Dall'Osto Antonio
Brevi dal mondo
2018/11, p. 36
Ecuador Oslo America Latina

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Testimoni
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Ecuador
Da vescovo a semplice monaco
Mons. Voltolini lascia la guida dell’arcidiocesi di Portoviejo in Ecuador, per entrare nel monastero trappista di Santa Maria del Paradiso a Salcedo in Cotopaxi. In un’intervista raccolta da Irene Argentiero per l’agenzia SIR, in data 3 ottobre 2018, racconta: “Ho 70 anni, di questi ne ho trascorsi 25 qui a Portoviejo, 14 da ausiliare e 11 da arcivescovo. Ho 44 anni di sacerdozio, di cui quasi 25 come vescovo”.
Quando è nato il suo desiderio di entrare in monastero?Nel 2007 il parroco del mio paese, Poncarale, don Giancarlo Scalvini, mi ha regalato il libro “Tre frati ribelli”, di Marcel Raymond, che racconta la storia e l’avventura dei fondatori dei monaci bianchi. Lo stava leggendo proprio nei giorni in cui era venuto in Ecuador per il mio ingresso come arcivescovo a Portoviejo, e me lo ha lasciato. L’ho letto tutto d’un fiato. Da quell’anno ho iniziato a frequentare regolarmente il monastero trappista di Santa Maria del Paradiso a Salcedo in Cotopaxi. Ogni anno vi trascorrevo un periodo di ritiro e preghiera. Poi, nel 2014, ho consegnato una lettera al superiore della comunità, in cui gli manifestavo il desiderio di abbracciare la vita monastica, di spogliarmi di tutto e di vivere come un semplice monaco, senza alcun incarico o privilegio.
La sua può essere letta come una fuga dal mondo…Non è un fuga dal mondo, non voglio ritirarmi come un eremita. E non vado in monastero per trovare una buona infermeria, dove trascorrere gli anni della vecchiaia.
Con il passare degli anni ho sentito crescere in me l’attrazione per la vita monastica, che prima non conoscevo, per il silenzio e l’ora et labora, così come lo vivono i monaci trappisti secondo la regola cistercense. Una volta ho chiesto al superiore della comunità di Santa Maria del Paradiso perché tanti giovani vanno in monastero, ma poi non ci restano. E lui, con molta schiettezza, mi ha risposto che i giovani che entrano in Seminario hanno la prospettiva del contatto con la gente, che può soddisfare anche un certo orgoglio personale. “Chi entra qui – mi ha detto –, viene per morire a se stesso e per essere utile alla Chiesa come il grano caduto in terra, che muore ma poi porta molto frutto”.
Come ha spiegato alla gente il suo prossimo passaggio dalla vita attiva alla vita contemplativa?Ho usato un’immagine tratta dalla natura: i pesci e le rane prima depongono le uova e poi le fecondano. In questi anni ho cercato di seminare la Parola di Dio e in futuro il mio impegno sarà quello di fecondare quanto ho seminato con la preghiera. Lascio ora ad altri, più giovani di me, il compito di andare avanti con le cose. Un’altra immagine a me cara, è quella dell’albero. Quando uno perde i genitori o qualche persona cara, non li vede più perché vanno “nelle radici” dell’albero. Ma non spariscono. Da lì saranno sempre utili, perché sulle radici poggiano il tronco, i rami e le foglie. Io mi metterò “nelle radici” e lascio ad altri il compito di stare “nel tronco” e “nelle foglie”. E dalle radici sarò utile anche nell’invisibilità della vita attiva. (Agenzia Sir, 3 ottobre 2018).
Oslo
A Denis Mukwege e a Nadia Murad il Nobel per la pace
Il 5 ottobre 2018 a Oslo è stato assegnato il Premio Nobel per la pace 2018 a Denis Mukwege, congolese, e a Nadia Murad, una donna yazida. Due persone sconosciute al gran pubblico, ma di grande spessore civico e morale.
Il Comitato norvegese per il Nobel ha voluto così premiare i loro sforzi per porre fine all’uso della violenza sessuale come arma di guerra e di conflitto armato. Reiss-Andersen, presidente del Comitato, annunciando il nome dei due vincitori, ha affermato: «Hanno coraggiosamente messo a rischio la loro vita combattendo una guerra contro i crimini e cercando giustizia per le vittime».
Mukwege, è un ginecologo e chirurgo congolese, 63 anni, è considerato il principale esperto mondiale nel trattamento degli stupri di gruppo e un attivista contro le violenze sessuali. Ha dedicato la sua vita ad aiutare le donne del Congo. Ha saputo del premio mentre stava compiendo un intervento chirurgico nel suo ospedale, a Bukavu, e ha voluto dedicare questo riconoscimento a tutti i sopravvissuti della violenza sessuale in ogni parte del mondo.
Qui – ha detto – ogni anno vengono curate migliaia di donne vittime di abusi e violenze sessuali la maggior parte delle quali commesse lungo il corso di una guerra civile, costata la vita a più di sei milioni di congolesi, ufficialmente terminata nel 2002, ma che vede ancora fronteggiarsi l’esercito regolare e gruppi armati che cercano di controllare le ricchezze del Paese, oro, diamanti e rame».
Nel 2012 corse il grave rischio di essere ucciso. Alcuni uomini armati fecero irruzione nella sua abitazione, a Bukavu, in cui fu ucciso un suo amico. Anche oggi sia lui che la sua équipe corrono gravi pericoli. Lo scorso anno rimase ucciso un suo collega. «Ma questa volta – ha dichiarato – ho provato un sentimento diverso: quello della rivolta. Dobbiamo finirla con questa guerra».
Nadia Murad è una donna yazida della città irachena di Sinjar, sopravvissuta alle violenze e alle stragi dei terroristi dell’ISIS. Lo scorso anno, parlando con l’agenzia CNN, raccontò come si svilupparono i fatti: l’ISIS attaccò la sua comunità il 3 agosto 2014. Circa 6.500 donne e bambini furono rapiti e 5.000 persone della comunità furono uccise. «Per otto mesi – ha narrato – ci separarono dalle nostre madri e dalle nostre sorelle e dai nostri fratelli; alcuni furono uccisi e altri scomparvero».
Nella sua vita non avrebbe però mai immaginato ciò che sarebbe successo dopo. Il suo desiderio da ragazza del villaggio Kocho, nel nord dell’Iraq, era di aprire, al termine della scuola, un salone di cosmetici. Poi, nel 2014, avvenne la catastrofe con l’arrivo nel suo villaggio dei terroristi dell’ISIS. Assieme a molti altri fu portata nella città di Mosul. Sua madre e sei suoi fratelli furono uccisi. Complessivamente i terroristi sterminarono 40 membri della sua famiglia.
A Mosul, Nadia fu venduta a un uomo al mercato degli schiavi; poi fu rivenduta come schiava del sesso. Dopo una fuga rocambolesca dalla casa di Mosul dove era detenuta da tre mesi, con l’aiuto di una famiglia musulmana riuscì a passare nel territorio dei curdi dove trovò rifugio in un campo di profughi vicino a Dohuk.
Una volta libera, iniziò la sua personale battaglia contro le violenze dell’ISIS, raccontando con coraggio quanto aveva provato sulla propria pelle. «Ad un certo punto, non restano altro che gli stupri. Diventano la tua normalità. Non sai chi sarà il prossimo ad aprire la porta per abusare di te, sai solo che succederà e che domani potrebbe essere peggio», scrive nella sua autobiografia – L’ultima ragazza – pubblicata quest’anno da Mondadori.
«Questo premio – ha detto – è anche per tutte le donne del Medio Oriente, per tutti gli iracheni, i curdi e le minoranze perseguitate in tanti angoli del mondo. Bisogna continuare a lottare, perché la mentalità dello Stato Islamico può annidarsi ovunque».
Oggi Murad vive in Germania, nel Baden-Württemberg, dove hanno trovato accoglienza circa un migliaio di yazidi del nord Iraq e dove si dedica instancabilmente a risvegliare l’attenzione pubblica sui suoi conterranei. Nel 2016, all’età di 23 anni, è stata nominata “Ambasciatrice di buona volontà” delle Nazioni Unite. Nel 2016 è stata insignita del titolo di “Donna dell’Anno” e ha ricevuto il “Premio Sacharov” dal Parlamento europeo. Il premio Nobel, equivalente a nove milioni di corone svedesi (un milione di dollari), sarà consegnato a Oslo il 10 dicembre.
America Latina
L’America Latina uccide i suoi preti
Durante il 2018 sono stati finora uccisi nel mondo 29 sacerdoti. Il continente dove è stato registrato il maggior numero di casi è l’America Latina. In questo continente sono 11 quelli assassinati finora in questo 2018: 7 in Messico, 1 nel Salvador, 1 in Venezuela, 1 in Perù, 1 in Ecuador. Come si vede, il Messico è il paese più esposto. L’ultimo caso, il settimo, è quello del sacerdote diocesano Arturo Orta ucciso a Tijuana. Arturo Orta era scomparso dalla sua parrocchia San Luis Rey de Francia venerdì 12 ottobre, ma il suo corpo è stato trovato solo domenica sera, 14 ottobre. Era legato mani e piedi e presentava segni di torture. Come hanno riferito i media “presentava molti segni di brutale violenza”, tra cui dei proiettili.
Secondo Reiner Wilhelm, incaricato dell’opera tedesca di aiuto alla Chiesa per l’America Latina, Adveniat, dietro a questo assassinio c’è una criminalità organizzata che agisce con minacce, rapimenti, torture e uccisioni allo scopo di indebolire la società civile. “Vogliono togliere la speranza alle comunità mettendo in guardia le persone in questo modo: “stai attento a quello che racconti al tuo parroco”. I sacerdoti sono presi di mira perché sono ben collegati tra di loro e vengono a conoscere molte cose dalla confessione. Ciò che sanno e il loro impegno sociale costituiscono un pericolo per i cartelli della droga; per questo minacciano e spesso uccidono.
In Messico, la violenza contro i preti cattolici negli ultimi anni è aumentata in maniera esponenziale. Stando a quanto riferiscono i media messicani, citando il Catholic Multimedia Center, tra il 2012 e il 2017 in questo paese sono stati assassinati 17 sacerdoti cattolici. Nel frattempo è raddoppiato il numero delle minacce di morte. Durante la presidenza di Carlos Salinas (1988-94) c’erano state quattro vittime, con Ernesto Zedillo (1994-2000) tre vittime e con Vicente Fox (2000-2006) ancora quattro.
Il numero è notevolmente cresciuto con l’inizio della “guerra contro le droghe” con la presidenza di Felipe Calderon (2006-2012) quando furono 25 i preti assassinati. Durante la presidenza successiva di Enrique Peña Nieto, ancora in corso e destinata a durare fino al 30 novembre prossimo, il numero degli assassini dei sacerdoti è rimasto alto con 18 casi finora registrati.
La Chiesa cattolica costituisce una spina al fianco dei cartelli delle droghe ed è in prima linea nella lotta contro la droga. Il suo influsso nel paese rimane molto elevato. Secondo i dati del ministero degli esteri, l’83% dei messicani si professano cattolici.
a cura di Antonio Dall’Osto