Il Papa e l'Asia
2018/11, p. 1
L’accordo sottoscritto fra Vaticano e Cina in ordine alla
nomina dei vescovi ha permesso a due di loro di
partecipare al sinodo sui giovani. E ha avviato un
cambiamento interessante nell’area. Indicativi gli inviti
contemporanei di Taiwan e Corea del Nord.
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Testimoni
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Cina – Santa Sede
IL PAPA
E L’ASIA
L’accordo sottoscritto fra Vaticano e Cina in ordine alla nomina dei vescovi ha permesso a due di loro di partecipare al sinodo sui giovani. E ha avviato un cambiamento interessante nell’area. Indicativi gli inviti contemporanei di Taiwan e Corea del Nord.
Un accordo e due inviti. L’accordo è quello sottoscritto dalla Santa Sede e dal governo cinese in ordine alla nomina dei vescovi (22 settembre). Fra i due inviti al papa per visitare i paesi, uno è prevedibile (quello di Taiwan), uno assolutamente no (quello della Corea del Nord). Oltre all’atteso viaggio del papa in Giappone nel 2019 sono segnali di grande movimento sullo scacchiere asiatico da parte della Chiesa cattolica.
Modesto e decisivo: così si potrebbe definire l’accordo sulle nomine episcopali sottoscritto il 22 settembre a Pechino fra il sottosegretario per i rapporti della Santa Sede con gli stati, mons. A. Camilleri, e il viceministro degli affari esteri cinesi, Wang Chao (cf. Testimoni 4\2018 p. 32). Non c’è alcun trionfalismo. Rimangono forti limitazioni alla libertà delle comunità cristiane. La verifica che verrà fatta ogni due anni dice ad un tempo grande fatica e determinazione. E tuttavia «decisiva» perché disciplina un punto centrale della vita ecclesiale e perché è il primo di molti altri passi possibili. L’importanza del gesto è sottolineata dalla lettera che papa Francesco ha scritto ai cattolici cinesi e del mondo il 26 settembre.
Accordo modesto
e decisivo
Esito di un lungo lavoro diplomatico che rimonta agli anni ’70, al momento delle prime aperture politiche di Deng Xiaoping. Nonostante gli intoppi e i blocchi (le ordinazioni episcopali illegittime nel 1981, la decisione restrittiva del Congresso del partito del 1982, il cosiddetto documento 19, la consacrazione di vescovi non riconosciuti nel 2000 e, ancora, nel 2010, (i mille intoppi amministrativi e le vessazioni sulle comunità illegittime) i piccoli passi hanno continuato: si riaprono alcuni seminari negli anni ’80, nel 1981 Giovanni Paolo II saluta la Cina da Manila, si moltiplicano i contatti di preti e vescovi occidentali con quelli cinesi, molti vescovi «patriottici» chiedono a Roma il riconoscimento del loro servizio, il concerto a Roma nel 2008 dell’orchestra filarmonica di Pechino fino all’intervista al papa su Asia Times nel febbraio del 2016. Nel maggio del 2007 papa Benedetto aveva scritto una importante lettera ai cattolici di Cina, chiudendo la stagione delle “catacombe”, invitando all’unità delle comunità e al dialogo con le autorità.
Il testo dell’accordo non è noto, ma le notizie che sono apparse nei mesi e anni precedenti permettono di intuire alcune conclusioni. Si prevederebbe la formulazione della terna dei candidati da parte dei vescovi e delle comunità locali, dove la presenza dell’Associazione patriottica è molto forte, anche se non dappertutto e comunque non priva di condizionamenti reali da parte delle comunità cristiane, anche «illegali». Il peso della politica è piuttosto evidente. Ai delegati vaticani non è stato consentito neppure di recapitare ai vescovi «illeciti» il documento dell’avvenuta comunione con il papa. Anche se hanno potuto incontrare alcune personalità di assoluto rilievo nella nomenclatura cinese. Tuttavia nell’accordo è prevista che la voce ultima sia del papa. Nel caso di irricevibilità dei nomi, può rifiutare per una nuova terna. Nell’insieme del corpo episcopale (un centinaio, divisi a metà fra «illegali» e «patriottici») l’accordo provvisorio significa l’avvio del riconoscimento statale per i «clandestini» e il riconoscimento papale dei sette vescovi non ancora in comunione con Roma. Fra questi anche un paio che avevano trovato finora una forte resistenza in Vaticano per motivi molto seri. Due vescovi clandestini lascerebbero il passo a due «patriottici», pur rimanendo vescovi per incarichi di rilievo in diocesi. Si è decisa la formazione di una nuova diocesi, Chengde, per mons. Guo Jincai. L’arrivo per la prima volta in sinodo (Roma 3-28 ottobre 2018) di due vescovi cinesi, Guo Jincai e Yang Xiaoting, è una ulteriore conferma del felice momento nelle relazioni cino-vaticane.
Accettare l’interferenza
di Roma
Il dato clamoroso è l’unità dell’episcopato, pur segnato da infinite ferite. Non succedeva dal 1958, anno delle prime ordinazioni illegittime. Ancora più rilevante se si guarda al futuro. Sono una quarantina le diocesi ancora scoperte e le eventuali nomine non condivise segnerebbero davvero uno scisma reale, finora evitato per la testimonianza eroica dei «clandestini», ma anche per una disponibilità di quasi tutti i vescovi «patriottici». All’orizzonte c’è anche il ridisegno delle diocesi, il rinnovamento delle istituzioni di formazione sia per i seminaristi sia per i laici, un quadro più riconosciuto alla vita religiosa femminile e maschile, sia nella sua forma monastica che attiva (cf. Testimoni 1|2018 p. 10). Compiti complessi che dovranno essere conquistati centimetro per centimetro, per uno spazio sempre maggiore di libertà. Per questo era urgente arrivare a concludere un primo e provvisorio accordo.
Oltre all’unità dell’episcopato il secondo grande risultato è l’accettazione da parte del potere cinese dell’«interferenza» della Santa Sede. Non era mai successo. Il governo di Pechino controlla le cinque religioni riconosciute (buddhismo, taoismo, islam, protestantesimo, cattolicesimo) attraverso le associazioni patriottiche (con la triplice autonomia: autogoverno, automantenimento, autodiffusione). Tutte sono di fatto chiese e religioni nazionali, non così il cattolicesimo. Esso trova nell’accordo una prima ed evidente singolarità. Se a questo si aggiunge lo sfondo storico, l’incontro fra i ceppi più antichi della memoria occidentale (Roma) e orientale (Pechino), si può comprendere alcune delle valutazioni più entusiastiche.
Le voci
critiche
Non mancano certo le critiche. Una parte di «clandestini» non può dimenticare le sofferenze patite e la limpida testimonianza offerta. Una parte dei «patriottici» e dell’Associazione tollererà a fatica il riconosciuto peso di Roma. Non diminuiscono le vessazioni amministrative. Si intensificano le informazioni relativamente alle violenze che la nuova normativa sulle religioni permette nel paese asiatico: proibizione ai minori di frequentare le chiese, controllo dei presenti con videocamere, esposizione della bandiera nazionale obbligatoria, distruzione sistematica delle croci esibite sulle sommità dei luoghi di culto (sarebbero 17.000 solo nella regione dello Zhejiang). Tutto in conformità alla parola d’ordine del presidente Xi Jinping di «cinesizzare» le religioni.
Il «partito dei pessimisti» considera «inutile ogni trattativa con Pechino perché il suo governo è inaffidabile e perché il prezzo da pagare per questo accordo è la consegna della Chiesa nelle mani del potere politico che continua ad enfatizzare l’indipendenza della Chiesa e a esigere dai vescovi cinesi di ripetere ad ogni istante lo stesso ritornello: “indipendenza”» (Asianews).
Il card. J. Zen, ex-arcivescovo di Hong Kong e punta di lancia dei resistenti, ripete: «È terribile! È terribile!», «I cattolici (sotterranei) cinesi si sentono traditi. Il governo che ha sempre represso la Chiesa clandestina, lo può fare ormai con l’aiuto della Santa Sede». «I cattolici (sotterranei) cinesi sono molto tristi. Si sentono perduti e abbandonati. Alcuni hanno sofferto restando sotterranei e fedeli al papa, senza compromettersi con l’ “associazione patriottica” della Chiesa “ufficiale”. Alcuni sono stati minacciati. Altri sono andati in prigione. E ora si dice loro di uscire dalle catacombe, che il loro sacrificio non è servito a niente».
Un percorso
inedito
L’accordo sottoscritto non ha alcuna valenza politica, né di riconoscimento diplomatico, né di interesse di potere. È un gesto di governo pastorale in vista del futuro della comunità cattolica cinese. Come ha scritto papa Francesco: «Proprio al fine di sostenere e promuovere l’annuncio del Vangelo in Cina e di ricostruire la piena e visibile unità della Chiesa, era fondamentale affrontare in primo luogo la questione delle nomine episcopali». Il fenomeno della clandestinità, pur nobile, «non rientra nella normalità della vita della Chiesa». «Davanti al Signore e con serenità di giudizio, in continuità con l’orientamento dei miei immediati predecessori, ho deciso di concedere la riconciliazione ai rimanenti sette vescovi “ufficiali” ordinati senza mandato pontificio e, avendo rimosso ogni relativa sanzione canonica, di riammetterli nella piena comunione ecclesiale». «In questo spirito e con le decisioni prese, possiamo dare inizio a un percorso inedito, che speriamo aiuterà a sanare le ferite del passato, a ristabilire la piena comunione di tutti i cattolici cinesi e ad aprire una fase di più fraterna collaborazione».
Il potere dolce
Anche gli inviti meritano una qualche attenzione. Inatteso quello della Corea del Nord. È stato inoltrato al papa dal leader cattolico Moon Jae-in (Corea del Sud) durante la visita ufficiale in Vaticano il 17-18 ottobre. Moon ha informato Francesco che il leader nordcoreano Kim Jong-un lo invitava a visitare Pyongyang, dicendosi pronto «ad accoglierlo con grande calore». Il papa ha mostrato molto interesse e attende un invito ufficiale. In Corea del Nord non ci sono più sacerdoti e da decine d’anni il paese è al vertice delle aree più violente contro le fedi. Si parla di 60.000 cristiani in campi di concentramento e di lavoro. I cristiani in questo stato ateo hanno dovuto affrontare l’arresto, la rieducazione nei campi di lavoro e, in alcuni casi, l’esecuzione capitale per la loro fede. Un’indagine delle Nazioni Unite nel 2014 ha prodotto un rapporto di 372 pagine che documenta i crimini contro l’umanità nella Corea del Nord, tra cui l’esecuzione, l’asservimento, la tortura, il carcere, gli aborti forzati e la fame deliberatamente prolungata. Ma il clima sta cambiando. Il vescovo Yoo Heung Sik di Daejeon (Corea del Sud), ha affermato che il viaggio del papa, qualora si realizzasse, «rappresenterebbe un passo da gigante verso la pace nella penisola coreana».
Più prevedibile l’invito del vice presidente del governo di Taiwan, Chen Chien-jen, che nell’incontro col papa il 14 ottobre gli ha proposto un viaggio apostolico nel paese. A Roma è stato rassicurato che non si prevede un riconoscimento diplomatico con la Cina continentale a danno di Taiwan e che la fiorente comunità cattolica dell’isola è guardata con molto affetto e interesse dal papa.
Nella decisiva partita per l’egemonia mondiale in corso fra USA e Cina l’accordo con la Cina ha fortemente irritato il dipartimento di stato americano, ma l’invito di Kim Jong-un non ha fatto piacere alla Cina che non ha ancora risposto al desiderio del papa di visitarla. L’interesse della Santa Sede è tutto sulle comunità cristiane e sulla libertà religiosa, ma è indicativo che il suo «potere dolce» debba essere preso in considerazioni dai «poteri forti» e che quando l’Asia intende interloquire con l’Occidente trovi negli USA la sponda politica e nella Santa Sede quella valoriale e storica. Il sangue dei martiri, la generosità della pastorale comune, il coraggio missionario e la testimonianza di fede nel contesto asiatico non sono senza frutti.
Lorenzo Prezzi