamo di fronte a una «diseuropeizzazione» della Chiesa. Le congregazioni sono andate in missione, per creare… e vi sono rimaste, creando comunità feconde dalle quali sono nate le loro proprie vocazioni. La Chiesa si sta progressivamente «diseuropeizzando», nel senso buono della parola. Una «diseuropeizzazione» che sta dando frutti con Chiese locali forti, Chiese particolari con un’identità forte e concreta. Ne è un esempio l’India, che ha anche una teologia propria e concreta. In Asia comincia a esserci un pensiero teologico forte. Anche le Filippine sono un esempio chiaro di questo sviluppo. In Africa forse il processo è stato un po’ più lento, ma si distingue, per esempio, per l’impressionante ricchezza liturgica. In definitiva, stiamo parlando del fatto che la vita consacrata si incarna. Credo che sia una delle cose più belle della vita consacrata: la sua facilità nell’incarnarsi. Ricordiamo tanti missionari e missionarie che sono andati in missione e sono finiti con l’essere ben incarnati. Possiamo pensare a padre Damiano di Molokai, per esempio. Si tratta di un caso di incarnazione estrema: non ti sembra? O pensiamo a tante altre persone consacrate che muoiono con il loro popolo e riempiono i cimiteri, come raccontava il cardinale Hummes».
«In tale questione c’è stata qualche ombra, evidentemente. Non sono state tutte luci in questi ultimi anni. Vi sono state alcune tentazioni in tutto questo. Per esempio, si è avuta la tentazione di andare ai pozzi petroliferi delle vocazioni. Ricordo lo scandalo che scoppiò nel 1994, quando eravamo al sinodo per la vita consacrata. La Conferenza dei vescovi delle Filippine pubblicò una lettera nella quale si proibiva alle congregazioni femminili di prendere vocazioni da quel paese, obbligando a fare lì la formazione iniziale (noviziato e juniorato), senza portarle via».
«A prescindere da anomalie come quelle di cui ho appena parlato, credo che questo processo di internazionalizzazione della vita consacrata sia determinante. Non è una cosa nuova, ma certamente si sta rendendo sempre più evidente un volto nuovo della Chiesa. Negli istituti ormai non è raro vedere superiori o superiore generali che provengono da altri continenti. Guarda, per esempio, il caso del tuo superiore generale, padre Vattamattam, nato in India, che è un grande uomo, senza dubbio. È un uomo che mantiene un’ammirevole bontà naturale. Quando ho parlato con lui, mi ha impressionato molto, soprattutto per l’amore e la tenerezza con cui ha trattato un caso particolare. Credo che siate fortunati, voi clarettiani: con lui avete vinto la lotteria. È chiaro che la provenienza di superiori e superiore generali da continenti non più europei od occidentali è una realtà che diviene sempre più grande. E questa è una buona notizia, che viviamo con gioia. La Chiesa sta rendendo sempre più visibile questo cambiamento di volto, frutto della sua storia e della meraviglia dell’evangelizzazione».
Carisma
e opere
«… È vero che, molte volte, ci vediamo con strutture pesanti e grandi – grandi collegi, università, ospedali, progetti di molti tipi – ma con poche forze, con pochi religiosi. E allora dovremo fare discernimento. Dovremo distinguere tra opere e lavori. Non tutti i lavori sono opere. A volte le opere ci hanno schiacciato, certamente. Ma occorre fare discernimento. Non si tratta neanche di gettare tutto dalla finestra. Alcuni dicono: «Chiudiamo i collegi». No, aspetta! Introduciamo qui il discernimento e vediamo come possiamo fare in maniera che i collegi rispondano alle sfide sociali ed ecclesiali di oggi. L’educazione è importante. Considera bene come puoi portare avanti il collegio… e lo stesso con altre opere.
Certamente, in molte occasioni le opere ci hanno tradito. Quando si dà troppa importanza alle opere, resta molto nascosta la forza del carisma. Tutto questo è strettamente unito all’elemento del dialogo con il mondo. Le opere devono essere una conseguenza di tale dialogo. Dobbiamo chiederci, per esempio: «È necessaria oggi l’educazione? Sì. Sono necessari i collegi? Sì. Come porto avanti un collegio?». Queste sono domande che bisogna farsi con chiarezza e a cui si deve rispondere con sincerità. Se, invece, alla fine devo continuare a sopravvivere e a tappare buchi in una grande struttura che mi è servita cinquant’anni fa, ma di cui ora non vedo l’utilità, allora sto sprecando e facendo svanire la ragione dell’opera e la vita consacrata che vivo».
Religiosi
e Chiesa locale
«Evidentemente nei capitoli e nelle assemblee la vita consacrata deve fare discernimento sulla sua vita e la sua missione. Ma il discernimento non si fa sul nulla, si deve fare sempre sul concreto. E se in un capitolo dobbiamo decidere su una comunità o un apostolato, dobbiamo fare il discernimento sul serio, tenendo conto di tutte le ragioni e le variabili. Il discernimento non dobbiamo farlo solo con noi stessi. Dovremmo parlare con i pastori del luogo e inserirli in ogni discernimento. Non possiamo escluderli.
L’autonomia di funzionamento per alcune questioni della vita consacrata va intesa bene. Dobbiamo sempre intenderla nell’ambito del bene di tutta la Chiesa. Dobbiamo integrare i pastori nel nostro discernimento. Certo, vi sono anche casi in cui i pastori non sono capaci di discernere. Esistono anche persone consacrate che si mostrano incapaci di farlo. In questi casi direi che si deve fare ciò che si può, ma i pastori locali devono essere sempre integrati nella selezione dei ministeri e nelle scelte per il futuro delle persone consacrate nella loro diocesi, indipendentemente dalla capacità di discernimento. Soprattutto, quando si tratta di cambiamenti profondi e importanti. I pastori locali devono essere sempre integrati. Non si può andare da loro con una letterina, dicendo: «Guardi che l’anno prossimo ce ne andiamo». Con quale diritto? O come fanno alcuni, che dicono: «Lasciamo la parrocchia, ma restiamo con il collegio». Con quale diritto? Può darsi che nel discernimento con il pastore, alla fine non si arrivi a un accordo soddisfacente, ma loro non devono mai restare esclusi da questo discernimento».
Vocazione
per esposizione profetica
«È una domanda (sulle nuove vocazioni ndr.) a cui è difficile rispondere. È ampia e complessa. Io direi: dipende. Dipende sempre (e qui invento un’espressione) dall’«esposizione profetica» che ha la vita consacrata. Voglio dire che dipende dalla forza mostrata dalla vita consacrata di arrivare al cuore di una persona giovane che voglia seguire il Signore per questo cammino. E la forza della vocazione si traduce sempre in gioia. Se non c’è forza in questo modo di vivere il carisma fondativo, la vita consacrata non riesce a richiamare nessuno, o tutt’al più potrebbe richiamare gente squilibrata o malata, che è un altro dei problemi gravi nell’ingresso nella vita consacrata, poiché vi sono alcuni che cercano un rifugio nella vita consacrata. Quando la vita consacrata ha forza in coloro che la vivono, arriva al cuore dei giovani, si infiammano, capiscono il messaggio ed entrano».
Per sempre?
«Ma la stessa cosa avviene anche con il matrimonio, non ti sembra? Quando il “per sempre” è debole, qualunque ragione vale per abbandonare il cammino cominciato, per la separazione. Se questo non va, poi me ne prendo un altro, me ne prendo un’altra… Sono molti oggi che procedono così nella vita. Anche nella vita consacrata esistono la vita parallela, la doppia vita, o i sotterfugi… o, semplicemente, me ne vado e basta. Il “per sempre” oggi è molto difficile. Le motivazioni non sono forti. Ciò vale per il matrimonio, per la vita consacrata o per il sacerdozio, e presuppone tutta una pedagogia previa, un cammino di maturazione. Un vescovo mi raccontava che gli si era presentato un giovane al termine degli studi universitari e gli aveva detto: «Voglio essere prete, ma per dieci anni». Immaginati! È la cultura di oggi. Stiamo vivendo nella cultura del provvisorio».
Ars vivendi
«Una delle cose che cercò di entrare di moda alcuni anni fa nella vita consacrata europea fu questa faccenda dell’ars bene moriendi. Conosco due istituti religiosi, due province, che fecero questa scelta. In tali province decisero di chiudere il noviziato. Se per caso si presentava uno che voleva entrare, lo mandavano in un’altra provincia, perché loro non lo ricevevano: «Vada da un’altra provincia: qui non si riceve più». In uno di questi istituti arrivò un nuovo superiore generale, che riuscì a invertire la situazione, ma ce ne volle. È una convinzione profonda in alcuni: «Non serve più a nulla… Allora, cerchiamo di morire bene, con dignità». Vi sono stati anche alcuni istituti femminili che hanno fatto questa scelta. Non sono cattivi religiosi o religiose, ma si erano profondamente convinti di essere gli ultimi. Non avevano il coraggio di avere figli. Questa, che è una cosa che a prima vista potrebbe apparire onesta, poi, in fondo, rivelava che si cercavano altri tipi di sicurezze, forse più mondane. E la cosa più tipica è la sicurezza dei soldi. Alcune congregazioni iniziano a vendere proprietà per avere del denaro «per qualsiasi evenienza». È una cosa che ho visto in varie congregazioni. È il rifugio nel denaro: si vendono le proprietà e si va accumulando denaro per avere poi una vecchiaia sicura, per poter pagare la gente che li accudisce. Questo è grave. È un modo di fare che ho rinfacciato alla vita consacrata in più di un’occasione, perché tocca nel vivo il problema della povertà, che, per me, è assolutamente decisivo».
Sii integro
Non mi arrischierei a parlare ora di un’opzione (dei poveri, dell’evangelizzazione, della fraternità ecc. ndr.) chiara nel tempo. Credo che la risposta forse più semplice sia quella che si trova nella mia esortazione apostolica Gaudete et exsultate, quando ricordo le parole del libro della Genesi, con cui il Signore, rivolgendosi ad Abramo, dice: «Cammina alla mia presenza e sii integro». Ossia, si tratta di camminare alla presenza di Dio, sentire che stiamo camminando dove ci porta lui, lasciandoci guidare dalla sua promessa. Questa deve essere la base di ogni opzione attuale nella Chiesa. Camminare con lui, facendo quello che lui ci comanda. Camminare, camminare sempre.
Io metterei in risalto questa come opzione portante per la vita consacrata di oggi. Se la vita consacrata non cammina, allora ha perso. Se non cammina nella presenza di Dio, ha perso. E se cammina, ma senza cercare una perfezione, senza essere «integra», anche allora ha perso. Poi si faranno le diverse opzioni. Tra queste, è chiara quella per i poveri. Sono loro il centro del vangelo. Nessuno può esimersi da questo. C’è stato forse un tempo in cui è stato necessario accentuarla, perché sembrava più trascurata, ma oggi questa opzione è un fatto indiscutibile. Credo che alla base di ogni vera opzione della vita consacrata ci siano queste parole: «Cammina alla mia presenza e sii integro».
Donna
e religiosa
«L’ho detto in altre occasioni. La religiosa, proprio come gli uomini, è stata chiamata per servire. Servire è la nostra caratteristica. Servire con la maiuscola. Tuttavia, purtroppo, nell’immaginario collettivo le religiose sono state spesso considerate ingiustamente di secondo livello e, a volte, le si è utilizzate come servitù. Quando vedo, per esempio, che vi sono chierici con due o tre religiose al loro servizio – sebbene le si paghi il dovuto –, mentre ci sono tante altre donne che hanno bisogno di lavorare, non mi piace. Direi loro: «Dite alle suore di tornare a lavorare nella loro congregazione, con il loro carisma, e date il lavoro ad altre persone che possano fare le faccende di casa». Credo che questi, in fondo, siano i resti di una certa mentalità di «principismo», che abbiamo qua dentro (e indica la sua testa). Non è una mentalità corretta. Utilizzando le religiose come personale di servizio particolare, quando non è qualcosa che le è proprio, forse si sta negando loro la propria vocazione e il proprio carisma. Credo veramente che dobbiamo camminare verso un sempre maggiore riconoscimento della dignità della donna nel mondo e anche nella Chiesa. Progredire nell’uguaglianza è una cosa buona. E tuttavia nemmeno le religiose che assumono stili maschili mi convincono del tutto. Non è necessario smettere di essere donne per diventare uguali».
Papa Francesco