Matté Marcello
Accoglienza ospitale
2018/1, p. 17
L’intera esperienza di fede trova espressione nell’accoglienza: accogliere Dio e sapersi da lui accolti. Coinvolge la vita personale, civile e di Chiesa e costituisce una dinamica dirimente rispetto alla vita di fede.

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Lo stile cristiano del vivere
ACCOGLIENZA
OSPITALE
L’intera esperienza di fede trova espressione nell’accoglienza: accogliere Dio e sapersi da lui accolti. Coinvolge la vita personale, civile e di Chiesa e costituisce una dinamica dirimente rispetto alla vita di fede.
Accoglienza è voce che fa parte del “patrimonio dell’umanità”, come molte altre voci che delineano lo “stile” cristiano del vivere. Non è specifico della fede cristiana, e tuttavia la fede cristiana può essere espressa in gran parte come accoglienza, nella sua espressione attiva e passiva.
L’esperienza di fede nel Dio di Gesù può definirsi per intero come un incontro nel quale ci si sente accolti da Dio, al di là dei propri meriti e nonostante il peccato, e nello stesso incontro accogliamo Dio, che chiede di essere accolto come il Dio-con-noi.
Si può dire, come riprova a contrario, che l’accoglienza rappresenti una dinamica dirimente rispetto alla vita di fede. La Bibbia lo mette in evidenza nei primi capitoli della storia di alleanza con gli episodi di Mamre e Sodoma.
Mamre / Sodoma
A Mamre, quel Dio che si era fatto conoscere fin qui per la sua parola e i suoi segni, si rivela per la prima volta ad Abramo in forma visibile e questa prima rivelazione di Dio avviene nel segno dell’ospitalità ad Abramo, il quale a sua volta viveva da “ospite”, nella condizione di straniero e non proprietario. È opportuno tener conto che questa, come ogni “prima volta”, si arricchisce di un valore “originario”, che rende l’evento paradigmatico.
La rivelazione avviene alle querce, che nella Bibbia indicano la sacralità del luogo. Abramo «sedeva all’ingresso nell’ora più calda del giorno», quando è meno probabile il passaggio di qualcuno. Alcuni rabbini ritengono che Abramo fosse spossato dalla febbre oltre che dal caldo, a causa della circoncisione, della quale si era raccontato nel capitolo precedente.
Alla vista dei pellegrini, Abramo «corre loro incontro». Passa dalla “siesta” alla fretta, dalla spossatezza alla sollecitudine: la visita dell’ospite cambia la vita, la guarisce, gli restituisce le forze (come non riandare all’accoglienza di Gesù in casa di Simone, che guarisce la suocera, la quale «si alza per servirli»).
Ne vede tre ma si rivolge come ad uno: «Mio signore». I tre non sono lì per caso («è ben per questo che voi siete passati dal vostro servo») e l’ora sorprendente della loro visita rinforza l’allusione al “mistero” che va ben oltre il “caso”.
L’identità e il nome dei tre ospiti sono sconosciuti. Eb 13,2 («Non dimenticate la philoxenia, alcuni, praticandola, senza saperlo hanno accolto degli angeli») rinforza la valenza paradigmatica “originaria” dell’episodio. Non viene esplicitato il nome di Abramo così come è “ignara” l’identità dell’ospite: invito a identificarsi con lui e con la sua ospitalità accogliente.
L’accoglienza praticata da Abramo, dopo avere rivitalizzato lui stesso, porta vitalità anche al grembo di Sara con l’annuncio della nascita di Isacco.
Al contrario, la mancata accoglienza da parte di Sodoma, anzi la violenza progettata contro l’ospite, porta a distruzione e morte.
Nell’accoglienza o non-accoglienza si gioca il futuro di vita o di morte, personale e collettivo. Non è solo il singolo ad essere invitato all’accoglienza, è l’intera città (Sodoma) ad essere destinataria dell’invito. Come tutte le dinamiche portanti della fede, anche l’accoglienza è pervasiva, e si estende a tutti gli aspetti e ambiti del vivere.
Accogliere
il dono che è Dio
La fede è offrire accoglienza a Dio. È questione vitale anche per lui. Egli che si donò sempre tutto, senza riserve, senza tenersi da parte un “tesoretto” per sé; e se non ha chi lo accolga s’è “buttato invano” (cf. Gv 1,11-12). Nell’episodio di Zaccheo è bene espressa l’urgenza, la necessità del Figlio di Dio: «Oggi devo fermarmi a casa tua».
Corrispettivamente, nell’episodio parabolico di Emmaus si dice che lo “straniero” «fece come se dovesse andare oltre». Egli si propone senza imporsi, «sta alla porta e bussa» (cf. Ap 3,20) e se non viene invitato a spezzare il pane non viene riconosciuto.
In questo pendolo tra la “necessità” di essere accolto e la “leggerezza” del suo proporsi come ospite si circoscrive il perimetro esterno di quella che Christoph Theobald, nella sua opera Il cristianesimo come stile, chiama «la santità ospitale di Gesù».
Se l’accoglienza è “patrimonio dell’umanità”, non è marchio proprietario del cristianesimo, nonostante la sua valenza determinante per la fede, la “santità” ospitale ben traduce lo specifico evangelico dell’accoglienza.
La santità ospitale
di Gesù
Il cristianesimo, inteso come la religione inaugurata da Gesù di Nazaret (se di religione si può parlare), nella sua costituzione fondamentale è dato non tanto da dogmi e norme, quanto piuttosto da uno stile di relazioni con Dio (Padre) e con il prossimo che ha in Gesù il suo modello e va continuamente rimodulato, reinterpretato alla luce del vissuto di ognuno e di ogni relazione. È un modo di abitare il mondo e la storia così come Gesù ha abitato il suo mondo e la sua storia, senza lasciare indicazioni scritte e fissate per sempre.
La chiamata che Gesù rivolge a chi vuol essere suo discepolo e per la quale prega il Padre suo è chiamata ad essere santi come è santo il Padre (cf. Mt 5,43-48). Quale è la santità di Dio che si mostra in Gesù? Posto che il suo volto, le sue parole, i suoi gesti sono l’unica e ultima rivelazione data a noi per conoscere Dio.
Santità, nel suo significato originale, indica separatezza, distinzione; qualcuno che è “altro” dagli altri perché migliore. Dio è tre volte santo, l’Altro per eccellenza, colui che “sta nei cieli”, il diverso, l’estraneo dal nostro mondo.
Il Dio abitatore onnipotente dei cieli ha scelto di farsi abitatore della nostra Terra, l’eterno della nostra storia. In Gesù, l’Estraneo ha chiesto accoglienza tra di noi, chiede di essere nostro ospite.
Nasce uomo in Gesù, nasce in una stalla (o probabilmente, meglio, all’aperto, dove i pastori vegliavano in quella notte) cioè in un luogo non riservato, accessibile a tutti. Non nasce nel tempio, dimora del Santo.
Gran parte della sua vita è coperta dal silenzio. Ma anche questo silenzio è rivelazione di Dio. Ci dice la modalità ordinaria della sua presenza tra noi. Abita la terra senza possederla, lui al quale appartengono i cieli e la terra. Non ha dove posare il capo. Privo di una dimora propria (almeno durante la vita “pubblica”) nel suo peregrinare è sempre ospite di qualcuno (Pietro, Zaccheo, Betania...).
Questi è il Santo, colui che è integro, nel quale il dire, il sentire e il fare coincidono. È trasparente, è semplice. È abitatore dei Cieli perché, come dirà dei suoi beati, è puro di cuore.
In Gesù si consegna a noi. È l’ospite che chiede accoglienza dalla quale dipende la sua vita. E sappiamo che il rischio l’ha corso fino al suo esito più cruento: una morte per uccisione fuori dalla città.
È venuto tra i suoi, ma i suoi non lo hanno accolto. A quanti però l’hanno accolto ha dato il potere di diventare figli, come lui, in lui, di Dio. Si è presentato ed è coerentemente vissuto come ospite, radicalmente aperto agli altri che incontrava. Lasciando che gli incontri lo cambiassero (cf. la cananea) e addirittura lo definissero (vedi il «Chi dite che io sia?» della crisi galilaica).
Ha parlato in ebraico/aramaico, non ha lasciato scritto niente e però di lui conosciamo soltanto parole greche. Lui, il Verbo, si è consegnato per intero a parole di una lingua non sua. L’essere ospite e ospitale è stato il suo modo di vivere la santità, la sua integra semplicità.
Il rischio
dell’ospitalità
Presentarsi come ospite è un rischio radicale: non puoi sapere in anticipo se colui al quale ti presenti ti sarà amico o nemico. Offrire ospitalità è un rischio assoluto: non puoi sapere se colui al quale apri le porte di casa sarà amico o nemico.
Gesù, incarnazione della santità di Dio, ha vissuto integralmente, coerentemente, in sentimenti, parole e opere entrambe le dimensioni dell’ospitalità: è stato ospite e ha offerto ospitalità.
Manifestando, in questa offerta di ospitalità, quale sia la santità che è in Dio.
Si è lasciato definire (lui non si è definito, ricorrendo preferibilmente all’immagine di Figlio dell’uomo) e non si è imposto con una sua identità prendere-o-lasciare. Si è offerto come spazio ospitale nel quale “chiunque” poteva entrare, poteva definirlo e poteva ritrovare se stesso.
La santità ospitale di Gesù è sacramento della salvezza di Dio: trovando accoglienza benevola in lui, chi lo incontra, “chiunque” lo incontra scopre in se stesso la parte migliore della propria umanità. «La “tua” fede ti ha salvato».
Gesù offre uno spazio ospitale nel quale l’altro, “chiunque” altro, possa trovare lui (per come lo vive) e ritrovare se stesso.
È questa la santità di Dio che si manifesta in Gesù. Un luogo, una relazione da abitare e nella quale – grazie alla quale – è possibile far fiorire il meglio di sé. Una santità che non condanna a partire dalla propria superiorità, dalla propria “divinità”, ma incoraggia la maturazione della profonda umanità.
È questa la nostra santità perché è la santità di Gesù: non essere diverso e separato dagli uomini, ma vivere pienamente la propria umanità perché la propria umanità sia piena.
Similmente a quanto si dice della misericordia e del perdono, anche l’accoglienza è uno di quei tratti portanti del legame che unisce noi a Dio e Dio a noi (“religio”) a noi possibile solo se facendone esperienza. «Chi accoglie voi accoglie me» (Mt 10,40).
La santità accogliente ci è data da vivere come singoli e come comunità. Noi non siamo più stranieri, ma “concittadini” dei santi. La legge dell’ospitalità (legge suprema: ne va della vita e della santità) chiede di essere declinata nelle leggi dell’ospitalità. Analogamente al grande comandamento dell’amore: i contenuti sono l’esito di un discernimento che è personale e politico insieme.
L’ospitalità è costitutivamente e inevitabilmente un rischio: l’esito del serpe in seno è sempre possibile. Ma non ha alternative: se trattiamo l’altro da nemico lo faremo crescere nemico.
Le declinazioni di Hospes
La differenza tra hospes (ospite) e hostes (ostile) è molto sottile, nelle parole e nelle esperienze.
Dalle declinazioni della parola hospes e dei loro significati scaturiscono i modelli di Chiesa coerenti nei quali si esprime la sua santità ospitale.
Da hospes deriva ospedale, luogo nel quale si cura il malato. È l’immagine della Chiesa “ospedale da campo” (cara a papa Francesco) che non gira il coltello nella piaga nell’esercizio della condanna, ma piuttosto fascia le ferite.
Da hospes deriva anche ostello, luogo nel quale si ospita il pellegrino, il viandante affaticato dal cammino, provato dal viaggio. È l’immagine della Chiesa in cammino con i suoi figli, che offre ristoro a chi è stanco e affaticato. E magari nel cammino è incespicato e caduto.
Anche osteria ha radice in hospes. È il luogo nel quale si dispensa il pane all’affamato e nel quale non manca il vino, essenziale perché la vita non sia solo fatica, ma festa. È l’immagine della Chiesa che accoglie come invitati al banchetto quanti hanno fame dell’eucaristia.
Infine, trova radice in hospes anche l’ospizio. Nel nostro linguaggio indica il luogo ove si trascorrono i giorni dell’autunno della vita. Luogo ospitale nel quale ci si prepara ad affrontare il nemico più radicale, “ostile” per eccellenza, la morte. È l’immagine della Chiesa che si fa vicina nel “viatico”, che non nega la morte per vivere, ma accompagna nella misericordia ad avvicinarsi alla morte come ingresso nel riposo ospitale e definitivo del sabato di Dio.
La Chiesa santa perciò
una cattolica apostolica
Una: La santità della Chiesa si manifesta nella sua “unità”, nel superamento delle divisioni e delle ostilità, delle scomuniche, del trattare l’altro da nemico, per vivere quella unità fra il dire, il fare e l’essere che è costitutiva della santità.
Cattolica: La santità della Chiesa è ragione della sua cattolicità, se la si intende come santità ospitale: spazio aperto a “chiunque”, senza pregiudiziali. Il ministero di Francesco è insistente in proposito.
Apostolica: Intesa alla luce della santità ospitale, l’apostolicità si esprime come proseguimento della missione che è stata di Gesù: offrire uno spazio ospitale in parole e opere perché “chiunque” possa incontrare la santità ospitale di Gesù che salva, che porta a vivere in pienezza la buona umanità che è data a ciascuno.
Quando i discepoli vengono inviati per la missione, vengono invitati a portare un semplice saluto, a chiedere e offrire accoglienza, nella quale si gioca la missione: «Mt 10,12 Entrando nella casa, rivolgetele il saluto. 13 Se quella casa ne è degna, la vostra pace scenda su di essa; ma se non ne è degna, la vostra pace ritorni a voi. 14 Se qualcuno poi non vi accoglie e non dà ascolto alle vostre parole, uscite da quella casa o da quella città e scuotete la polvere dei vostri piedi. 15 In verità io vi dico: nel giorno del giudizio la terra di Sòdoma e Gomorra sarà trattata meno duramente di quella città».
Il codice
femminile – materno
L’accoglienza, l’ospitalità come spazio uterino offerto alla rinascita e alla crescita richiamano la figura femminile e materna. Porsi “concavi” nei confronti della vita è registro femminile e materno.
Nel magistero, nella predicazione, nella tradizione più consolidata si parla della Chiesa secondo questo registro: la Chiesa sposa, la Chiesa madre, la Chiesa materna e accogliente.
Sono però figure che difettano di “statuto”: di fatto i ministeri sono maschili e traducono soltanto il registro maschile-paterno della Chiesa.
Ciò che riguarda l’accoglienza, l’ospitalità è considerato “supererogatorio”, lasciato al buon cuore. È quanto accade per il tema della misericordia, pensato comunemente come eccedente rispetto alla giustizia, lasciato come il “di più” per anime belle.
Di fatto il codice femminile è vissuto eccome nella Chiesa e, di fatto, la Chiesa – non solo in Occidente – vive soprattutto dell’apporto femminile. Ma questa dimensione non ha statuto, è lodata ma non riconosciuta. Un po’ come il ruolo della casalinga nell’ordinamento sociale.
Privilegiare e dare il giusto rilievo alla dimensione dell’accoglienza non è facoltativo, né nella spiritualità personale, né nella vita della Chiesa. È in gioco la stessa vita di fede.
Marcello Matté