Chiaro Mario
L'umano nel terzo millennio
2018/11, p. 20
Che cosa significa essere umani in un’epoca di complessità e cambiamento? Quali sono i limiti da non superare? Che parte avranno la spiritualità, la fede, l’appartenenza a un credo religioso? Come potranno strutturarsi le comunità sociali e religiose?

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Giornate dell’Eremo camaldolese di Montegiove
L’UMANO
NEL TERZO MILLENNIO
Che cosa significa essere umani in un’epoca di complessità e cambiamento? Quali sono i limiti da non superare? Che parte avranno la spiritualità, la fede, l’appartenenza a un credo religioso? Come potranno strutturarsi le comunità sociali e religiose?
Nella terza edizione delle Giornate dell’Eremo camaldolese di Montegiove (Fano, 7-9 settembre 2018) –incentrate sul tema: Quale umano per il terzo millennio? – si è messa a fuoco la “Condizione tecno-umana: orizzonti e limiti”. Che cosa significa essere umani in un’epoca di complessità e cambiamento? Quali sono i limiti da non superare dal momento in cui la tecnica viene impiegata per interventi non solamente esterni ma anche interni all’uomo? Che parte avranno la spiritualità, la fede, l’appartenenza a un credo religioso? Come potranno strutturarsi le comunità sociali e religiose? Domande per riflettere sulla “metamorfosi” della condizione umana, che pone a tutti, e in particolare ai giovani, enormi sfide nel cammino di costruzione di una solida identità.
Verso una nuova
umanità?
L’incontro di Montegiove ha aperto grandi orizzonti, che qui possiamo appena indicare. Lo scenario di fondo è dominato dalla messa in discussione del concetto immutabile di umano, che diventa invece sempre più plasmabile a causa dell’evoluzione tecnologica. L’era post-umana è iniziata da quando l’uomo ha scoperto di star cambiando se stesso tramite la convergenza tra biologia e tecnologia. In particolare, l’avvento del computer ha portato l’essere umano a concepirsi come elaboratore d’informazioni e a comprendere la natura come serie d’informazioni da elaborare.
In sintesi, l’antropologia post-umana può essere sintetizzata nelle sue quattro idee convergenti: a): la preminenza dell’informazione sulla materialità, che cambia il concetto di vita (viva è quell’entità che contiene e codifica informazioni) e che fa cadere il confine tra naturale e artificiale; b) la costituzione dell’uomo, che fa della coscienza un fenomeno collaterale delle attività cerebrali, escludendo in tal modo la presenza di un’anima immateriale; c) la concezione del corpo umano come semplice protesi: il corpo ci appartiene, ma non ci costituirebbe per quel che siamo in realtà; d) la capacità dell’uomo di essere congiunto, senza soluzione di continuità, con macchine intelligenti, dal momento che non vi sarebbe alcuna differenza essenziale tra esistenza corporea e simulazione al computer, tra meccanismi cibernetici e organismi biologici, tra tecnologia robot e specificità umana (cf. P. Benanti, AA.VV., “L’animale e la macchina”, EDB 2017 pp. 45ss.).
L’esito è quello di pensare e desiderare una sorta di immortalità tecnologica, affinché l’essere umano possa slegarsi da limiti e fragilità di cui si scopre costituito: in un vero e proprio slancio di tipo “religioso”, alla tecnologia viene chiesto di farci passare da una condizione umana mortale a una condizione post-umana dove diviene pensabile una non-mortalità tecnologica. In questo senso, si costruisce un meccanismo di difesa simbolico, che permette all’uomo di sfuggire alla consapevolezza della sua mortalità. Una cultura di rimozione della finitezza e della fragilità umana oggi elabora un concetto di salvezza che si realizza dentro la storia.
Parabole di nuova
antropologia
Se la guarderemo questa società complessa e interconnessa «dal punto di vista dell’avvenire, vedremo l’avvio di tante parabole inedite e di molteplici scenari che non riusciremo sempre a comprendere con lo sguardo attuale. Non dovremo lasciarci abbagliare dalla loro novità, ma saper intercettare quelle parabole che si costituiranno in proposte compiute… In quest’orizzonte il cristianesimo con i suoi valori evangelici di libertà, giustizia, pace e fraternità, avrà tanto da offrire… Ma il cristianesimo stesso avrà bisogno di custodire e saper riproporre la sua ricchezza spirituale e, in questo quadro, il monachesimo con la sua sapienza millenaria sarà di grande aiuto per la Chiesa dei prossimi decenni» (A. Barban e G. Di Santo, “Il vento soffia dove vuole. Confessioni di un monaco”, Rubettino 2014, pp. 17 ss.).
In questa prospettiva p. Alessandro Barban, Priore Generale dei Monaci Camaldolesi, ha offerto importanti piste di riflessione su protagonismo della donna, ecologia integrale, rinnovamento culturale ed educativo. Come premessa, egli ha sottolineato che la spiritualità odierna viene espressa mediante cammini di consapevolezza, benessere, illuminazione, senza però contemplare la presenza della divinità. Per questo, in un processo in cui la realtà autoreferenziale della storia sfida o nega Dio fino a farlo scomparire, il monachesimo ha la responsabilità di stare in prima linea per costruire nuovi ponti in situazioni e regioni impensabili. Prima di domandarsi in quale Dio credo, si pone la questione: in quale uomo-donna credo? Le domande antropologiche sono ineludibili e solo una fede che illumina con orientamenti di senso viene oggi presa in considerazione.
Partendo dal disegno di Leonardo rappresentante l’uomo Vitruviano – centro e signore del cosmo, con braccia e gambe divaricate che sfiorano un quadrato (simbolo della terra) e un cerchio (simbolo dell’universo) – p. Barban ha fatto rilevare che l’antropocentrismo maschile si è scomposto entrando in crisi, mentre sta emergendo la posizione della donna. «I cambiamenti li stanno facendo le donne». Anche nell’interpretazione della Bibbia si notano cambiamenti: «tutti noi abbiamo presente quel testo su cui abbiamo fondato il nostro potere maschile e il nostro antropocentrismo, il testo dell’Adamo solo che è triste nonostante tutti i doni ricevuti. Dio allora lo fa addormentare: è un racconto mitico, che comunica però una verità profonda – e dalla costola dell’uomo trae la donna». Questo brano è sempre stato letto in ottica maschilista, per cui la donna è appendice dell’uomo, un essere ancillare. Si legge ancora che “l’uomo lascerà padre e madre e si unirà alla sua donna”: «su questo abbiamo fondato per millenni la nostra visione della famiglia e del matrimonio, che oggi non sta più in piedi. Io credo che questo testo possa invece essere interpretato in modo differente: mentre l’uomo è fatto di terra, la donna è fatta della costola dell’uomo: qui dovremmo avere il coraggio di pensare che abbiamo un’evoluzione non di poco conto». Infatti nel racconto di Genesi 1 si parla dell’uomo e della donna in modo diverso, paritario e complementare. «Così si entra in un paradigma evolutivo: si propone la figura della donna come evoluzione del maschile». «Adamo non ha il coraggio di prendere il frutto proibito, ma è la donna, perché è più “smart”, più sveglia e coraggiosa. È lei che entra in dialogo col serpente, un animale che si alza e parla all’orecchio, che rappresenta dunque la coscienza dialogica». È la donna che inizia questa esperienza di dialogo interiore, che fa emergere il desiderio e ha il coraggio di un gesto di rottura, una trasgressione che aiuta però a fare un passo in avanti. Così si esce dal mito e comincia la storia evolutiva dell’umano: l’adam maschio e femmina è simbolo che occorre ricostituire, nel senso della reciprocità, non in competizione ma in parità dialogante.
Le sfide: contemplazione,
etica, estetica
La sfida dei prossimi decenni è quella di non chiudersi in cittadelle per pochi privilegiati, ma di realizzare comunità coraggiose nel ridistribuire scienza e ricchezza andando anche negli “inferi” della società. Il monachesimo, chiamato a immaginare il futuro, deve assumersi il compito di sdoganare la contemplazione per mantenere viva la speranza in questa nuova fase di umanizzazione. La contemplazione è fondamentale per imparare a gestire il tempo in un mondo nevrotico, competitivo e fragile quanto a relazioni autentiche. L’orizzonte contemplativo aiuta anche a vivere senza preoccuparsi dei risultati immediati, a offrire la stessa bellezza di base sia ai ricchi che ai poveri, a vigilare sulla “cultura della democrazia” nel tempo dei nuovi populismi, a costruire un nuovo modello di Chiesa superando il dualismo tra clero e laici, per instaurare relazioni di pari dignità e fraternità.
In questo modo si aiuteranno anche tutte le comunità cristiane ad accogliere le sfide della “rivoluzione digitale”, che già trasmette competenze, risorse e stili di vita alle nuove generazioni. Su questo tema, padre Benanti (esperto di bioetica di etica delle tecnologie) ha aperto una sorprendente finestra culturale mostrando con acume che, anche nell’era delle tecnologie, permane il problema etico. «Tutto oggi è affidato all’informazione: stiamo costruendo codici informatici e la macchina ci interroga sullo specifico dell’umano». Occorre essere allora consapevoli che i progressi scientifico-tecnologici compiuti dalla ricerca in robotica permettono oggi di costruire sistemi per affiancare o sostituire gli esseri umani in vari compiti: assistenti per persone vulnerabili, automobili automatiche, sistemi robotici per la chirurgia e la medicina riabilitativa, sistemi di sorveglianza e armi autonome. Sono alcuni esempi che illuminano le relazioni tra etica e robotica, soprattutto per quanto riguarda i diritti fondamentali e i relativi doveri. La riflessione etica è chiamata a smascherare una visione che nega il valore della persona sempre orientata ad un oltre che supera il tempo e lo spazio.
L’umano legato intrinsecamente alla tecnica produce anche un’estetica. La prof.ssa Valeriani, docente di storia dell’arte, presentando dieci proposte artistiche ha mostrato che oggi l’artista è diventato “produttore di esperienze” più che creatore di opere. Così l’arte contemporanea diventa soprattutto “evento”. La ricerca estetica si è spostata dallo sperimentare linguaggi allo sperimentare relazioni. Siamo di fronte a un «salto quantico rispetto alla visione antropocentrica»: la tecnologia infatti è un “medium” che cambia noi stessi e il mondo, diventando un ambiente che l’uomo stesso crea. La tecnologia digitale crea «una nuova ecologia dell’azione» e mette in crisi la visione antropocentrica dell’Occidente. La crescente capacità dell’uomo di monitorare tutto determina forme di relazioni trans-organiche e trans-umane, che lo rendono sempre meno attore e sempre più parte di un tutto complesso e multiforme. Questa condizione è stata illustrata in modo efficace mostrando una video-installazione intitolata “Il grande silenzio” (Allora e Calzadilla, 2014): i due artisti raccontano il legame sonoro tra la foresta del Rio Abajo in Porto Rico e l’intero universo. La chiave di volta è il grande radiotelescopio di Arecibo, costruito accanto alla zona verde, che cerca intelligenze con cui comunicare. La proiezione mostra nel contempo anche un pappagallo (di una specie in via di estinzione) che scruta e comprende gli uomini rinunciando però a comunicare con essi: il messaggio scettico è che l’uomo si sforza di comunicare con il cosmo senza ottenere risposta, non riuscendo però nemmeno a sentire il richiamo di contatto degli esseri viventi.
In generale, l’arte post-moderna si sviluppa a partire dal concetto di “informe” (cf. Georges Bataille), cioè di «un’alterazione, un declassamento della forma». Questo scatena reazioni che possono essere di attrazione o di repulsione. «L’informe non è nelle cose, ma è nell’occhio di chi le vede, è nella relazione tra le cose. Così si crea uno scarto, una ferita, un’apertura». Per entrare in questa logica ricordiamo solo l’opera intitolata “Imitazione di Cristo”, dell’artista modenese Roberto Cuoghi (Padiglione Italia, Biennale di Venezia 2017). Nell’installazione, che ha fatto molto discutere, sono esposti dei calchi di immagini di Cristo fatti di materiale deperibile, deposti in celle all’interno di un tunnel: in ognuna di esse c’è diversità di temperatura e umidità, in modo che le figure deperiscono progressivamente. In quest’opera si vede «una vera incarnazione di Cristo in tanti poveri cristi, tutti uguali e tutti diversi. Quando questi poveri cristi sono dissolti, vengono messi nei forni crematori e seccati: i poveri resti vengono infine attaccati alla parete di fondo. Vediamo così corpi smembrati, pezzi di braccia, di mani, scarti che mostrano un declassamento e un’alterazione che però viene resa icona!». Questa è un’opera dove l’imitazione di Cristo diventa un farsi carne, un farsi uomo che patisce il mondo portandone su di sé il peccato. Secondo la professoressa Valeriani, questo è un modo incredibile e contemporaneo di comunicazione spirituale: la tremenda accettazione da parte di Cristo dell’umano è la nostra salvezza! «L’opera d’arte nella condizione tecno-umana dunque non incornicia una forma, ma sposta, destabilizza, lacera la somiglianza, la rende a sua volta lacerabile». Questo farsi dell’arte «come relazione, processo, dissipazione, produce non la distruzione della forma ma l’evento che ti mette davanti al tuo destino».
Mario Chiaro