Dall'Osto Antonio
Brevi dal mondo
2018/1, p. 37
Difficile ritorno dei cristiani I cristiani del Myanmar Le suore di Gesù Buon Pastore

Accedi alla tua area riservata per visualizzare i contenuti.

Questo contenuto è riservato agli abbonati a
Testimoni
.
IRAQ
Difficile ritorno dei cristiani
Non lontano da Mosul sorgono le rovine della biblica città di Ninive. A partire dal primo secolo i cristiani hanno popolato regione. Attualmente, dopo tre anni di occupazione della città da parte dei terroristi dello “stato islamico” (IS), l’eredità cristiana è ridotta a un cumulo di macerie. I fedeli sono stati uccisi o cacciati. L’arcivescovo di Mosul, Boutros Moshe, 74 anni, ha vissuto da vicino il dramma della fuga e della distruzione. Appartiene alla chiesa siro-cattolica e vive tuttora in esilio. Durante un recente viaggio in Europa è stato ospite, tra l’altro, dell’Accademia cattolica di Amburgo, dove ha rilasciato una breve intervista sulla difficile situazione dei cristiani nell’Iraq del nord, che, nonostante la liberazione, stanno lottando per la loro esistenza.
Durante il viaggio verso l’Europa il vescovo è passato per Mosul. Gli è stato chiesto che cosa ha visto. «Era mattina presto e piuttosto buio, – ha detto – ma ho visto una quantità di macerie. Il settore occidentale dove c’erano molte nostre chiese è completamente distrutto e per il momento inabitabile. Molti cristiani erano fuggiti, alcuni già prima dell’arrivo dell’IS. Ai tempi di Saddam Hussein a Mosul c’erano 10 mila cristiani. All’arrivo dell’IS, nel 2014, ne rimanevano ancora 2.000, oggi in città non è rimasto nessuno». «I cristiani – ha aggiunto – attualmente si trovano in gran parte nella regione dei villaggi del nordest o sudovest di Mosul. Ma molti sono anche nel Kurdistan».
Mons. Boutros Moshe vive già da alcuni anni a Karakosh, a circa 30 chilometri a sud est di Mosul. Gli è stato chiesto, com’è là la situazione dei cristiani. «Anche Karakosh – ha risposto – fu occupata dall’IS e tutti i cristiani dovettero fuggire. In questo tempo ho vissuto due anni e mezzo ad Erbil. Quando i terroristi nell’ottobre 2016 furono cacciati, saccheggiarono la città, incendiarono le case e distrussero le chiese. Anche se la situazione in Iraq attualmente non è ancora stabile, a Karakosh è in certo senso tranquilla. Molti cristiani, come ho fatto anch’io, sono tornati. Attualmente vivono qui da 400 a 500 famiglie. Ma c’è ancora molto da fare prima di poter avviare una vita normale».
«Il nostro popolo – ha dichiarato – è molto credente e i nostri sacerdoti sono molto impegnati. A Karakosh si celebrano ogni giorno cinque messe. Nei giorni feriali non viene molta gente, ma la domenica non basta il posto nelle nostre chiese e molti devono rimanere fuori».
«Le distruzioni dell’IS hanno provocato un forte shock nella gente. L’avvertenza diffusa diceva: se tornate indietro, vi annienteremo. Ma noi abbiamo una grande fiducia nel Signore e non ci lasciamo scoraggiare. Naturalmente dobbiamo stare molto attenti ed essere vigilanti affinché i conflitti del passato non abbiano nuovamente a ripetersi. Ma dobbiamo custodire la nostra cultura e la nostra storia di cui siamo orgogliosi. Per questo vogliamo continuare e andare avanti».
Anche se l’IS è stato vinto sul terreno – ha precisato il vescovo «l’ideologia estremista continua ad esistere. Perciò abbiamo bisogno di un forte governo secolare che applichi correttamente la Costituzione. Ci sono molti interessi in Iraq e non è escluso che ci capiti di essere vittime di un nuovo conflitto. Noi speriamo che il governo iracheno si tenga lontano dalle dispute etniche e religiose e che noi cristiani abbiamo ad essere considerati cittadini alla pari e vengano garantiti i nostri diritti.
Questo ci attendiamo anche dalla comunità mondiale da cui recentemente abbiamo sentito delle belle parole, ma noi vogliamo vedere i fatti».
Assieme ad altre Chiese della regione, mons. Boutros Moshe, ha creato un comitato con il compito di promuovere la ricostruzione. Gli è stato chiesto se ha in programma anche la ricostruzione delle numerose chiese distrutte. «Personalmente – ha detto – sono convinto che il tema delle infrastrutture costituisca la maggiore priorità. Abbiamo bisogno di ospedali, scuole, posti di lavoro per la gente. Dopo dobbiamo preoccuparci della costruzione delle abitazioni. Le chiese, a mio parere, potremo ricostruirle quando ci saranno condizioni degne di vita».
Un’ultima domanda: Che speranze ha che i cristiani possano ritornare nella città di Mosul, così ricca di storia? «Per il momento, poca. Devo dire sinceramente che la maggioranza dei cristiani non vogliono più tornare a Mosul. Molti stanno vendendo le loro case e sono sul punto di lasciare definitivamente la città. Soltanto quando avremo un governo stabile che garantisca la pace e la sicurezza posso pensare che la vita cristiana possa riprendere a Mosul. Ma per il momento non ne vedo la possibilità».
I CRISTIANI EL MYANMAR
“Ora tocca a noi”
«Il viaggio di Papa Francesco lascia ora un ruolo e una responsabilità più chiara alla comunità dei cattolici in Myanmar: dare, nello spirito del Vangelo, un contributo alla pace, alla giustizia, allo sviluppo e all’istruzione nel nostro amato paese. Ora tocca a noi. Siamo consapevoli di vivere in una fase storica di transizione, anche delicata. Bisogna avere pazienza, dato che i processi avviati, anche quello democratico, sono lenti. Bisogna tenere un approccio graduale e procedere passo dopo passo, senza forzare la mano”: lo dice all’Agenzia Fides il Vescovo Raymond Saw Po Ray, che guida la diocesi di Mawlamyine ed è presidente della Commissione “Giustizia e pace” della Conferenza dei Vescovi cattolici del Myanmar, esprimendo lo spirito che oggi vive la comunità cattolica birmana.Il Vescovo rileva: “La visita di Francesco ha permesso alla popolazione birmana di capire meglio chi sia davvero il Papa e di conoscere meglio la Chiesa cattolica. Ho quasi l'impressione che abbia fatto di più la sua presenza in tre giorni che una storia di secoli. E poi ha permesso di far comprendere la differenza tra i cattolici e i cristiani di altre denominazioni, talvolta difficile da sottolineare in un paese a maggioranza buddista». «La sua presenza ha costituito un grande incoraggiamento per la comunità cattolica birmana: siamo davvero felici, consolati, rafforzati nella fede. È stato qualcosa che non ci saremmo mai aspettati: davvero un grande dono di Dio. Anche i buddisti hanno apprezzato molto l'umiltà, la semplicità, l’accoglienza di Francesco al prossimo e il dialogo con tutti. Il suo viaggio avrà un effetto positivo anche per la vita del Chiesa cattolica birmana», osserva mons. Saw Po Ray.«Molto importante – sottolinea il vescovo di Mawlamyine – è il tema della riconciliazione con le minoranze etniche: anche le minoranze cristiane come i Kachin hanno avvertito la vicinanza del Papa ed è apparso chiaro che non è il fattore religioso la causa dei conflitti con le minoranze. Sul caso dei Rohingya, oggi nella nazione c’è una prospettiva nuova. Al centro c’è il rispetto della dignità umana e noi tutti auspichiamo che, con la buona volontà, si possa avviare il processo per far ritornare i profughi. Certo, bisogna affrancarsi dalle manipolazioni politiche o mediatiche e anche le forti pressioni internazionali a volte possono avere un effetto negativo sul nostro paese. Credo che la chiave di volta sia il messaggio lasciatoci dal Papa: guarire le ferite della nazione, lavorare e camminare insieme per il bene del paese. Da qui possiamo ripartire. Come cristiani continuiamo a pregare e ad agire, nello spirito del Vangelo, per costruire un orizzonte di pace e di giustizia nella nostra amata nazione». (PA) (Agenzia Fides 6/12/2017)
PAPUA – NUOVA GUINEA
Le suore di Gesù Buon Pastore
In Papua Nuova Guinea l’analfabetismo è dilagante, la mortalità infantile è molto alta, così come l’incidenza dell’AIDS. Da quando, qualche anno fa, le suore della Fraternità Canavis Gesù Buon Pastore, una congregazione di consacrate laiche sorta nel 2000 proprio intorno al carisma di educare mente e cuore delle giovani generazioni, sono arrivate in questo remoto angolo di mondo hanno subito colto la grande necessità di educazione di questo popolo.«Mi sembrava di essere stata catapultata indietro di qualche secolo» racconta suor Caterina Gasparotto. «Nei villaggi la gente viveva ancora in maniera primitiva. La Papua è una terra abbandonata e povera. L'istruzione, i bisogni primari dell’igiene personale e la capacità di relazionarsi senza violenza, purtroppo sempre presente nella vita di tutti i giorni, sono state le nostre priorità». È nel villaggio di Bereina, una missione nel cuore della foresta, che le suore hanno avviato alcune attività educative, riuscendo a costruire una scuola elementare che oggi accoglie numerosi bambini. Dopo aver costruito la scuola hanno avviato una tipografia per la produzione di testi. Così racconta suor Caterina: «Quando abbiamo cominciato non avevamo nulla, facevamo lezione ai bimbi sotto gli alberi. Poi con l’aiuto di alcuni giovani abbiamo costruito una piccola scuola elementare. Ma qui le scuole non hanno libri né quaderni; i pochi testi disponibili sono importati dall’Australia e hanno costi altissimi, impossibili da sostenere per le famiglie degli studenti. Così abbiamo pensato di produrli e stamparli da noi. Abbiamo imparato come realizzare un libro e ci siamo procurate seghetti, presse, colla, cartoncini. Il lavoro è stato impegnativo e lungo, ma il risultato sorprendente».La diocesi di Bereina conta 17 parrocchie, 20 sacerdoti, 38 religiosi laici, 4 seminaristi e 2890 battezzati. (AP) (29/11/2017 Agenzia Fides)
a cura di Antonio Dall’Osto