I santi ricchezza per l'umanità
2018/11, p. 39
Le canonizzazioni del 14 ottobre scorso e le beatificazioni dell’8
dicembre prossimo hanno una rilevanza particolare in questo momento
storico, nella vita sociale ed ecclesiale. L’impronta indelebile lasciata con
la loro vita, è un messaggio forte ed attuale.
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Una Chiesa di santi
I SANTI RICCHEZZA
PER L’UMANITÀ
Le canonizzazioni del 14 ottobre scorso e le beatificazioni dell’8 dicembre prossimo hanno una rilevanza particolare in questo momento storico, nella vita sociale ed ecclesiale. L’impronta indelebile lasciata con la loro vita, è un messaggio forte ed attuale.
San Paolo VI è stato indicato da Papa Francesco come testimone di bellezza e gioia nel seguire Gesù pur nella fatica e nelle incomprensioni, sull’esempio dell’Apostolo del quale assunse il nome. «Come lui ha speso la vita per il Vangelo di Cristo, valicando nuovi confini e facendosi suo testimone nell’annuncio e nel dialogo, profeta di una Chiesa estroversa che guarda ai lontani e si prende cura dei poveri.Oggi ci esorta ancora, insieme al Concilio di cui è stato il sapiente timoniere, a vivere la nostra comune vocazione: la vocazione universale alla santità. Non alle mezze misure, ma alla santità».
San Oscar Romero, immagine del Buon Pastore che dà la vita per le sue pecore ed esempio di predilezione per i più poveri e bisognosi, si è fatto voce di chi non aveva voce, contrastando con coraggio e radicalità le più crudeli forme di “dittatura cristiana”.
I monaci di Tibhirine hanno vissuto in dialogo con i musulmani, segni di semplicità e di misericordia, nell’esercizio quotidiano e fedele del dono di sé; non sono fuggiti di fronte alla violenza ma con le armi dell’amore hanno combattuto il fondamentalismo islamico.
Se la spiritualità di ogni persona, intendendosi con ciò il suo rapporto individuale e privato con il Signore, resta un mistero ineffabile e pressoché insondabile, quasi a garanzia di una sfera, quella della coscienza, conoscibile solo a Dio in quanto «primo vicario» suo, per dirla con il beato John Newman, a questo mistero ci è dato di avvicinarci – restando sempre sulla sua soglia – se veniamo a considerare le vite di personaggi illustri i quali, anche per il ruolo pubblico da loro esercitato, non hanno potuto sottrarsi alla benevola curiosità soprattutto di quanti li hanno amati e profondamente stimati.
PAOLO VIE ALDO MORO
Obbedienti alla «chiamata»
Pure di recente si è scritto che, a quanti incontravano il beato Paolo VI, questi dava la forte impressione di non avere altri interessi che non fossero quelli del regno di Dio. Da suoi appunti, da poco pubblicati, risulta evidente quanto la dimensione orante fosse presente alla mente di Paolo VI e come ne informasse tutto l’agire nella sua impareggiabile missione di successore di Pietro.
Ad esempio, nel preparare un’omelia – Paolo VI, è noto che fin quasi alla vigilia della sua dipartita terrena redigesse lui stesso, da solo, le proprie prediche e catechesi – il santo pontefice rilevava che, come primo passo, fosse necessario pregare e pregare a lungo, evitando che il sacerdote, dal sommo al più piccolo, predicasse se stesso e non la parola e la volontà del Signore.
Quanto al prof. Moro, era sufficiente osservarlo nei momenti della sua orazione in occasione della santa messa, a cui non mancava mai. Era il suo un immergersi in Dio, per riprendere forze ed energia, per essere in grado di servire gli altri, seguendo quello che la coscienza gli suggeriva, come lui stesso mi diceva. Quando, abbastanza di frequente, veniva ad incontrare noi studenti del Collegio Capranica, ricordo come manifestasse gioia nel ricevere in dono qualche volume di teologia sulla Chiesa, sul dopo-Concilio, sulla storia della Chiesa e, immancabilmente, dicesse: «Grazie di cuore, perché non si può mai considerare concluso il nostro cammino di fede e di intelligenza della Parola di vita. Infatti – diceva, parafrasando sant’Agostino – una fede non pensata e studiata non è pienamente fede».
A parte la consuetudine di un’intera vita sostenuta da una profonda, reciproca amicizia, iniziata allorché il giovane Aldo Moro fu chiamato alla Presidenza della FUCI (Federazione universitari cattolici italiani), è lecito individuare dei tratti che più avvicinano queste due grandi personalità – papa Paolo VI e Aldo Moro – nel loro agire, imperniato sul binomio fede e cultura, in costante ascolto della storia.
Se, come è ovvio, papa Montini nello scegliere e nel decidere la strada del sacerdozio ha risposto alla vocazione, alla chiamata rivoltegli dal suo Signore, anche per il giovane Moro penso si possa, non senza ragione, parlare di chiamata a servire nella vita politica di cui si rese interprete autorevole l’allora arcivescovo di Bari, Marcello Mimmi, poi cardinale arcivescovo di Napoli, invito, chiamata che A. Moro accettò non senza qualche interiore resistenza dovendo, in qualche misura, limitare il proprio impegno universitario. Il suo, pertanto, fu un aderire ad una proposta in spirito di piena, filiale obbedienza ai disegni della Provvidenza.
L’importanza della formazione
È noto con quanto zelo e con quanta dedizione mons. Giovanni Battista Montini si sia dedicato alla formazione umana, spirituale e intellettuale dei giovani e delle giovani della FUCI. Credo che non lo si ringrazierà mai abbastanza per non aver mai abdicato a questa opera educativa – anche quando per i gravi impegni in Segreteria di Stato dovette lasciare la guida dell’Associazione – che non poco contribuì a preparare una futura classe dirigente competente e responsabile alla quale sarebbe stato chiesto molto, dopo la fine della dittatura fascista, per risollevare le sorti umane e civili dell’Italia uscita pressoché distrutta dalla 2ª guerra mondiale.
Mons. Guido Mazzotta, relatore ad casum della causa di beatificazione di G.B. Montini, di recente, ha affermato: «Paolo VI fu prima di tutto un pastore, un direttore spirituale, a cui stava a cuore l’educazione dei giovani. Ad esempio, quando io ero assistente della FUCI, molto spesso mi chiamava per chiedere che tipo di lavoro si stava facendo con i “suoi” universitari».
Parallelamente, per Aldo Moro si sa quanto fosse interessato ai propri studenti della Facoltà di scienze politiche a La Sapienza. Non soltanto, dopo le lezioni, si intratteneva a lungo, per ore, con ciascuno di loro (lo scrivente fu uno di questi), si premurava di farsi dare da ognuno i recapiti telefonici e postali, con semplicità partecipava alle cene di laurea o ai matrimoni dei suoi allievi, rinunciando, magari, a qualche impegno istituzionale (posso ricordare che, pur avvertito solamente qualche giorno prima, non volle mancare alla mia ordinazione diaconale al Collegio Capranica e poi a quella sacerdotale nella parrocchia di Santa Prisca).
Nei nostri incontri spesso si soffermava sui miei studi e su quelli dei miei compagni seminaristi, insistendo non solo sulla necessità di prepararsi bene culturalmente, ma anche sul fatto che i nostri studi avessero un chiaro fondamento «antropologico» e una sensibile apertura ai problemi del mondo attuale, approfondendo la conoscenza e la storia dei vari movimenti sociali e politici non soltanto in Italia ma pure negli altri grandi paesi del mondo «divenuto ormai – sottolineava citando un teologo dell’epoca, Cox – talmente interconnesso da apparire come un villaggio globale».
La sua attenzione ai giovani, già rilevante sul piano degli studi (nella sua vettura furono rinvenute non poche tesi di laurea che egli si accingeva a leggere e poi a difendere), andava al di là coinvolgendo, con discrezione e delicatezza, la loro sfera spirituale. Non poche volte inviava da me dei giovani studenti perché io potessi seguirli spiritualmente.
Amore ai poveri
Un altro segno che può accomunare queste due grandi anime fu il loro costante amore per i poveri, per gli emarginati, per i fratelli più diseredati.
Il giovane diacono G.B. Montini scrisse una lettera in cui affermava di appartenere all’Ordine di Stefano e Lorenzo, con la missione di portare il pane agli affamati. E lo faceva letteralmente, come mi ha detto mons. Guido Mazzotta: «Quando, in occasione dei Patti Lateranensi, il regime fascista, in via riservata, chiese l’esilio a Londra di don Luigi Sturzo, la Santa Sede domandò come contropartita l’espulsione dall’Università di uno studioso della cerchia di Ernesto Buonaiuti. Ebbene, Montini lo andava a trovare ogni mese e, conoscendo le difficoltà in cui si dibatteva la famiglia, gli lasciava una busta con l’equivalente dello stipendio».
Sappiamo, poi, che questa predilezione montiniana per i poveri assunse una dimensione mondiale con la grande e tuttora attuale enciclica Populorum progressio, con la quale il pontefice si fece portavoce del grido di dolore e di disperazione di interi popoli della terra oppressi dall’indigenza e dalla miseria materiale e morale, indicando alla Chiesa e agli uomini di buona volontà la strada possibile per aprire vie nuove e inedite alla giustizia e alla convivenza pacifica delle nazioni.
Soprattutto quando ero viceparroco a Santa Lucia, in una parte disagiata del quartiere, ebbi modo di incontrare tante persone povere e afflitte da seri problemi sociali, le quali mi mostravano le lettere che Moro aveva scritto loro assicurando di interessarsi ai problemi che le assillavano. Venendo una volta in parrocchia per un incontro con i parrocchiani, mi fece sapere che volentieri avrebbe visto dette persone per salutarle e per rassicurarle. Cosa che avvenne con molta discrezione e tanta affabilità da parte sua.
Artefici del dialogo
Venendo ora a toccare brevemente alcuni aspetti dell’attività diplomatica della Santa Sede ai tempi di papa Montini e di A. Moro, ministro degli Esteri, credo che si possa sostenere come, accanto alla Ostpolitik vaticana, affidata da Paolo VI soprattutto alle mani prudenti e sagge dell’allora mons. Agostino Casaroli con l’intento – come una volta disse mons. Casaroli – di negoziare almeno un modus non moriendi per Chiese antiche e gloriose, ci sia stata, quasi in parallelo, una Ostpolitik portata avanti da Moro.
Numerose furono le sue visite in parecchi paesi della Cortina di Ferro (tra l’altro non vi era viaggio all’estero da cui non mi inviasse una cartolina di saluti) al fine, mi confidava, di aiutarli e sostenerli non tanto a spezzare il giogo loro imposto dalla Conferenza di Yalta, quanto per incoraggiarli a sviluppare itinerari educativi e formativi soprattutto per i giovani che sarebbero sopravvenuti e per la cui preparazione si premurava di cercare borse di studio in università occidentali.
E con diversi capi di detti paesi – mi diceva – era riuscito a stabilire rapporti di cordialità e di rispetto che andavano oltre le pur importanti formalità protocollari.
In altre parole, Moro, in questo suo operare discreto ma efficace, al pari di papa Montini, fu l’antesignano di un futuro del continente europeo che non fosse più immobilizzato da antagonismi soprattutto ideologici, allora ritenuti insormontabili.
Al riguardo, come non rammentare l’impegno di Moro per il successo della famosa Conferenza di Helsinki, dove, quasi gomito a gomito con la delegazione della Santa Sede, si adoperò per aprire crepe sostanziali e non di facciata tra i due blocchi a favore dei diritti umani, a iniziare da quello alla libertà religiosa?
Comprendere il futuro
Il guardare al futuro, l’interpretare i segni dei tempi per anticipare, in qualche misura, nuove stagioni della storia umana, credo che accomunasse sia papa Montini che A. Moro. Questi fu, credo, l’unico uomo politico italiano il quale, davanti ai fermenti pure violenti del ’68, cercò di «aprire» alle contestazioni per tentare di comprendere le richieste convulse ma sincere dei giovani.
Fui testimone del suo tentativo di percepire i termini di un cambiamento del mondo intero e del nostro paese in particolare, che la politica nel suo complesso faticava ad ascoltare e a decifrare. Egli sottolineava come fosse importante raccogliere quelle tante sollecitazioni, quelle grida di speranza che, seppure disordinate e incoerenti, non potevano essere ignorate.
Sull’altro versante, papa Montini non si stancava di ripetere che «la Chiesa ha bisogno della sua perenne Pentecoste» affinché il Vangelo trovasse continuamente nuove vie per portare luce e speranza all’intera famiglia umana e perché la Chiesa stessa guardasse al mondo non tanto per assecondarlo in suoi certi dinamismi incoerenti e lontani dalla fede, ma soprattutto per amarlo, non per giudicarlo e non per condannarlo.
Il Calvario dell’on. Aldo Moro
Il 16 marzo del 1978 l’on. Moro veniva brutalmente strappato alla sua famiglia, alla società civile e politica e, oserei dire, al mondo intero.
Iniziava così quello che lui stesso, in una lettera dalla prigionia indirizzata alla consorte Eleonora, definiva il «mio Calvario». Non è possibile tornare a quelle terribili settimane, conclusesi con la sua barbara uccisione, senza tenere presenti le sofferenze umane e spirituali da lui sopportate e solo in parte immaginabili.
Oltre che per lo stato di costrizione in cui egli era tenuto, l’on. Moro, come ci dicono anche le cronache di quei giorni, soffrì per l’incomprensione, per i rifiuti che i suoi accorati appelli ricevevano da quasi tutte le istanze politiche.
Paolo VI fu profondamente toccato dall’iniqua sorte del suo antico e amato allievo e, come risulta da tante carte processuali e d’indagine, si attivò in tutti i modi e con tutti i mezzi disponibili, per far uscire incolume e restituito ai propri cari dalla «prigione del popolo» l’on. Moro.
Memorabile resta la lettera del grande pontefice Agli uomini delle Brigate Rosse. Mai fino ad allora un papa si era messo in ginocchio per implorare la salvezza di una persona davanti a dei terroristi! Paolo VI sentì la tragedia di Moro come sua, come propria. La signora Eleonora Moro una volta mi disse che il papa le telefonava ogni giorno, per non far mai mancare né a lei, né ai famigliari la sua vicinanza, il suo conforto e la sua preghiera.
È noto che tutti i tentativi esperiti dal papa per soccorrere e salvare la vita di Moro non sortirono alcun effetto positivo.
In un’altra missiva, indirizzata alla moglie Eleonora, ma andata dispersa, l’on. Moro scriveva: «Ho solo capito in questi giorni cosa vuol dire che bisogna aggiungere la propria sofferenza alla sofferenza di Gesù Cristo per la salvezza del mondo».
Come dubitare che Paolo VI, in quelle strazianti settimane, non si sia unito nel ricordo e nella preghiera al suo amico, tentando di condividerne le sofferenze e aggiungendo le sue proprie a quelle di Cristo Signore?
Il grande pontefice, già sfibrato e ulteriormente colpito dall’iniquo destino riservato al suo amico — «quest’uomo buono, mite, innocente ed amico» (cf. la sua preghiera nella cerimonia a San Giovanni in Laterano)» — gli sarebbe sopravvissuto soltanto pochi mesi.
Mi piace concludere questa mia breve riflessione con un pensiero del grande arcivescovo di Milano, sant’Ambrogio. Questi, in un’omelia in morte di un proprio amico disse di lui: «Egli non è mai vissuto per sé ma soltanto per gli altri e per la Chiesa di Dio».
Credo che le parole di sant’Ambrogio siano più che adatte per sintetizzare, per quanto possibile, la vicenda umana, pastorale di papa Paolo VI che si spese fino all’ultimo per il bene della sua Chiesa e quella umana, spirituale e civile dell’on. Aldo Moro dedito fino in fondo, pure dal buio della sua prigione, al riscatto morale dell’infranta convivenza civile dell’Italia.
Antonio Mennini
Romero l’ultima omelia
La messa che mons. Romero stava celebrando il 24 marzo 1980, giorno del suo assassinio, era in ricordo del primo anniversario della morte di Sara Meardi de Pinto, madre di Jorge de Pinto, redattore ed editore del settimanale salvadoregno «El Independiente». Il vangelo letto in quell’occasione era Gv 12,23-26 (testo pubblicato da America, nostra traduzione dall’inglese).
Grazie a quello che Jorge ha scritto oggi nell’editoriale di «El Independiente» riesco, in un qualche modo, a capire le sue emozioni filiali in occasione dell’anniversario della morte della mamma. In particolare, posso intuire il suo spirito nobile, come aveva messo tutta la sua raffinata educazione e la sua gentilezza a servizio di una causa che è così importante oggi: la vera liberazione del nostro popolo.
Cari fratelli e sorelle, penso che questa sera non dovremmo solo pregare per il riposo eterno della nostra cara signora Sarita, ma soprattutto dovremmo fare nostro il suo messaggio a cui ogni cristiano deve dare forma e vita in maniera intensa. Molti non capiscono, e pensano che il cristianesimo non dovrebbe immischiarsi in queste cose. Ma, al contrario, avete appena ascoltato il vangelo di Cristo: nessuno deve amare se stesso tanto da evitare di coinvolgersi nei rischi che la storia ci chiede; coloro che evitano il pericolo perdono la loro vita, mentre quelli che vivono dell’amore di Cristo donano se stessi al servizio degli altri e vivranno. Come il seme di grano che muore, ma solo apparentemente. Se non morisse, rimarrebbe da solo. La mietitura arriva solo perché esso muore, perché permette a se stesso di essere sacrificato nella terra e distrutto. Solo distruggendo se stesso produce il raccolto.
Siamo ammoniti del fatto che guadagnare il mondo e perdere se stessi non porta nulla. Nondimeno, l’attesa di una nuova terra non deve indebolire, ma piuttosto stimolare il nostro impegno per rendere migliore questa terra dove cresce il corpo di una nuova famiglia. Un corpo che già adesso è in grado, in un qualche modo, di prefigurare il nuovo tempo.
E quindi, nella misura in cui il progresso temporale può contribuire a un migliore ordine della società umana, esso è impegno serio per il regno di Dio; anche se il progresso temporale deve essere distinto con attenzione dalla crescita del regno di Cristo. Perché dopo aver seminato il bene della dignità umana, della fraternità e della libertà in tutto il mondo secondo lo Spirito del Signore e seguendo il suo comandamento, possiamo riscoprire tutti i buoni effetti della nostra natura e del nostro impegno – ma puri da ogni macchia, illuminati e trasfigurati.
Poi, il Figlio consegnerà al Padre «un Regno eterno e universale. Un Regno di vita e verità. Un Regno di santità e grazia. Un Regno di giustizia, amore e pace» (prefazio della messa di Cristo Re). «Qui sulla terra il Regno è già presente, in mistero, ma, con la venuta del Signore, giungerà a perfezione» (GS 39).
Questa è la speranza che ispira noi cristiani. Sappiamo che ogni sforzo per migliorare la società, soprattutto una che è così segnata da ingiustizia e peccato, è uno sforzo che Dio benedice, che Dio desidera, che Dio ci chiede. E quando si trova gente generosa come Sarita, e il suo pensiero incarnato in Jorgito e in tutti coloro che si appassionano per questi ideali, allora si deve cercare di purificarli, certamente, di renderli cristiani, di rivestirli con la speranza di ciò che sta oltre.
Tutto questo li rende più forti, rendendoci sicuri che tutto quello che facciamo sulla terra, se nutrito di speranza cristiana, non fallirà mai. Lo ritroveremo in una forma più pura in quel Regno dove il nostro merito sarà l’impegno e la passione che abbiamo messo qui sulla terra.
Penso che aspirare a ciò non sia senza effetto in un tempo di speranza e lotta, nel giorno di questo anniversario. Ricordiamo con gratitudine questa donna generosa che fu capace di simpatizzare con le preoccupazioni di suo marito e suo figlio, e di tutti coloro che lavorano per un mondo migliore. Aggiungendo la sua parte, il suo chicco di grano, con la sua sofferenza. Oltre ogni dubbio, questa garantirà che il suo premio eterno sarà in proporzione di quel sacrificio e comprensione – di cui molti mancano in questo momento in El Salvador.
Cari fratelli e sorelle, vi prego: guardiamo a questi fatti in questo momento nella nostra storia con questa speranza, con questo spirito di donazione, di sacrificio, e facciamo quello che possiamo. Tutti possiamo fare qualcosa, quantomeno avere un senso di comprensione. La santa donna che ricordiamo questa sera, forse, non poteva fare molto in maniera diretta, ma ha saputo incoraggiare coloro che erano all’opera, ha simpatizzato con la loro lotta e soprattutto ha pregato.
Anche dopo la sua morte, lei manda un messaggio dall’eternità per cui vale la pena di impegnarsi, perché tutte queste attese di giustizia, pace e benessere di cui facciamo esperienza sulla terra si realizzano per noi se le illuminiamo con la speranza cristiana. Sappiamo che nessuno vive per sempre, ma quanti hanno messo nel loro impegno un senso di grande fede, di amore per Dio, di speranza tra gli esseri umani, sanno di trovarlo nello splendore di una corona che è premio sicuro per tutti coloro che si impegnano, disseminando verità, giustizia e gentilezza sulla terra. Non rimane qui ma, purificato dallo Spirito di Dio, è raccolto per noi e dato a noi per nostra compensa.
La santa messa, l’eucaristia, è in se stessa un atto di fede. Con questa fede cristiana sappiamo che in questo momento il grano dell’ostia è trasformato nel corpo di Cristo che ha dato se stesso per la redenzione del mondo; e che in questo calice il vino è trasformato nel sangue che è stato il prezzo della salvezza. Possano questo corpo immolato e questo sangue sacrificato per gli uomini essere il nostro nutrimento, cosi che noi possiamo offrire il nostro corpo e il nostro sangue alla sofferenza e al dolore – come Cristo, non per noi ma per rivelare al nostro popolo cosa vuol dire giustizia e pace.
Raccogliamoci, quindi, insieme intimamente, nella speranza e nella fede, in questo momento di preghiera per Sarita e per noi stessi…
A questo punto l’arcivescovo Romero viene raggiunto dal colpo fatale e si riversa a terra ferito mortalmente.
□
i monacidi Tibhirine
Il 26 gennaio scorso, papa Francesco, ricevendo in udienza il card. Angelo Amato, prefetto della Congregazione delle cause dei santi, ha autorizzato la medesima Congregazione a promulgare i decreti di beatificazione in cui viene riconosciuto il martirio dei servi di Dio Pietro Claverie, OP, vescovo di Orano, e di 18 compagni, religiosi e religiose, uccisi in Algeria dal 1994 al 1996, “in odio alla fede”, tra cui anche i sette monaci di Tibhirine (cf. anche l’articolo a p. 25).
Nei medesimi decreti vengono riconosciute le virtù eroiche della serva di Dio Maria Maddalena Delbrêl (1904–1964) e il martirio di Veronica Antal, laica dell’ordine francescano secolare, uccisa anch’essa in odio alla fede il 24 agosto 1958 ad Hălăuceşti, e di altri cinque servi/e di Dio.
I sette trappisti francesi del monastero Notre Dame de l’Atlas, nel nord dell’Algeria, erano stati rapiti – come avevano riferito i media del tempo – durante la guerra civile alla fine di marzo del 1996. Erano stati decapitati e le loro teste furono trovate alla fine di maggio dello stesso anno. L’assassinio fu attribuito a un gruppo di terroristi, ma alcune fonti hanno indicato come autori la polizia segreta algerina.
La loro vicenda ebbe un’ampia risonanza in tutto il mondo e suscitò una rinnovata emozione nel 2010 con l’uscita del film di Xavier Beauvois, “Deshommes de Dieu” (in Italia “Uomini di Dio”).
Mons. Claverie invece era stato ucciso, assieme al suo autista musulmano, settanta giorni dopo l’assassinio dei monaci in un attentato mentre rientrava in auto, la sera, alla sua residenza.
Cosa avevano in comune?
In un’intervista, a firma di Anna Pozzi, al postulatore p. Thomas Georgeon, trappista, pubblicata su Mondo e Missione, il 1° gennaio scorso, è stato chiesto che cosa avevano in comune questi 19 martiri, religiosi e religiose, dell’Algeria: «Molte cose», ha risposto: «Ognuno di loro è stato un testimone autentico dell’amore di Cristo, del dialogo, dell’apertura agli altri, dell’amicizia e della fedeltà al popolo algerino. Con un’immensa fede in Cristo e nel suo Vangelo, per cui non hanno dato la vita per un’idea, per una causa, ma per Lui. Con un profondo amore per la terra dove il Signore li aveva inviati, l’Algeria. Con un’attenzione e una delicatezza evangelica verso quel popolo, specialmente nei confronti dei piccoli e degli umili, così come dei giovani. Con il rispetto della fede dell’altro e il desiderio di capire l’islam. Con un grande senso di appartenenza alla Chiesa algerina che ha visto la sua presenza completamente trasformata dopo l’indipendenza del Paese: è diventata una Chiesa “ospite”, piccola, umile, serva e amorevole. E questo, ciascuno dei 19 martiri, come tanti altri membri della Chiesa che sono ancora vivi, l’ha vissuto profondamente. La loro vita e la loro morte sono come un’icona dell’identità della Chiesa d’Algeria. Hanno incarnato fino alla fine la sua vocazione a essere sacramento della carità di Cristo per tutto il suo popolo».
Cosa dicono a noi oggi?
Alla domanda che cosa essi continuano a dire al tempo di oggi, p. Thomas ha risposto: «Il messaggio di questi 19 religiosi e religiose è chiaro: occorre approfondire il significato di questa presenza di Chiesa e dimostrare che una coesistenza fraterna e rispettosa è possibile tra le religioni. Nel mondo musulmano, è il Vangelo della pace che viene annunciato e testimoniato, senza che questo necessariamente abbia una presa sull’altro, che può rimanere sordo e cieco di fronte a tale testimonianza. Mi sembra che nel mondo d’oggi essi ci insegnino cosa significano perseveranza e fedeltà. E, in una prospettiva di dialogo interreligioso, ci mostrano la via dell’umiltà. Chi vuole entrare in dialogo deve avere sia il “gusto” dell’altro, sia un grande rispetto per la sua fede. Il priore del monastero di Tibhirine, Christian de Chergé ha scritto: “La fede dell’altro è un dono di Dio, misterioso certamente. Quindi richiede rispetto”».
«È un martirio – ha sottolineato il padre, nel mezzo di un oceano di violenza che ha travolto l’Algeria negli anni Novanta. Un martirio “con” e non “contro”. È impossibile pensare solo ai “nostri” martiri, ignorando le decine di migliaia di algerini vittime del decennio nero, perché anche loro hanno dato la vita per il loro Paese e per la loro fede. Dunque, rendere omaggio ai 19 martiri cristiani significa anche rendere omaggio alla memoria di tutti coloro che hanno dato la vita in Algeria in quegli anni bui».
Il Papa andrà in Algeria?
Secondo p. Thomas, «papa Francesco è molto attento a questa causa perché ha ben capito la posta in gioco e crede che la testimonianza dei nostri 19 fratelli e sorelle sia un meraviglioso invito al dialogo con l’islam, un dialogo del “vivere insieme” nel rispetto dell’alterità e della fede dell’altro. Il desiderio dei vescovi algerini è che la beatificazione possa essere celebrata in Algeria, a Orano, diocesi di cui mons. Claverie era il pastore. Il Papa andrà in Algeria? Tutto è possibile, ma nulla è deciso. Come capo di Stato, anche il pontefice si reca in un Paese solo su invito delle autorità locali. Immagino anche che ci sia da fare una valutazione sull’opportunità di questo viaggio. Certamente, questo sarebbe sia un grande incoraggiamento per la Chiesa algerina sia, oso crederlo e sperarlo, un forte gesto verso gli algerini che sono, come molti altri, sensibili alla personalità e alle parole di papa Francesco».
Antonio Dall’Osto