Gellini Anna Maria
Paura e consolazione
2017/9, p. 46
Il biblista don Giancarlo Biguzzi, († 2016) evidenzia nel suo pregevole testo, come paura e consolazione siano i due poli emotivi più caratteristici dell’intera letteratura apocalittica: consolazione e paura come impasto in cui si esprime il rapporto dell’uomo con Dio e dell’uomo con la sua storia. Letta a questa luce, l’Apocalisse diventa parola di speranza, svelamento e rivelazione di un esito positivo che Dio garantisce alla comunità credente dopo la tribolazione, visione di cieli aperti nei quali l’attesa umana diventa nuova creazione.

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NOVITà LIBRARIA
PAURA E CONSOLAZIONE
Il biblista don Giancarlo Biguzzi, († 2016) evidenzia nel suo pregevole testo, come paura e consolazione siano i due poli emotivi più caratteristici dell'intera letteratura apocalittica: consolazione e paura come impasto in cui si esprime il rapporto dell'uomo con Dio e dell'uomo con la sua storia. Letta a questa luce, l'Apocalisse diventa parola di speranza, svelamento e rivelazione di un esito positivo che Dio garantisce alla comunità credente dopo la tribolazione, visione di cieli aperti nei quali l'attesa umana diventa nuova creazione.
Degli 11 capitoli con cui l’A. approfondisce l’ultimo Libro della Sacra Scrittura, è interessante cogliere alcuni aspetti che rendono la Parola viva e incarnata per il nostro tempo.
La sofferenza dei giusti
Nonostante l'impressione che si riceve a motivo del linguaggio e delle immagini cui fa ricorso, l'Apocalisse è il libro del dolore mite e innocente. È infatti un libro il cui dinamismo narrativo e teologico nasce dalla sofferenza dei martiri che non si fanno giustizia da sé ma la invocano da Dio (Ap 6,9-11). E la vicenda dei testimoni di Dio è fedele imitazione della vicenda pasquale del Cristo (Ap 11,3-13). Nell’Apocalisse il castigo dell'empio e del persecutore è finalizzato al loro ravvedimento, e non a ripagare secondo la legge del taglione il male che fanno.
Il dolore di cui parla Giovanni nell'Apocalisse non è quello legato alla condizione umana come tale, come quello di cui parla il libro di Giobbe. Nell'Apocalisse non riceve attenzione il dolore personale ed esistenziale, ma solo quello teologicamente motivato dalla propria relazione, positiva o negativa, con Dio.
Il Dio di Apocalisse si rivela così come misteriosa sintesi di giustizia a favore del giusto sofferente, di amore per il peccatore, e di odio per il peccato.
Storia tribolata
ma pasquale
Il rapporto di somiglianza con il Cristo pasquale mette la morte violenta dell'innocente in una luce positiva perché l'immolazione del Cristo è vittoria («Non piangere: ecco, ha vinto il leone della tribù di Giuda...», 5,5), ed è chiave interpretativa della vita e della storia («Tu sei degno di prendere il libro e di aprirne i sigilli perché sei stato immolato», 5,9). Il collegamento con l'immolazione di Cristo dice che la sofferenza innocente dell'uomo non è un valore autonomo, ma ha in Cristo il paradigma cui conformarsi e l'evento fondante cui partecipare.
Tutta l'Apocalisse di Giovanni dice che la storia è il luogo della divina redenzione. Si trova conferma in modo particolare nei capitoli del rotolo e della sua apertura (Ap 5-8) dove, l'Agnello, ferito a morte, sulla morte si erge vittorioso, perché è il Cristo pasquale, che con il suo sangue ha costituito un popolo di re che sappiano gestire la vicenda umana secondo giustizia. La storia è tribolata, ma pasquale – dicono le immagini dell'Apocalisse –, e nulla in cielo, in terra e nel regno dei morti, se non la Pasqua, è in grado di dare alla storia, già ora, un senso e una luce.
Dono di Dio
e impegno degli uomini
L’affascinante immagine della nuova Gerusalemme richiama al dono finale di Dio, perché l'uomo non può presumere di costruirsi l'escatologia. Deve però ad essa contribuire. La terra, l’umanità si apriranno per accogliere il dono divino. Mentre in altre parti della Scrittura si parla dell'umanità redenta che salirà al cielo, in Ap 21 è la città di Dio che dal cielo discende sulla terra. Nell’Apocalisse ci viene presentato un prolungamento dell'incarnazione del Logos giovanneo: scelta la natura umana come tenda in cui il Verbo ha abitato fra di noi, Dio non abbandona più la terra: in essa infatti innalzerà la sua tenda per abitarvi con i suoi popoli: «Ecco la tenda di Dio con gli uomini! Egli abiterà con loro ed essi saranno suoi popoli ed egli sarà il Dio con loro, il loro Dio» (Ap 21,3).
L’albero della vita
per guarire le relazioni
Tutte le nazioni verranno alla città santa, la nuova Gerusalemme, da ogni parte della terra, ed entrando per le dodici porte, ad essa porteranno la ricchezza della propria fede e della propria cultura, purificata dalla parola evangelica.
Giunte all’Eden ritrovato, le nazioni riceveranno dalle foglie dell'albero della vita rimedio e consolazione ai mali che le hanno ferite e lacerate (22,2b). La metafora delle foglie terapeutiche ci dice che la città santa si costruisce guarendo le relazioni. Nel dramma che segnò le nostre origini furono infatti turbate tutte le relazioni: tra Dio e l'uomo; tra i fratelli Caino e Abele; tra il clan di Lamec e quello contro cui egli esalta le 77 volte della sua vendetta; tra i figli di Elohim e le figlie degli uomini; tra Babel e i popoli cui essa impone il suo imperialismo.
Si può affermare che l’intento di Giovanni, con la stesura “profetica” dell’Apocalisse, sia stato quello di scrivere il libro della Pasqua e del Risorto, per illuminare le scelte della vita, perseveranti fino al martirio, per indossare quel vestito di lino bianco e splendente che – come splendida metafora – fa memoria delle opere giuste dei santi (19,7-8).
Anna Maria Gellini