Semeraro Michael David
Cor orans limiti e prospettive
2018/10, p. 38
Da un contributo estemporaneo ad una Congregazione benedettina emerge una valutazione rilevante degli ultimi testi magisteriali sulla vita monastica e una serie di suggestioni in ordine al futuro della vita consacrata.

Accedi alla tua area riservata per visualizzare i contenuti.

Questo contenuto è riservato agli abbonati a
Testimoni
.
Vita monastica e riforma
Cor oranslimiti e prospettive
Da un contributo estemporaneo ad una Congregazione benedettina emerge una valutazione rilevante degli ultimi testi magisteriali sulla vita monastica e una serie di suggestioni in ordine al futuro della vita consacrata.
Fratel Michael Davide Semeraro ha scritto questo testo su richiesta di madre Marie. Madre priora, responsabile della Famille Subiaco, ha sollecitato un parere in vista del capitolo generale della Congregazione del Monte Calvario, appartenente alla famiglia benedettina. Le domande erano due. La prima riguardava il futuro della presenza di monache della Congregazione a Gerusalemme, al Monte degli ulivi. La seconda verteva sul legame con gli altri monasteri femminile della Congregazione, alla luce dell’istruzione Cor orans (Co; Testimoni 6/2018 p. 1), testo applicativo della costituzione apostolica Vultum Dei quaerere (VDq; cf. Testimoni 9/2016 p. 1). Occasione preziosa per una rilettura accurata, critica e creativa di Cor orans e dei temi connessi alla collaborazione fra i monasteri.
Prima di entrare nel merito delle due questioni particolari, senza nessuna pretesa di avere in tasca un’idea geniale, voglio condividere la mia prima reazione alla lettera di Mère Marie. Chiaramente, siamo di fronte ad una sfida per le monache di tutto il mondo e appartenenti a tutte le tradizioni carismatiche. Dopo aver accolto con entusiasmo e timore la Vultum Dei quaerere,1 si tratta ora di mettere in atto le indicazioni della Cor Orans. Nel titolo di questa mia fraterna risposta alla suggestione, che viene dalla richiesta della Congregazione del Calvario, ho ripreso ed ampliato il titolo dell’Istruzione applicativa sulla vita contemplativa femminile in questa forma: Cor orans ut visionem habere. Ciò che è in gioco in questo momento per i nostri monasteri è una scelta fondamentale e decisiva: maturare una Visione della nostra vita monastica. La sfida ineludibile è quella di passare dalla gestione delle urgenze alla gestazione non certo facile, ma affascinate, di una visione amata e condivisa. Si tratta di immaginare profeticamente il nostro futuro senza attardarci sul passato. Il rischio è di esaurire tutte le nostre energie, nel cercare di parare i colpi che il cambiamento in atto impone ineluttabilmente.
Preghiera e visione
Gregorio Magno ha presentato Benedetto come cercatore di Dio continuamente attento al suo cuore e alla storia delle persone con cui la sua vita, nel bene e nel male si è incrociata. Alla fine del secondo libro dei Dialoghi, Gregorio sigilla l’esperienza spirituale di Benedetto raccontandoci della sua «visione del mondo intero raccolto in un raggio di luce» (D. II, 35, 3). I nostri fratelli e sorelle delle Chiese e monasteri Orientali non hanno una grande considerazione della nostra «santa» Regola e di cui quest’anno celebriamo l’imposizione carolingica (818). Per loro la grande importanza di Benedetto sta proprio in questa visione che corona e autentica la sua ricerca spirituale. Come dimenticare e come non sottolineare nel nostro santo padre Benedetto questa capacità di visione in cui, per dirla con papa Francesco, il «tutto è superiore alla parte»?2 Lo stesso papa Francesco ha espresso altri tre principi, avversati da alcuni e apprezzati da altri.3 Eccoli: «Il tempo è superiore allo spazio», «l’unità prevale sul conflitto» e «la realtà è superiore all’idea».4 Il magistero di papa Francesco ha rovesciato non solo la piramide della Chiesa a livello della percezione del ministero dell’autorità, ma, ancor più profondamente, della vita spirituale (cf. l’esortazione apostolica Gaudete et Exsultate; Testimoni 5/2018 p.1), della vita contemplativa al femminile (Vultum Dei quaerere) - le cui ricadute sui monaci non vanno sottovalutate - e, persino, nel rapporto con la scienza e la politica (Laudato si’).
Dopo questi primi cinque anni di ministero petrino come vescovo di Roma di papa Francesco, possiamo cogliere nel papa una visione per la Chiesa nel mondo. Sulle urgenze che esigono decisioni anche dure e impopolari – si pensi agli scandali sessuali ed economici nella Chiesa – sembra prevalere in papa Francesco la coltivazione di una visione del ministero della Chiesa nel mondo come profezia di speranza. Ora, tutto questo esige dalla nostra vita monastica un momento importante di riflessione: «Stiamo rincorrendo le urgenze di una catastrofe in atto, oppure vogliamo continuare ad avere visioni, come ricordava ed esortava nell’ultimo tratto della sua vita e ministero il cardinal Martini?»
In occasione della sua visita al monastero camaldolese di sant’Antonio all’Aventino (21 Novembre 2013), papa Francesco aveva posto una domanda che diventa sempre più urgente e, nel frattempo, non ha perso certo di validità: «Nei monasteri si aspetta il domani di Dio?». Per aprirsi al futuro di Dio bisogna essere dei visionari come lo fu Benedetto, gli abati di Cluny, i fondatori di Citeaux, Ildegarde di Bingen… I nostri padri e le nostre madri nella vita monastica hanno coltivato una visione e hanno dato la loro vita per realizzarla insieme per il bene e la gioia di molti. Dopo il Concilio Vaticano II siamo chiamati ad avere visioni maturate insieme come porzione del popolo di Dio. Questo vale per le nostre comunità monastiche – piccole o grandi, ricche o povere, gloriose o sconosciute – ma vale anche per la nostra Congregazione Sublacense-Cassinese nel senso più largo.
L’Istruzione Cor Orans dà una serie di indicazioni importanti per affrontare le urgenze di alcune situazioni. Il testo indica il cammino in modo sereno e oggettivo, senza indulgere a false e ingenue speranze che possa modificarsi la direzione del cambiamento in atto, specialmente per quanto riguarda il “reclutamento”. Ma non basta pregare! Un cuore che prega deve permettere alla mente di maturare una visione attorno a cui far confluire il meglio delle energie. Solo così sarà possibile persino nei e per i nostri monasteri la «globalizzazione della speranza». Come ricorda padre Ghislain Lafont nell’esergo al suo Piccolo saggio sul tempo di papa Francesco:5 «Dio è misericordia ed è consentito essere uomini»! La novità che dobbiamo onorare è magnifica: conoscere meglio la nostra umanità6 per amarla e imparare ad avere sempre più coscienza del valore positivo della storia presente.7
È tempo di tornare al sondaggio di Madre Marie. Vorrei cominciare a riflettere sulla questione dell’associazione alla Congregazione Sublacense-Cassinese e l’attuazione delle indicazioni canoniche di Cor Orans riguardo alle ormai inevitabili e augurabili strutture di comunione.
Insieme è meglio
Penso che, come già si è detto all’ultimo capitolo generale, il nostro cammino di Congregazione esiga una reale riconsiderazione della relazione tra monaci e monache.8 La risposta data in merito dalla commissione giuridica dichiarava l’impossibilità di pensare ad una integrazione radicale delle monache senza mediazione di Congregazioni o Federazioni. Mi sembra che questo non corrisponda al «consiglio» della Cor Orans che conferma quanto già espresso nella Vultum Dei quaerere: «Si deve favorire, in quanto è possibile, l’associazione giuridica dei monasteri di monache all’ordine maschile corrispondente al fine di tutelare l’identità della famiglia carismatica» (Co 79). La Cor Orans, elencando le diverse possibili forme di strutture di comunione e di vigilanza, parla anche, in modo chiaro, di ordinario religioso (75b; 78-79.82). Inoltre, si elimina la doppia dipendenza, cosicché l’ordinario religioso assicura un intero servizio di autorità, di sostegno e di vigilanza. Il ministero dell’Ordinario religioso non è più esercitato in rappresentanza del vescovo diocesano, cui rimangono alcune competenze particolari e limitate.
Come mi confidava l’abbadessa di un monastero associato alla nostra Congregazione, ma non federato, mettere a punto una Federazione esige un impegno di forze, di persone e di energie che non sono affatto disponibili. Da questo punto di vista i monasteri autonomi e non federati, ma già associati alla Congregazione Sublacense-Cassinese, potrebbero radicalizzare la loro associazione facendo sì che il loro legame alla Congregazione sia quello radicale. In tal modo la cura della «vigilanza» ricadrebbe nella persona dell’abate presidente o di un suo delegato/a per tutto ciò che compete all’ordinario religioso secondo la Cor Orans.
Vista la questione posta da madre Marie l’altra ipotesi potrebbe essere quella di approfittare della base giuridica della Congregazione del Monte Calvario – ridotta a 37 monache – per farvi confluire i monasteri femminili della Famille Subiaco. In tal caso bisognerebbe trovare il modo di concertare la celebrazione del capitolo generale delle monache con quello dei monaci. Per fare questo bisognerebbe attingere all’esperienza, già collaudata, dei due Ordini cistercensi. In ambedue i casi – associazione diretta dei singoli monasteri o Congregazione femminile associata a quella maschile – si dovrebbe cercare di privilegiare la ricchezza di un cammino fatto realmente insieme. Si tratta di permetterci reciprocamente un reale scambio di doni oltreché di preoccupazioni. Questo esige di mettere a punto un reale travaso di energie e di prospettive vitali. Un simile cammino esigerebbe una revisione del modo di celebrazione del capitolo generale che comporterebbe una riflessione seria sulla rappresentatività al capitolo non solo delle monache, ma anche degli stessi monaci. Si pensi ad esempio che il voto dell’abate di Montserrat nel capitolo generale «pesa» quanto quello del priore di Farfa.
Maturare una visione di Congregazione esige prima di tutto fare un esame di coscienza circa la vera disponibilità a camminare insieme. Da questo punto di vista l’esperienza, ormai matura e collaudata, della Famille Subiaco in Francia potrebbe fungere da vettore per un cammino di Congregazione nel suo insieme. Una prima tappa potrebbe essere l’associazione piena alla Congregazione dei monasteri non ancora federati ma già associati, senza accogliere altri monasteri di monache almeno per un tempo. In tal modo, con i monasteri di monache con cui già si è fatto un cammino comune (quelli di Francia, Africa, Vietnam e i due/tre in Italia) si potrebbe lanciare il processo di una integrazione reale delle monache nella Congregazione: perché insieme è meglio! Se così fosse ci sarebbe da ripensare il funzionamento del capitolo generale e del consiglio dell’abate presidente. Il primo passo è di lasciarsi interrogare generosamente da quanto viene detto in Vino nuovo per otri nuovi (cf. Testimoni 4/2017 p. 6) dove si afferma che la relazione con le monache esige il superamento della diffidenza, per aprire spazi di reale partecipazione, per uscire dagli schemi maschilisti e clericali.9 Se questo cammino è già molto avviato in Francia forse non lo è in altre provincie della Congregazione.
La clausura monastica
Un aspetto che comporta l’attuazione della Vultum Dei quaerere e della Cor Orans riguarda la scelta da parte dei monasteri del tipo di clausura da adottare e da osservare. Nella visione di una integrazione più forte nella nostra Congregazione dei monasteri di monache la scelta del tipo di clausura – papale o costituzionale/monastica – è un ambito importante non solo di discernimento pratico, ma anche di rivelazione dell’identità propria dei monasteri di monache legate alla tradizione «sublacense». Mi sembra che sarebbe più adeguato che i monasteri che si riconoscono nel cammino della nostra Congregazione non adottassero, per principio e unanimemente, la clausura papale scegliendo, invece, la clausura monastica.
Si comprende come una simile scelta potrebbe ferire o mortificare la sensibilità di alcune monache e forse persino di alcuni monasteri nel loro insieme. Infatti, per alcune monache la clausura papale ha rappresentato una forma di dedizione totale. Purtroppo, la Cor Orans, anche per venire incontro alla destabilizzazione e preoccupazione di alcuni monasteri o singole monache in particolare di tradizione clariana e carmelitana, è regressiva rispetto al modo con cui la Vultum Dei querere parla della clausura. La relativizzazione della clausura che è recensita come un elemento tra altri dell’insieme della vita monastica nella Costituzione Apostolica (VDq 12), ritrova nella Cor Orans tutto il suo peso di eccellenza e, per alcuni aspetti, di discriminazione fra modi di incarnazione concreta della vita monastica. Il modo di osservare la clausura è nuovamente, a mio parere, mistificato in modo incompatibile con quanto espresso nella Gaudete et Exsultate. Nell’ultima esortazione apostolica di papa Francesco prevale l’orizzonte di una vita di santità nella Chiesa e nel mondo contemporaneo non più nel senso dell’eccellenza, ma dell’eccedenza. Di questa eccedenza ogni discepolo è chiamato a vivere, in forza del battesimo, nel suo stato di vita e nelle sue situazioni esistenziali concrete.
Prima di formulare una suggestione circa la scelta della forma di clausura, cerco di evidenziare alcuni aspetti presenti nella Cor Orans. Prima di tutto va rilevata la definizione ambigua dell’identità delle monache con cui l’istruzione si apre. Non è chiara la differenza tra monache, canonichesse e contemplative quando la Cor Orans afferma: «La Chiesa, fra le donne consacrate a Dio mediante la professione dei consigli evangelici, designa le sole monache all’impegno della preghiera pubblica, che in suo nome innalzano a Dio, come comunità orante nell’ufficio divino da celebrarsi in coro» (Co 1). Nell’Istruzione viene ribadita la «funzione primaria del culto divino» (Co 210) piuttosto che l’insieme degli elementi, armonicamente connessi, come avviene nella costituzione apostolica (VDq 12). C’è una distinzione legalistica di cui bisogna essere avvertiti: «Con il nome di vita contemplativa canonica non si intende quella interna e teologica alla quale sono invitati tutti i fedeli in forza del battesimo, ma la professione esterna della disciplina religiosa…» (Co 4). Questa distinzione comporta un’ambiguità di fondo che l’istruzione non riesce a superare – meglio sarebbe debellare radicalmente - una sorta di statuto di «eccellenza» che prevede una «legittima prescrizione o concessione della Santa Sede in favore di alcuni monasteri» (Co 3) e questo è previsto in merito alla sola clausura e non agli altri elementi propri della vita monastica come la lectio, il lavoro, la condivisione.
Cor orans: un passo indietro?
La clausura, che, a partire dal testo, permette di rilevare il livello di autenticità e riconoscibilità monastica, rischia di identificarsi, qualitativamente parlando, con quella «papale» che sembra assicurare, in modo più affidabile, gli elementi di esclusività. Per questo la separazione (Co 157) diventa una sorta di condizione favorevole per l’«interiorizzazione del Vangelo» (Co 162). A ben guardare, proprio il Vangelo spingerebbe piuttosto verso l’esodo e l’impasto con la vita di tutti. Il fatto di identificare la clausura quasi come forma garante di un «dono pieno» (Co 234) resta non solo ambiguo, ma forse spiritualmente pericoloso. Penso in particolare alle illusioni spirituali e le conseguenti delusioni che uno «stato oggettivo di eccellenza» può creare nelle monache. La Verbi Sponsa (l’istruzione che precede la Vultum Dei quaerere) viene derogata in alcuni passaggi, ma a differenza della Vultum Dei quaerere, sembra confermata nell’impianto di fondo soprattutto dal punto di vista della dottrina spirituale. Se è vero che, in conformità alla costituzione apostolica (VDq), la scelta della forma della clausura rimane una questione interna alla comunità e all’istituto, la pressione di «eccellenza» rimane ed è proprio questa ad essere dannosa. La Cor Orans cercando di salvare una certa idea di clausura come forma di una sensibilità spirituale si barcamena inevitabilmente tra le due tentazioni rilevate da papa Francesco nella Gaudete et Exsultate: gnosticismo e pelagianesimo. Mi accontento di citare un solo passo della Gaudete et Exsultate per far risentire l’innegabile tensione ermeneutica con l’impianto teologico-spirituale della Cor Orans: «Molte volte abbiamo la tentazione di pensare che la santità sia riservata a coloro che hanno la possibilità di mantenere le distanze dalle occupazioni ordinarie, per dedicare molto tempo alla preghiera. Non è così. Tutti siamo chiamati ad essere santi vivendo con amore e offrendo ciascuno la propria testimonianza nelle occupazioni di ogni giorno, lì dove si trova».10
In ogni modo, si impone di ricordare una data: il 1298 (Co 183). Questo riferimento cronologico-storico oggettivo, comporta che le monache benedettine si sentano parte di una tradizione più ampia e remota di ciò che è avvenuto dopo la decisione di Bonifacio VIII. La nostra tradizione propria affonda le sue radici nel monachesimo primitivo ed indiviso, tanto da autorizzarle a non identificarsi, sic et simpliciter, con la tradizione latina.11 La tradizione benedettina antica e medievale non ha fatto distinzioni tra la clausura dei monaci e delle monache pur con differenti sensibilità sia tra i monaci che tra le monache. Basti pensare all’incontro di Benedetto e Scolastica e alle peregrinazioni e predicazioni di Ildegarde di Bingen e non solo. Va rilevato che la mistica della clausura viene confermata da Cor orans e non «riformattata» realmente a partire dalle Vultum Dei quaerere e Gaudete et exsultate.
Mi accontento di rilevare alcuni elementi: si parla di «nozze» (Co 185) che, in realtà, sono al cuore della vocazione nell’Ordo Virginum restaurato dal concilio che rimanda ad una rivisitazione storica e spirituale delle prime esperienze di consacrazione femminile proprio nella tradizione latina. A titolo esemplificativo nel rito orientale della consacrazione monastica l’anello viene evocato in riferimento al ritorno a casa del figliol prodigo e non alle nozze mistiche. Si amplificano gli elementi di integrità e identità (Co 186) piuttosto che lo stato perenne di «conversione di vita», rischiando di far pendere la bilancia verso l’astrattezza e l’elitismo spirituale oggettivo e non esistenziale (Co 187). Si ritorna ad un modo di pensare alla clausura in termini di materialismo radicale e ambiguo: deve essere «concreta ed efficace» (Co 188 c), «più severa» (Co 189) a «tutela» della «coerenza» monastica (Co 190 e194).
Siamo ancora posti di fronte ad una sorta di discriminazione tra monache: si parla di altre (Co 203) che avrebbero il «difetto» di aprire spazi e tempi di «accoglienza e diaconia» (Co 204).
Monasteri che traspirano
Alcune domande a questo punto si impongono per osare una proposta di atteggiamento profetico condiviso per i monasteri che si riconoscono nella Famille Subiaco.
Com’è possibile scegliere la «clausura papale» che esclude in linea di principio «apostolato e carità cristiana» (Co 205) se si vuole seguire lo spirito e la lettera della Regola su cui facciamo professione? Purtroppo, la Cor Orans riprende sotto altre parole la distinzione tra clausura maggiore e clausura minore che la Vultum Dei quaerere accuratamente evita di rammentare, mettendo sullo stesso piano le «quattro forme di clausura» (VDq 31). In tal modo, forse inconsapevolmente, si rimette in gioco una pressione spirituale di eccellenza oggettiva che nella VDq aveva fatto posto all’eccedenza evangelica che passa attraverso la composizione armonica dei dodici elementi (VDq 12) che fanno l’insieme della vita monastica «intrinsece inter se connexis» per citare il Concilio.12
Che ne è della provocazione profetica della scelta di papa Francesco di andare, volutamente, al monastero di Sant’Antonio dell’Aventino il 21 novembre 2013 verso la conclusione dell’anno della fede, indetto da Benedetto XVI per commemorare il giubileo dell’apertura del concilio Vaticano II? Come ebbe a spiegare ufficialmente mons. Fisichella, fu scelto questo monastero tra tutti quelli di Roma proprio perché le monache camaldolesi, tra le quali era vissuta la reclusa sr. Nazarena, da anni avevano deciso di condividere la mensa della Parola di Dio con la Lectio divina aperta a tutti e una mensa per i poveri approntata nei locali del monastero. La scelta era caduta proprio su uno dei monasteri ove meno si avverte la clausura «in modo radicale, concreto ed efficace» (Co 188c).
Può un monastero di monache che osservi la Regola di Benedetto osservare la clausura papale in linea di principio e in forma pratica? Basti riprendere il principio di «complicazione» che papa Francesco fa risalire proprio a san Benedetto.13 Al contrario, la disciplina della clausura papale è, almeno in linea di principio, un tentativo di semplificazione «preservativa» della vita contemplativa femminile.
La clausura dei monaci e delle monache non ha motivo di essere tra loro diversa (Co 209); questo aiuterebbe anche gli stessi monaci in una verifica della propria fedeltà alla Regola e alla propria tradizione. In Oriente le monache godono della stessa libertà e sono sottoposte alle stesse esigenze dei monaci, come è stato in antico nei monasteri benedettini e com’è attualmente in una delle esperienze monastiche universalmente ammirata come la comunità di Bose.
Il tenore della Cor Orans fa cadere, de facto, la visione della VDq che riconosce come: «La pluralità di modi di osservare la clausura all’interno di uno stesso Ordine deve essere considerata una ricchezza e non un impedimento alla comunione, armonizzando sensibilità diverse in una unità superiore» (VDq 31). Questo avviene già nel modo di vivere concretamente e tanto diversamente la clausura monastica nei monasteri maschili all’interno della nostra stessa Congregazione, per non parlare della Confederazione dell’Ordine di san Benedetto.
L’ambigua «eccellenza»
Alla luce di questi elementi, mi verrebbe da dire che le monache che professano la Regola di san Benedetto dovrebbero per principio preferire la clausura monastica a quella papale. Questo non per capriccio o per scegliere una forma meno austera ed esigente di separazione dal mondo. Al contrario questa scelta preferenziale andrebbe fatta per fedeltà, se vogliamo usare il linguaggio della Cor Orans, al proprio “carisma” benedettino. Rinunciare alla clausura papale non significa necessariamente annacquare la pratica della separazione dal mondo, ma riconoscere che la complessità e l’insieme dei diversi elementi elencato dalla Vultum Dei quaerere fanno il «mistero» e il ministero della vita monastica. Si potrebbe persino dare il caso che un monastero di uomini o donne, che sono tenuti ad osservare la clausura monastica la vivano persino in modo più esigente di quanto lo si faccia in monasteri di «clausura papale». Ma questo diventa il frutto di un costante discernimento interno della comunità che tiene conto della particolare storia, dell’inserzione ecclesiale e sociale, come pure del cammino e delle evoluzioni personali dei fratelli e delle sorelle. Pur senza abbracciare la «clausura papale», si potrebbero trovare comunità ove la separazione dal mondo e la solitudine siano particolarmente vissute, come pure singoli monaci e monache che vivono tempi di vita eremitica e persino di reclusione. Al contrario, nella stessa legittimità e pari autenticità monastica vi potrebbero essere comunità particolarmente presenti sul territorio o monache che vivono tempi di maggiore servizio e presenza nella Chiesa e nella società. Ciò che garantisce l’autenticità è la comunione con il corpo vivo della comunità in cui ciascun membro esprime una parte della ricchezza del tutto.
Alla luce di quanto rilevato finora, a mio modesto parere, i monasteri e le monache che si riconoscono nella sensibilità Famille Subiaco dovrebbero concordemente abbracciare la clausura monastica non assumendo quella «papale», anche per dare un chiaro segnale di discernimento su ciò che siamo chiamati a vivere e a testimoniare come monaci e monache nel mondo contemporaneo per cui la Chiesa intera deve essere segno di speranza impastato, non «faro» (Co 49) isolato o parafulmine appartato. Questo discorso sulla clausura è in diretto legame con la scelta di camminare veramente insieme, monaci e monache, con una medesima visione monastica continuamente verificata e perfino corretta.
Meticciato di carismi:una vita che si amplifica
Arriviamo finalmente alla seconda domanda di madre Marie circa «La presenza di un monastero benedettino di vocazione ecumenica a Gerusalemme». Mi sembra che ci siano in gioco due elementi da tenere presenti per il discernimento. Il desiderio dell’Amministratore apostolico che il monastero resti di «Benedettine» e la possibilità che il monastero diventi la casa di una koinonia di comunità che vivano nella condivisione della preghiera e della diaconia. Una koinonia di comunità non necessariamente prevede uno stile di vita compatto e univoco, ma può lasciare spazio a elementi di diversità per diventare segno di una comunione possibile. Una domanda mi sorge nel cuore: «Cosa rende un monastero autenticamente benedettino?».
Pensare al futuro della presenza al Monte degli Ulivi mi sembra debba passare attraverso il tentativo di rispondere a questa domanda: «Che cosa garantisce il “carattere benedettino” di un monastero? L’abito, il soggolo, il gregoriano…?». Sarebbe interessante porre questa domanda a mons. Pizzaballa. Basta far venire delle monache che siano benedettine dall’Africa o dall’America Latina per garantire la continuità della presenza benedettina al Monte degli Olivi? Inoltre, bisognerebbe distinguere chiaramente se la preoccupazione e l’intento è quello di salvare un luogo o di garantire una presenza viva in un luogo. Penso che nel momento attuale sia possibile chiudere qualunque monastero inteso come luogo pregiato da salvare per ragioni storiche. Ciò che, in realtà, permette di cercare il modo di assicurare un futuro ad un luogo è la qualità di una presenza di fratelli o sorelle che, pur nella loro fragilità, vogliono perseverare nel combattimento spirituale della comunione in un dato luogo. La comunità e il suo carattere di segno profetico è primario sul luogo da abitare.
Una collaborazione coraggiosa
Proprio in occasione del colloquio a Poitiers, durante la tavola rotonda cui ero stato invitato a partecipare, ho insistito nel mio intervento sulla bontà di un «meticciato tra carismi». È necessario tirare fuori dalla naftalina il carisma per affrancarci da una perniciosa idolatria dei fondatori e delle tradizioni carismatiche. La Congregazione benedettina del Monte Calvario è una testimonianza storica di questo meticciato, visto che al principio della sua fondazione l’ispiratore è un frate cappuccino e non un monaco benedettino. Per quanto riguarda la presenza al Monte degli Ulivi, tenuto conto dello spirito della Famille Subiaco, ritengo che ci possa essere più speranza di continuità con le sorelle di Grandchamp che non con delle monache benedettine provenienti da altri contesti geografici ed ecclesiali con sensibilità meno abituate alla complessità di una presenza in Israele.
Ho avuto occasione di conoscere da vicino la comunità di Grandchamp nel maggio scorso, quando ho predicato il ritiro della chambre haute alla comunità. L’impressione che ho avuto è di una comunità femminile autenticamente monastica. senza le inutili complicazioni che spesso si trovano nei nostri monasteri femminili. Per suffragare questa mia valutazione rilevo alcuni elementi: Il silenzio. Le sorelle vivono in un bel raccoglimento abituale tanto che ci si sposta anche tra la cappella e gli altri ambiti di vita con naturalezza e discrezione. Ci si sente continuamente richiamati al raccoglimento, ma senza sentire una imposizione esterna e formale di un silenzio che, talora, nei nostri monasteri è innaturale e non raramente teatrale. La clausura. A Grandchamp gli spazi sono condivisi con gli ospiti senza distinzione né di sesso né di sensibilità religiosa. Ciò avviene con semplicità e, nello stesso tempo, senza confusione. In particolare, in cappella e in refettorio gli ospiti si muovono – uomini e donne – con semplicità, ma con una grande discrezione e rispetto reciproco. La discrezione non è garantita da barriere di clausura, ma da una chiarezza di relazione che, continuamente, le sorelle sono in grado di mettere in atto con semplicità e fermezza: inavvertitamente ma in modo efficace. La preghiera. Vi è una fedeltà agli Uffici che hanno il pregio di non esaurire la volontà di pregare, ma quasi la coltivano in una sobrietà contemplativa che dovrebbe interrogare ciò che nel nostro mondo benedettino rischia di essere ancora aulico e, talora, spiritualmente estenuante.
L’abito. Le sorelle di Grandchamp, che pure si radicano nella tradizione della Riforma, portano un abito che dice la differenza senza indulgere a nessuna forma di violenza simbolica. La diaconia. Il lavoro, l’accoglienza, la presenza… vengono vissuti con una forza quasi virile che rende il servizio verso gli altri un elemento forte e leggibile.
Carisma: motore non armatura
Anche solo questi elementi mi sembrano sufficienti per dire che una «comunione di comunità»14 al Monte degli Ulivi sarebbe auspicabile. Anche perché le sorelle di Grandchamp, oltre ad avere una sensibilità più ampia di quella presente normalmente nei nostri monasteri, condividono alcuni elementi propri della nostra tradizione sublacense segnata dall’internazionalità e una osservanza monastica diversificata fin dall’inizio della Congregazione. Pensare e provare un’esperienza di condivisione di una presenza a servizio di una porzione di Chiesa e di umanità in un luogo che ci appartiene condividendo l’esperienza con altri, può diventare una esperienza pilota. La Cor Orans insiste molto sulle tradizioni carismatiche e sugli istituti, ma forse bisogna immaginare una comunione tra carismi capace di travasare i doni per aumentare e amplificare le possibilità di vita e di diaconia. Non va dimenticato quanto e come la Regola e la Vita di san Benedetto rappresentano una capacità di accogliere la sfida dell’integrazione a vari livelli: per esempio quello tra romani e barbari, tra nobili e poveri, tra istruiti e ignoranti. In realtà ciò che chiamo meticciato fa parte della nostra tradizione, oltre al fatto che ogni fissazione endogamica impoverisce la vita e talora crea anche delle malattie genetiche.
Il fatto poi che le sorelle di Grandchamp abbiano una radice nella Riforma potrebbe essere un arricchimento non solo per la comunità del Monte degli Ulivi, ma per l’intera Congregazione. Il rinnovamento conciliare, cui siamo richiamati dal magistero di papa Francesco, può trovare nella tradizione riformata una ricchezza di attitudine e di sguardo sul nostro modo di essere monaci nel nostro tempo. Il fatto che, dopo aver negato la compatibilità evangelica della vita monastica all’epoca della Riforma, la vita monastica sia stata rivitalizzata nelle comunità riformate, può darci elementi preziosi per ritrovare il filo rosso di una compatibilità evangelica delle nostre stesse tradizioni e abitudini. In questi ultimi decenni ci siamo molto misurati con la tradizione del monachesimo orientale per ritrovare la nostra radice, un confronto altrettanto generoso con la Riforma potrebbe aprire orizzonti più chiari di rinnovamento per aprire piste verso il futuro.
La prospettiva del provvisorio in cui viviamo e la continuità nella prospettiva della speranza, esigono una necessaria ri-comprensione del carisma. L’insistenza sul carisma rischia di creare, dopo il giusto riconoscimento della propria differenza e particolarità, un’esagerazione – talora persino una mistificazione - delle proprie tradizioni e delle proprie originalità. Queste originalità, talora, non corrispondono alla verità riguardo al passato e non sono compatibili con le esigenze del presente. Se è vero che bisogna prendersi cura delle istituzioni in cui viviamo, non bisogna fissarsi sul carisma, cedendo ad una sorta di accanimento terapeutico. Non è il caso di cedere alla mistificazione di realtà, i carismi, che sono la risposta al dono di Dio in un contesto preciso della storia; tutti i carismi sono espressione incarnata di un anelito spirituale e che, in condizioni mutate, devono accettare di ricomprendersi e reinventarsi. Per questo, con semplicità, bisogna allearsi fino a confluire, mettendo insieme le forze per rinnovare la speranza di tutti, senza lasciarsi irretire dal principio astratto di una fedeltà al carisma «fino alla morte». Questa fedeltà la si deve solo al Vangelo e a niente altro, solo a Cristo e a nessun altro, neppure a san Benedetto! Non sono le persone che devono tenere vivo il carisma, ma è il carisma che deve tenere vive le persone e permettere a ciascuno di vivere fino in fondo la propria avventura discepolare in pienezza e in comunione autentica e amplificata.
In un contesto come il nostro, sempre più sensibile ai temi dell’ecologia e in cui si sente sempre più spesso parlare di energie rinnovabili, potremmo dire che, per quanto riguarda il carisma, bisogna cominciare ad intenderlo non come un’ispirazione dei fondatori, che costringa quasi a tenerli in vita a tutti i costi e talora in modo patetico, ma come un patrimonio da ricevere con gratitudine e da amministrare con intelligenza e scaltrezza. Sarebbe bello cominciare a pensare in termini di «carisma rinnovabile», per sottrarsi così alla tentazione di una rianimazione artificiale di carismi che hanno fatto il loro corso e non hanno più un impatto profetico sulla storia e una possibilità vivificante reale per i fratelli e le sorelle. Proprio la fedeltà al carisma può richiedere il semplice riconoscimento del suo spegnersi storicamente, senza mai permettere che lo sforzo di tenere in vita il carisma, spenga, invece, le persone. Scegliere di tenere vivo un luogo come il monastero del Monte degli Ulivi penso debba comportare una scelta non a favore del luogo, ma delle persone concrete che accettano di abitarlo per vivere e non, prima di tutto, per non farlo morire. Potrebbe essere una bella sfida e una bella prova di quel travaso di energie rinnovabili di cui abbiamo urgente bisogno per passare dall’immobilismo conservatore alla gioia di mescere gioiosamente il vino di una speranza condivisa.
Viriditas – vitalità
Mi rendo conto che nel desiderio di dare una risposta a madre Marie, mi sono fatto prendere la mano da una riflessione forse esagerata e inutile. La condivido con semplice fraternità, accettando già in anticipo che la maggior parte di quello che ho scritto non serva. Lascio ad altri di scegliere con libertà. In conclusione, vorrei dire che la provocazione delle sorelle della Congregazione del Monte Calvario in occasione del loro centenario e del loro Capitolo Generale può essere provvidenziale per condividere una visione della vita monastica che ci rimetta in marcia verso il domani di Dio, andando oltre la nostalgia di noi stessi. Il motto di padre Muard «une vie humble, pauvre et mortifié» (una vita umile, povera e mortificata) potrebbe diventare per noi oggi: assumere e onorare una vita monastica «fragile, vera, solidale». Con semplicità e umiltà siamo chiamati ad uscire dal senso di colpa di non essere come i i nostri padri, per accogliere la grazia di sentirci come loro in cammino. In realtà non siamo né peggiori, né migliori, ma siamo più fortunati di loro, perché godiamo di una intelligenza della nostra umanità e del Vangelo che, grazie a quanti ci hanno preceduto, è più matura, più profonda, più ampia. Come ricorda padre Ghislain siamo in un tempo propizio e non catastrofico, perché possiamo realmente vivere insieme un incremento di intelligenza e di amore: «Vi è dunque una sorta di costruzione dell’umanità alla luce progressiva del messaggio evangelico e una costruzione della Chiesa alla luce di una migliore conoscenza dell’uomo».15
Per poter procedere in un rinnovamento reale delle nostre strutture e delle nostre abitudini è necessario prendere coscienza della «doppia invenzione» della vita monastica, fatta passare per una necessaria restaurazione della vita monastica. Penso alla invenzione con la sottolineatura liturgica di Solesmes e la preminenza ascetica della Pierre-qui-Vire.16 In tal senso potremmo porci una domanda: quello che viviamo in questo tempo di inevitabile cambiamento è l’esperienza positiva, per quanto destabilizzante, del serpente che cambia la sua pelle o di un elefante moribondo e immobile su cui già banchettano gli avvoltoi?
Considerazioni finali
Siamo in una stagione di cambio; quello che è il deposito della nostra storia ha bisogno di qualcosa di più, soprattutto nel capire chi siamo come monaci e monache, e come ci inseriamo nella società e nella chiesa senza cedere alla tentazione della nostalgia di noi stessi o a quella di una mistificazione elitaria ed infondata della nostra forma di vita.
Siamo in un cambio di epoca con un mutamento di sensibilità umana, dove la cultura stessa prende nuove dimensioni. Non basta più quello che ci è stato dato dalla tradizione e dalla storia dell’inizio. Questo nuovo inizio esige di ricentraci sulla doppia fedeltà: al Cristo e al mondo in cui viviamo, e di cui siamo intimamente e realmente parte.
È un momento di grande responsabilità per noi monaci chiamati a vivere questo tempo prezioso di transizione e di incremento di intelligenza del Vangelo che esige l’adesione ad un processo non già di riforma, ma di «riformattazione» della nostra forma di vita. Questo è necessario anzitutto per collocarci con coerenza nel momento attuale della storia della chiesa e dell’umanità e per dare a quelli che verranno dopo di noi non qualcosa che muore – come sta accadendo in molte nostre comunità –, ma un’apertura verso qualcosa di vivo e di vitale per aprirci alle «sorprese del Signore».17
Quando il Signore si rivolgeva alla sua serva Ildegarde, che la tradizione definisce profetessa e visionaria, le diceva perentoriamente: Surge vir! (in piedi, o uomo). Ildegarde di Bingen ci ha tramandato una messe di visioni e di rimedi. Aldilà delle dottrine e delle pozioni ereditate da questa donna virili pectore, con lei possiamo imparare l’arte della visione come premessa necessaria di ogni soluzione perché la vita sia buona, bella e vera. Ildegarde invitava le sue monache e i suoi lettori-ascoltatori ad accogliere a piene mani la viriditas. La viriditas per Ildegarde è l’energia vitale di ogni cosa, animata e inanimata, non escluse le pietre. Questa energia vitale è ciò che porta gli alberi a far esplodere le loro gemme, oppure le donne ad essere madri, o semplicemente ad essere belle: «Sono l’energia suprema e fiammeggiante che trasmette fuoco a ogni vivente scintilla…sono la lucente vita dell’essenza divina; scorro splendente sui campi, brillo sulle acque, brucio nel sole, nella luna e nelle stelle…Insieme al vento ravvivo tutte le cose con energia invisibile e onnipresente…Forza che penetra fino alle più alte altezze e in tutte le profondità, che lega insieme e fa maturare tutte le cose…da lei le nubi ricevono il loro movimento, l’aria il suo volo, le pietre la loro consistenza, per lei l’acqua zampilla in ruscelli e per causa sua la terra fa nascere le piante».
La mancanza di viriditas, secondo Ildegarde, è la causa di ogni malattia, di ogni tristezza e forma depressiva, e anche per questo le sue monache si vestivano di bianco oppure di verde tenero, con stoffe morbide, lasciando spesso stupefatti i severi visitatori del monastero. Nessuna visione ci sarà possibile senza questa voglia di vita che si fa mite e virile accoglienza di questa vitalità che rimette in moto la vita e la rende dolce, amabile, vivibile. Vorrei concludere con una frase di Hemingway: «Non c’è nulla di nobile nell’essere superiore a qualcun altro, la vera nobiltà è essere superiori a chi eravamo ieri». Questa frase suggestiva potrebbe aprire il nostro cuore orante ad una visione sempre più adeguata alle sfide offerte alla nostra generazione di monaci e monache che, come tutte quelle che ci hanno preceduto, vorrebbe essere «una generazione che cerca il Signore» (Sal 23). Questa ricerca è da compiersi nel tempo e nello spazio della realtà di cui siamo parte non purtroppo, ma grazie a Dio. Siamo chiamanti a ripartire evangelicamente dal «polo della piccolezza»18 accolta e non dalla frustrazione dei nostri incantesimi infranti che generano un amaro disincanto. Non ci resta che chiedere insieme il «vigore» per il nostro «santo viaggio» (Sal 84).
Fr. Michael Davide Semeraro
1.Cfr. La protesta della vita contemplativa. Una sfida da cogliere, EDB 2017.
2.Evangelii Gaudium, 234.
3.A titolo esemplificativo cito solo due monaci della nostra Congregazione: padre Ghislain Lafont, a favore della “riformattazione” teologica di papa Francesco, e don Giulio Meiattini, chiaramente negativo sul tentativo di ricomprensione globale della vita di Chiesa da parte del Magistero papale attuale.
4.Evangelii Gaudium, 222ss.
5.EDB 2017.
6.Ibidem, p. 30.
7.Ibidem, p. 72.
8.Cfr. Relazione al Capitolo Generale 2016 di padre André-Jean Damaugé.
9.Per vino nuovi otri nuovi, 18.
10.Gaudete et Exsultate, 14.
11.A titolo esemplificativo faccio notare che in Grecia una piccola sorella di Gesù viene chiamata monaché come tutte le altre monache dei vari monasteri. In un testo assai interessante tutti gli ordini religiosi che normalmente distinguiamo in monastici e non vengono catalogati nello stesso genere (a cura di WILLIAM M. JOHNSTON Enciclopedia of Monasticism, Chicago and London 2000, 2 volumi).
12.Cfr. Dei Verbum, 2.
13.Cfr Gaudete et Exsultate, 102.
14.In Italia abbiamo già l’esperienza del monastero benedettino di Civitella San Paolo, dove le nostre monache vivono con un gruppo di sorelle di Bose in una forma di “meticciato” che permette una continuazione piena della vita del monastero.
15.G. Lafont, Piccolo saggio…, p. 28.
16.In proposito sarebbe utile riprendere la riflessione di Danièle Hervieu-Léger in Le temps des moines, PUF, 2017, in particolare vedi pp. 39ss e 112ss.
17.Gaudete et Exsultate, 139
18.X. Le Pichon, Alle radici dell’uomo, Messaggero 2002, pp. 34