La Mela Maria Cecilia
Diversità di vocazioni un unico amore
2018/10, p. 14
Il rito del matrimonio richiama «l’amore sponsale di Dio per la Chiesa sua diletta sposa», per cui negli sposi, come nei consacrati, risplende «la veste nuziale della Chiesa». La verginità e la sponsalità – vengono espresse nelle due celebrazioni, illuminandosi a vicenda.

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L’amore sponsale nel rito del matrimonio e della VC
DIVERSITÀ DI VOCAZIONI
UN UNICO AMORE
Il rito del matrimonio richiama «l’amore sponsale di Dio per la Chiesa sua diletta sposa», per cui negli sposi, come nei consacrati, risplende «la veste nuziale della Chiesa». La verginità e la sponsalità – vengono espresse nelle due celebrazioni, illuminandosi a vicenda.
Il 28 novembre 2004 è entrato in vigore il nuovo rito italiano del matrimonio. Oltre a ritoccare alcune formule, prevede la possibilità che i fidanzati, insieme con il celebrante, scelgano tra varie formule alternative di cui il nuovo rituale italiano è stato arricchito. Seguendo l’indicazione del Concilio, non solo prescrive di non omettere mai la solenne benedizione degli sposi, ma ne prevede quattro formule alternative. Aggiunge anche, dopo la preghiera dei fedeli, una breve litania, per chiedere l’intercessione dei Santi. Queste variazioni fanno subito balzare agli occhi una più evidente analogia con il rito della professione religiosa. Nella sinossi tra i due testi che vorremmo presentare facciamo riferimento al rito della professione monastica, tenendo conto che a questo formulario i liturgisti si sono ispirati anche a riguardo della professione di religiosi di vita apostolica. In questi vari riti e formulari ciò che emerge in modo precipuo è la vocazione – matrimoniale o di speciale consacrazione – come dono di Dio espressa e simboleggiata dalla tematica della sponsalità. Il legame tra la verginità consacrata e l’unione sponsale deriva dal valore di segno di cui è portatore lo stesso vincolo coniugale. Lo ha spiegato bene santa Gertrude, monaca e mistica del XIII secolo: Lo Spirito Santo ha fatto sì che «benché nessun divieto avesse diminuito l’onore delle nozze e rimanesse intatta l’originaria benedizione sul santo vincolo coniugale, sorgessero anime eccelse che nel legame tra l’uomo e la donna non si curassero dell’unione nuziale, ma bramassero il mistero di cui essa è sacramento, e senza imitare quanto avviene nelle nozze, ne amassero il significato che esprimono».
L’Amore sponsale
di Dio per la Chiesa
Già dalle prime mosse, il rito del matrimonio richiama «l’amore sponsale di Dio per la Chiesa sua diletta sposa», per cui negli sposi – come nei consacrati – risplende «la veste nuziale della Chiesa». La Chiesa tutta, infatti, è la vergine sposa di Cristo. Queste due connotazioni della Chiesa – la verginità e la sponsalità – vengono espresse nelle due celebrazioni, dove prevale l’una o l’altra, ma senza opporsi, anzi illuminandosi a vicenda.
Gli sposi e i consacrati sono anzitutto battezzati che hanno risposto ad una specifica chiamata di Dio modulata per ciascuno secondo il progetto da Lui voluto da sempre. Tutti siamo chiamati, con il sostegno della grazia, a santificarci nello specifico stato di vita abbracciato dopo un attento periodo di discernimento e di preparazione. Nel nuovo formulario del rito nuziale, infatti, il celebrante prega per i futuri sposi perché «accolgano il dono del matrimonio, nuova via della loro santificazione».
Noi religiosi e religiose viviamo una particolare e intensa esperienza dell’amore, innanzitutto l’amore in Dio e per Dio dove ritroviamo tutto e tutti. Dovrebbe essere così per ogni cristiano e anche per le coppie di sposi il cui amore non è a senso unico, ossia reciproco soltanto, ma sempre fondato in Dio. È l’amore di Dio che alimenta l’amore degli sposi, in esso il loro amore è sempre fresco, sempre bello, oltremodo nuovo perché, appunto, è un dono.
La stessa cosa è per noi consacrate: la nostra è stata una risposta d’amore all’iniziativa di Dio, una donazione piena allo Sposo divino e, di conseguenza, alla comunità nella quale questa adesione trova concretezza e spessore. Quando c’è un innamoramento molto forte – e guai se non ci fosse – tutto trae forza, origine e direzione da esso. Anche se poi con gli anni lo slancio amoroso cambia modalità perché è nella legge della natura, il fatto però che si cammini insieme, condividendo gioie e difficoltà, conferma che la luce dell’innamoramento ci guida anche in quei momenti in cui ci si può sentire più stanchi, meno entusiasti, quando non sempre è facile capirsi e, a volte, anche accettarsi. Diceva papa Benedetto XVI (Messaggio ai giovani, 23 marzo 2010) che fedeltà è il nome che l’amore prende nel tempo.
Ecco quella luce: ci siamo innamorati, abbiamo acconsentito ad una dichiarazione d’amore. Nella Bibbia Dio emerge come un inguaribile innamorato, un corteggiatore che nessun uomo può eguagliare: «Anche se i monti si spostassero e i colli vacillassero, non si allontanerebbe da te il mio affetto, né vacillerebbe la mia alleanza di pace» (Is 54, 10); «Ti ho amato di amore eterno» (Ger 31,3); «Ho scritto il tuo nome sul palmo della mia mano» (Is 49,16)… Il nostro Dio è proprio un Dio appassionato che ama perché è Lui stesso Amore e ha profuso questo sublime sentimento nell’animo di ogni uomo e donna sulla terra. Amore sponsale, amore paterno, materno, filiale, amicale, amore totale e totalizzante… L’amore è come un prisma, un cristallo: qualcosa di trasparente che, lasciandosi attraversare dalla luce, le permette di creare colori stupendi che esprimono vita, speranza, vivacità.
Sfaccettature
di un’unica vocazione
Per noi benedettini la liturgia è fondamentale. Conoscerla ci aiuta a pregarla e a viverla meglio; spesso non ci appassioniamo alle cose perché non le conosciamo. Il nuovo formulario del rito del matrimonio colpisce perché in esso si possono rintracciare, ancor più che in quello precedente, passaggi comuni al rito della professione monastica: questo conferma come le vocazioni sono sfaccettature di un’unica vocazione che si esprime in modalità particolari.
Partiamo dal fatto che sia quella monastica che quella matrimoniale sono entrambe una consacrazione. Lo dicono i due testi – rito del matrimonio e rito della professione – che vogliamo porre l’uno di fronte all’altro. Per quest’ultimo facciamo riferimento al rito della professione perpetua delle monache – che si rifà all’antica Consecratio virginum – e, quindi, la nostra comparazione sarà modulata un po’ più al femminile.
Procederemo partendo sempre dal rito del matrimonio. Andiamo al titolo: Liturgia del matrimonio, come a dire agli sposi: tutto il vostro matrimonio è liturgia, non soltanto quel giorno. Così la professione. Tutti siamo fragili creature per cui la “celebrazione” permanente dell’amore, rinnovando quotidianamente il nostro “sì”, ci radica sempre più nell’affidamento a Dio che è la tutela del nostro per sempre. Gli sposi e i consacrati sperimentano così di non essere soli nell’impegno della perseveranza perché la loro vita è fondata sulla roccia che è Cristo. E l’umana fragilità viene superata proprio perché chi non viene mai meno nella sua fedeltà è il Signore.
La nuova liturgia del matrimonio comincia con la memoria del battesimo in quanto sono due battezzati che chiedono alla Chiesa di ratificare il loro desiderio di unire in Dio le loro vite. La tradizione monastica ha sempre considerato la professione una sorta di secondo battesimo, un mezzo per vivere in modo più radicale il nostro credo.
Anche gli sposi sono chiamati a vivere insieme la loro condizione di battezzati, condividendo il dono della fede e dell’amore. Dopo la memoria del battesimo c’è l’interrogazione prima del consenso. Questo avviene subito dopo la Liturgia della Parola. Inserita allo stesso momento, anche nel rito della professione c’è l’interrogazione detta “appello o domanda”. Questo perché il consenso, la fedeltà nuziale, la stabilità monastica, si radicano nella Parola di Dio. Viviamo nella certezza che questa divina Parola sarà luce quotidiana al nostro cammino, allo stare insieme che è fondersi, venirsi incontro, riconoscersi, accettarsi. Nel rito nuovo c’è “io accolgo te” piuttosto che “io prendo te”: il verbo accogliere sottolinea meglio il senso di sacralità: io ti accolgo nella mia vita riconoscendo che sei un dono sacro al quale dare rispetto, attenzione, tempo, ascolto. Il celebrante dice: «Carissimi N. e N., siete venuti insieme nella casa del Padre, perché la vostra decisione di unirvi in matrimonio riceva il suo sigillo e la sua consacrazione, davanti al ministro della Chiesa e davanti alla comunità. Voi siete già consacrati mediante il battesimo: ora Cristo vi benedice e vi rafforza con il sacramento nuziale, perché vi amiate l’un l’altro con amore fedele e inesauribile e assumiate responsabilmente i doveri del matrimonio». Gli sposi rispondono: Sì.
Al posto delle domande previe sulla libertà, l’indissolubilità e la disposizione ad accogliere i figli, il rituale italiano prevede che i fidanzati dicano: «Compiuto il cammino del fidanzamento, illuminati dallo Spirito Santo e accompagnati dalla comunità cristiana, siamo venuti in piena libertà nella casa del Padre perché il nostro amore riceva il sigillo di consacrazione». Gli sposi non sono soli, li accompagna la comunità cristiana, testimone del loro amore che riceve il suggello sacramentale. Anche nella professione l’assemblea viene più volte invitata a pregare per la candidata.
Il rito
monastico
Nel rito monastico della professione perpetua, dopo la liturgia della Parola e l’omelia, il celebrante interroga la novizia: «Figlia carissima, tu sei già morta al peccato e consacrata al Signore mediante il battesimo; vuoi ora consacrarti più intimamente a Lui con il nuovo e speciale titolo della professione perpetua?». La candidata risponde: Sì, lo voglio.
Abbiamo messo in evidenza questi due punti fondamentali, ossia la consacrazione e il battesimo, perché prima che essere sposi o monaci siamo cristiani.
Come abbiamo già evidenziato, il rito monastico, specialmente al femminile, mette in evidenza tutta la simbologia della sponsalità. La nostra consacrazione ha tutto il sapore, le parole di una festa di nozze. Il “sigillo di consacrazione” ci ricorda che non è un impegno per gioco; il Signore aveva detto una volta alla beata Angela da Foligno: «Non ti ho amato per scherzo».
Accoglienza
e consenso
Ed eccoci alla manifestazione del consenso nuziale. Il sacerdote invita gli sposi a rivolgersi l'uno verso l'altro e ad esprimere il loro benestare. Volgersi l’uno verso l’altro: già il fatto di guardarsi vuol dire che io riconosco l’altro. Segue poi lo sposo: «Io N., accolgo te, N., come mia sposa. Con la grazia di Cristo prometto di esserti fedele sempre, nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia, e di amarti e onorarti tutti i giorni della mia vita». Ugualmente la sposa.
Nella formula alternativa di consenso, lo sposo dice: «N., vuoi unire la tua vita alla mia, nel Signore che ci ha creati e redenti?». E la sposa risponde: «Sì, con la grazia di Dio, lo voglio».
Così pure nella professione monastica giganteggia il verbo accogliere. La neo-professa canta un versetto del salmo 118, l’usuale Suscipe me Domine… «Accoglimi Signore, secondo la tua parola, e non confondermi nella mia aspettazione».
Alla giovane che diventa monaca il sacerdote rivolge alcune domande tra cui: «Vuoi, con l’aiuto di Dio, abbracciare per sempre la vita di perfetta castità, obbedienza e povertà, che fu scelta da Cristo Signore e dalla sua Vergine Madre?». Sia nel matrimonio che nella professione il nostro “lo voglio” umano, fragile, diventa granitico con l’aiuto di Dio. Ti dico non perché sono forte, ma perché ho fiducia nella Tua grazia.
Segue nel rito nuziale l’accoglienza del consenso. Il sacerdote, stendendo la mano sulle mani unite degli sposi, dice: «Il Signore onnipotente e misericordioso confermi il consenso che avete manifestato davanti alla Chiesa e vi ricolmi della sua benedizione. L’uomo non osi separare ciò che Dio unisce». Parimenti nella professione il sacerdote così esorta l’assemblea: «Fratelli carissimi, rivolgiamo umilmente la nostra preghiera a Dio Padre, datore di ogni bene, perché confermi il santo proposito che egli stesso ha suscitato in questa sua figlia».
Ricapitoliamo le parole in comune rintracciate sin qui: battesimo, consacrazione, conferma, fiducia nella grazia di Dio…
Il segno
dell’anello
Un altro segno che ci accomuna è l’anello al dito segno di amore e di fedeltà. Nel rito del matrimonio c’è la cosiddetta benedizione degli anelli. «Il Signore benedica questi anelli, che vi donate scambievolmente in segno di amore e di fedeltà […]. Signore, benedici e santifica l'amore di questi sposi: l’anello che porteranno come simbolo di fedeltà li richiami continuamente al vicendevole amore».
Nel rito della professione il celebrante dice: «Ricevi, figlia carissima, questo anello: è il segno della tua unione nuziale con Cristo. Conserva fedeltà al tuo sposo, per essere da Lui ammessa alle nozze della vita eterna». Questo anello – noi monache lo portiamo nella mano destra – non è un cerchio che ci limita, che ci dà il senso della costrizione, invece è un qualcosa che ci apre perché è espressione del nostro cuore, segno, simbolo di amore incondizionato promesso per sempre.
Dopo lo scambio degli anelli, siccome singolarmente siamo deboli ma tutta la Chiesa nel suo insieme è santa, la liturgia ci fa invocare l’intercessione dei Santi, prima di tutto della Vergine Maria, icona e modello della più autentica sponsalità. Questo avviene anche nella professione perpetua mentre la candidata si prostra a terra. Nella litania dei Santi del rito nuziale giustamente vengono menzionati soprattutto uomini e donne santificatisi nella vita coniugale, in quella della professione figure di santità legate più a forme di consacrazione religiosa.
La benedizione
nuziale
Finiamo con la benedizione nuziale. «O Dio, guarda ora con bontà questi tuoi figli che, uniti nel vincolo del matrimonio, chiedono l'aiuto della tua benedizione: effondi su di loro la grazia dello Spirito Santo perché, con la forza del tuo amore diffuso nei loro cuori, rimangano fedeli al patto coniugale […]. In questa tua figlia N. dimori il dono dell'amore e della pace e sappia imitare le donne sante lodate dalla Scrittura». E, ancora, la seconda forma: «O Dio, stendi la tua mano su N. e N. ed effondi nei loro cuori la forza dello Spirito Santo. Fa’, o Signore, che, nell’unione da te consacrata, condividano i doni del tuo amore e, diventando l'uno per l'altro segno della tua presenza, siano un cuore solo e un'anima sola». Abbiamo preso degli spezzoni, ma davvero tutta la benedizione degli sposi è molto bella. Si chiede al Signore di guardare ora con bontà, ossia a maggior ragione adesso questi sposi in quanto la loro vita ha preso il percorso definitivo e il loro amore è consacrato, è legittimato. Inoltre, va notato che nella liturgia del matrimonio, lo Spirito Santo è nominato e invocato parecchie volte. Ugualmente nella professione monastica, perché non ce la faremmo da sole.
Pure sulla neoprofessa inginocchiata il celebrante, con le braccia stese davanti al petto, pronuncia la preghiera di benedizione, molto bella e ricca anch’essa. «O Dio, autore e custode del proposito santo….
Da Abramo, padre della nostra fede, hai suscitato un popolo più numeroso delle stelle del cielo e con Mosè, tuo eletto, hai sancito l’alleanza sulle tavole della legge. Da questo popolo che tu hai amato sorsero, nel corso dei secoli, donne sante, insigni per pietà e fortezza, gloriose per fede e santità di vita.
Ti supplichiamo umilmente, o Padre: manda lo Spirito Santo su questa tua figlia, perché alimenti la fiamma del proposito che tu hai acceso nel suo cuore. Risplenda in lei il candore del battesimo…».
E sia così per tutti i battezzati, per gli sposi, per le famiglie, per i consacrati a lode e gloria della Trinità Santissima.
suor Maria Cecilia La Mela osbap