Arrighini Angelo
Discernimento interculturale
2017/9, p. 40
Una riflessione a tutto campo sull’urgenza inderogabile di comunità religiose realmente interculturali. Centrale, in queste comunità, la figura del formatore. Dall’esperienza dei superiori generali, però, le difficoltà, le questioni aperte e i passi da compiere sono forse ancora più numerosi dei risultati positivamente raggiunti.

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89° assemblea semestrale USG
DISCERNIMENTO VOCAZIONALE INTERCULTURALE
Una riflessione a tutto campo sull’urgenza inderogabile di comunità religiose realmente interculturali. Centrale, in queste comunità, la figura del formatore. Dall’esperienza dei superiori generali, però, le difficoltà, le questioni aperte e i passi da compiere sono forse ancora più numerosi dei risultati positivamente raggiunti.
Nulla di più attuale, urgente e problematico insieme, per dei superiori generali degli ordini e istituti religiosi, di un tema come quello del discernimento vocazionale in un mondo interculturale. A questo specifico tema è stata dedicata l’ultima assemblea semestrale USG, al Salesianum di Roma, dal 24 al 26 maggio u.s. Come sempre, il tema è stato oggetto di relazioni, di testimonianze, di gruppi linguistici, di confronti ai tavoli in aula.
La ricchezza della diversità interculturale
Interculturalità e cattolicità, ha detto il superiore generale dei gesuiti Arturo Sosa, in apertura della prima relazione, sono due temi complessi che chiamano direttamente in causa anche la vita consacrata. Chiarito il concetto “relazionale” di cultura e di inculturazione, ha poi precisato subito che ci si dovrebbe attentamente cautelare di fronte alla tentazione di considerare il carisma come qualcosa di “intangibile ed immutabile”, quasi fosse una realtà esterna e diversa dalle culture delle persone che lo vivono. Anche la vita consacrata fa parte di quella Chiesa che nell’evangelizzazione, e quindi nell’incontro inevitabile con altre culture, ha sempre trovato la sua ragion d’essere. La Chiesa e la vita consacrata si sono arricchite di quella diversità interculturale che ha portato non solo ad una più approfondita conoscenza del vangelo stesso, ma anche ad una riscoperta della fede, della giustizia, del dialogo e, in particolare, della riconciliazione.
Una delle più immediate conseguenze di questo arricchimento interculturale è stata quella di una più approfondita visione critica delle origini di ciascuna famiglia religiosa e del rispettivo sviluppo storico. I fondatori, partendo dalla loro esperienza di fede, hanno saputo rispondere a situazioni precise e diversificate nei rispettivi contesti in cui sono vissuti. Ciascuna congregazione «ha cercato di discernere la sua storia di come vivere il carisma in contesti diversi e mutevoli». Mai come oggi, forse, l’approfondimento criticamente responsabile della propria tradizione carismatica «è una esigenza chiara e necessaria per il futuro della vita consacrata».
Un’altra conseguenza è quella di vedere nel discernimento spirituale comunitario il “modo normale” per prendere decisioni sulla missione nel contesto culturale specifico dove i religiosi si trovano ad operare. E’ significativo il fatto che le nostre comunità religiose sono sempre più non solo internazionali e multiculturali, ma anche capaci di interagire positivamente tra una cultura e l’altra. In un contesto del genere, ad esempio, la sfida delle lingue riveste un ruolo determinante. Sia pure tra tante difficoltà, l’apprendimento delle lingue locali, infatti, è sempre stata una delle migliori tradizioni missionarie degli istituti religiosi. Ciò che ha sempre entusiasmato e portato alla interculturalità è stato il fatto di «condividere la missione, farne oggetto di discernimento in comune, pianificarla con sensatezza e valutarla con realismo». Tutto questo non sarebbe stato possibile senza un’autentica “vita nello Spirito”, senza l’eucaristia, senza un “pensiero libero e critico”, senza una generosa dedizione alla missione.
Con altrettanta onestà va anche detto, però, che senza una solida formazione iniziale e permanente, è impensabile sia l’efficacia nella missione come pure la continuità del carisma di ciascuna congregazione. Non per nulla, una delle sfide maggiori della formazione per l’interculturalità oggi è quella di «conoscere e prendere in considerazione le culture giovanili nei vari contesti sociali attuali». Il relatore ha in qualche modo sintetizzato la complessità del momento attuale in un interrogativo: come tematizzare nei piani di formazione, iniziale e permanente, la pluralità dell’esperienza religiosa e culturale contemporanea in vista di una visione spiritualmente integrata della diversità? L’incontro con altri richiede un processo formativo dialogante in molte dimensioni allo stesso tempo e cioè: contesto culturale, carisma, storia, processi personali, preparazione intellettuale. «Solo con l’aiuto della grazia di Chi ci invita a questa vita, ha concluso il relatore, è possibile aprirsi all’esperienza dell’interculturalità, considerandola una dimensione della nostra vita cristiana, religiosa e missionaria».
Una delle sfide più serie: l’interazione interculturale
L’intervento del superiore generale dei gesuiti è stato ripreso e ulteriormente contestualizzato sia nella relazione del superiore generale dei verbiti, Mark Weber, sia nelle testimonianze dei superiori generali dei claretiani, dei camilliani e dei comboniani. Se, come fin dall’inizio del suo intervento ha fatto capire Mark Weber, è già problematico parlare di vita consacrata in un mondo interculturale, forse lo è ancora di più un discorso sul “discernimento vocazionale” nel mondo interculturale di oggi.
Due i temi centrali del suo intervento: anzitutto quello delle qualità, dei doni e delle capacità necessarie per una vocazione religiosa in un mondo interculturale, e poi quello del contesto e degli elementi coinvolti in una comunità di formazione interculturale. Per chiarire, in partenza, il concetto di cultura di cui intendeva parlare, è ricorso all’immagine dell’iceberg: la sua punta visibile è solo una piccola parte, tutto il resto, e cioè le credenze, i valori, i miti, i modelli, i simboli ecc., è nascosto sotto la superficie dell’oceano. Tutti questi importanti elementi «vengono acquisiti implicitamente, sono inconsci, difficili da cambiare». Ma tutto questo, quanto può incidere sul discernimento vocazionale? Come si può aiutare una persona a crescere e a maturare in un contesto sempre più interculturale come quello attuale?
Weber ha provato a dare delle risposte e lo ha fatto illustrando per sommi capi l’importanza della formazione intellettuale, umana, spirituale, comunitaria, apostolica dei candidati alla vita consacrata. Non basta avere una comunità formata da persone provenienti da paesi diversi, per garantire il suo sviluppo realmente interculturale. «Troppo spesso le comunità multiculturali sono tali solo al livello superficiale del cibo, del costume, e di qualche parola della lingua, cioè la punta dell'iceberg. Gli elementi più profondi della cultura – specialmente quelli che creano tensione e conflitto nella comunità – non vengono mai trattati». Il presupposto che tutti i membri di una comunità multiculturale abbiano esattamente la stessa visione della chiesa, del ministero, della vita religiosa e della spiritualità «può portare a malintesi, risentimenti e conflittualità». Una effettiva interazione interculturale è, di fatto, una delle sfide più serie. È in qualche modo inevitabile che i membri di queste comunità tendano «a frequentare soprattutto quelli che hanno il loro stesso bagaglio culturale». Il rischio di un isolamento tra un gruppo e l’altro, compromettendo in partenza il difficile processo dell'impegno interculturale, è reale. Non c’è dubbio che «la conoscenza della cultura e della dinamica interculturale, la maturità emotiva e la forza psicologica sono tutti elementi indispensabili per una vera e propria comunità interculturale».
Dal momento che esistono inevitabilmente grosse sfide quando si ha a che fare con candidati di varie culture, rimane aperto il discorso sul momento più opportuno dell’inserimento di un candidato (alla vita consacrata) in una di queste comunità. L’esperienza dei verbiti insegna che un'adeguata preparazione ad immergersi in un altro contesto, la conoscenza della lingua e la sensibilità da parte dei formatori, tutto questo può offrire dei sicuri vantaggi «nel discernere e preparare per una vita di missione interculturale».
Ancora “troppi obblighi” familiari
Con molta onestà p. Weber ha posto sul tappeto la grossa problematica degli “obblighi familiari” e delle tante “aspettative culturali” in ambito familiare. Non è raro il caso in cui si ha a che fare con la concreta richiesta e, a volte, anche di vera e propria sollecitazione alla comunità, «di aiuti finanziari per necessità familiari, di viaggi frequenti per far visita ai parenti, di tempo trascorso per comunicare (attraverso Skype, WhatsApp, ecc.) con la famiglia». Sia a livello comunitario che provinciale e anche generale «abbiamo trovato difficili queste discussioni; cercare adeguate linee di condotta è perfino più problematico ancora!».
Mai come in un contesto del genere, i formatori vocazionali «devono avere una buona formazione, una competenza interculturale e una capacità di accompagnare i giovani». Meglio ancora se hanno saputo integrare nella propria vita e nella propria identità personale esperienze di vita e di lavoro in contesti diversi da quelli del proprio paese. Il discernimento vocazionale in queste comunità è talmente delicato che non c’è da sorprendersi se «incontriamo molte difficoltà». Fattori culturali, sociali, economici, ed altri della vita di un candidato rendono tutt’altro che semplice il discernimento. Certe culture gerarchicamente molto connotate possono facilmente «dare un'immagine distorta della vita consacrata, vedendola come mezzo per raggiungere uno stato elevato, potere e importanza». La pressione familiare a far diventare uno religioso è ancora più problematica «in candidati di culture tradizionali in cui la devozione e il rispetto filiale verso le aspettative dei genitori sono particolarmente forti e perfino determinanti per l'identità vocazionale di una persona». Non mancano casi di figli destinati dai genitori alla vita consacrata prima ancora della loro nascita.
Quasi non bastasse la pressione familiare, a volte si sovrappone anche quella parrocchiale e comunitaria di provenienza del candidato. È successo, a volte, che l’opera di discernimento sia di fatto terminata nel momento stesso in cui il candidato ha fatto il suo ingresso in formazione.
Non mancano casi in cui si ritiene socialmente “vergognoso” l’abbandono della formazione, dal momento che la famiglia punta tutto sulla “perseveranza” del proprio familiare. Tra gli stessi formatori vi può essere «la sensazione che una volta che un candidato è entrato nel processo di formazione, debba salvare e proteggere, a tutti i costi, la sua vocazione». Il pericolo, in questi casi, è che «il desiderio di tenere qualcuno nella congregazione possa in effetti impedire un suo continuo e adeguato discernimento vocazionale».
Un’altra sfida sempre più diffusa e preoccupante è quella derivante dall’uso improprio delle varie tecnologie informatiche. È possibile che un candidato sia talmente collegato alla famiglia e alla sua cultura domestica e nazionale «da essere incapace di interagire profondamente con quelli della sua comunità o con la cultura che lo circonda, rendendo difficile un vero discernimento di una vocazione interculturale». Succede così il paradosso che un candidato alla vita consacrata, per quanto presente fisicamente in una cultura diversa dalla propria o in una comunità multiculturale, «rimanga poi di fatto isolato nel suo mondo culturale attraverso il ciberspazio, senza affrontare mai la difficile esperienza della conversione all'interculturalità».
Ma allora, si è chiesto il relatore al termine della sua lunga esposizione, «esistono delle comunità veramente interculturali?». Esistono sicuramente, ha risposto, «ovunque le persone sono intenzionate a vivere come una comunità unita nelle loro differenze e veramente rispettose dell'altro». Non si è azzardato a precisare quante sono, anche solo approssimativamente, queste comunità. Ha aggiunto solo che potrebbero essercene “molte di più”, se le persone credessero che vivere culturalmente «non è solo desiderabile ma anche veramente possibile».
Benedizioni e sfide interculturali
Gli interrogativi suscitati da Mark Weber sono stati ulteriormente confermati dalle dirette testimonianze di altri tre superiori generali. «Dopo 22 anni di esperienza nel campo della formazione, resto convintissimo che abbiamo bisogno di un cambiamento dei presupposti di base sul modo di formare i nostri giovani alla missione, oggi. Il contesto interculturale lo rende estremamente urgente». Con questa lucida convinzione ha aperto la sua testimonianza il superiore generale dei claretiani, Mathew Vattamattam. Non solo personalmente considera una “benedizione” il fatto di aver potuto vivere gran parte della sua vita missionaria in comunità interculturali, ma può anche aggiungere che la maggior parte delle case di formazione dei claretiani «sono interculturali e alcune di esse sono di natura internazionale».
Anche in uno scenario particolarmente favorevole alla formazione come quello interculturale non mancano però serie sfide. L'abbondanza di candidati in certi contesti socio-culturali è fonte di consolazione, ma anche di seria preoccupazione. Molto spesso non è facile conoscere i fattori culturali che promuovono o inibiscono l'internazionalizzazione dei valori della vita missionaria. “Benedizioni” e “sfide” nelle comunità interculturali camminano di pari passo, anche se poi, di fatto, rileggendo quanto detto dal relatore, le seconde sembrano sommergere in qualche modo le prime. È il caso, ad esempio, delle differenze avvertite come una minaccia, dei tanti stereotipi e pregiudizi sulle culture altre, della dominazione culturale da parte del gruppo di maggioranza, della insensibilità culturale del gruppo dominante, del complesso di persecuzione da parte dei membri più deboli di fronte alle difficoltà, del persistere del cosiddetto “scudo culturale”, vale a dire della giustificazione degli interessi personali come differenze culturali. Quasi non bastasse, bisogna fare i conti, inoltre, con l’ostinata resistenza all'adattamento, con lo “sconto minoranza”, cioè dei privilegi ed eccezioni per membri di gruppi di minoranza durante la formazione iniziale, con l’esagerata appartenenza affettiva e dipendenza da membri/famiglie della propria cultura o lingua madre, con l’eccessivo attaccamento alla cultura di origine facilitato dagli strumenti informatici e da un Wi-Fi gratis. È possibile «vivere mentalmente nella propria cultura domestica parlando alle persone, mandando messaggi e guardando film e notizie nella lingua nativa», ignorando di fatto il contesto in cui si vive e ci si forma alla vita consacrata.
Pur consapevole di tutte le potenzialità in atto in una comunità interculturale, il superiore generale dei claretiani non può sottacere il rischio di insoddisfazioni dovute ai diversi modi di celebrare la liturgia, di accogliere gli ospiti in casa, di rapportarsi alle spese e all'uso degli strumenti di comunicazione. Non è infrequente il caso che la frustrazione causata dalle eccessive aspettative culturali possa poi sfociare spesso «nella formazione nascosta o palese di coalizioni», fino ad usare la lingua madre «per dar sfogo ai propri sentimenti». Inevitabile, in queste situazioni, la nascita di comunità interculturali infelici, con “fughe” da una parte, “lotte” dall’altra, spesso «in un modo “silenzioso”, un modo che uccide sommessamente lo spirito della comunità dando luogo a incidenti vocazionali e perdita di vitalità apostolica». In situazioni del genere, o i superiori e i formatori sapienti riescono a trasformare tutte queste difficoltà in momenti di maturazione, oppure, ignorando le dinamiche interculturali, rischiano di «alimentare, senza saperlo, spaccature culturali». L’esperienza insegna che «forme immature di relazioni interculturali impediscono la crescita, logorano l'energia creativa dei membri e riducono l'efficacia apostolica».
Rifiutarsi di affrontare tutti questi problemi «può dare un temporaneo senso di benessere, ma alla fine, non si farà altro che promuovere l'individualismo e il “clanismo” tra i membri di una stessa comunità». Non mancano di certo i percorsi per favorire la coesione di gruppo in una comunità interculturale, come ad esempio, il fatto di privilegiare i valori vocazionali rispetto a quelli culturali, di chiarire sempre meglio il rapporto tra relativismo culturale (un atteggiamento positivo che rispetta e apprezza ogni cultura e le sue differenze) e relativismo morale (in base al quale le diverse culture sono contrassegnate da specifici e propri standard morali). Le inevitabili difficoltà interne alle comunità interculturali vanno superate promuovendo una vera e propria inculturazione, nel rispetto e nell’accoglienza insieme dei diversi valori culturali, nella sapiente gestione dei problemi e dei contrasti, nella doverosa adeguata preparazione dei formatori, ben sapendo che «hanno un ruolo cruciale nell'accompagnare i candidati nella crescita di competenza interculturale e nella capacità di un'evangelizzazione inculturata».
In base alla sua esperienza personale, padre Vattamattam si sente in grado di avanzare un ampio ventaglio di proposte concrete per una reale formazione interculturale. Tutte si basano sulla piena consapevolezza che l’interculturalità «non è un'opzione, non è solo uno dei molti modi di coesistere, ma un modo “obbligato” di evangelizzare per i missionari oggi, un dono e un'occasione per testimoniare il vangelo di amore in un mondo a pezzi e, allo stesso tempo, un dovere di raggiungere il livello di maturità per apprezzarne e viverne la bellezza». Ma se questa crescita, date le tante sfide che remano contro, non dovesse verificarsi? Allora, «la diversità diventa la causa di grande sofferenza nella vita di comunità e un ostacolo all'effettiva missione».
L’alibi della diversità culturale
Originale l’intuizione del superiore generale dei camilliani, p. Leo Pessini, di affrontare il tema del “discernimento vocazionale in un mondo interculturale” facendo parlare alcuni suoi religiosi, di vari continenti, direttamente coinvolti sul campo. Per semplificare le loro riflessioni è stato elaborato un questionario con cinque domande specifiche sulle sfide e difficoltà incontrate, sul tipo di pregiudizi riscontrati nel processo dell’interculturalità, sulle questioni ancora aperte, sul cammino di maturazione all’interno del percorso formativo, sul ruolo del governo generale nelle dinamiche interculturali.
Anche senza volerlo forse, tanto le domande che le risposte, si sono prevalentemente soffermate sulle sfide, sulle difficoltà incontrate, sui pregiudizi e sulle questioni ancora aperte. Certo, il riconoscimento della propria identità malgrado le differenze, è un primo obiettivo interculturale; ma lo si potrà perseguire solo evitando «l’errore, per certi aspetti sconcertante, di affidare l’educazione all’interculturalità a degli educatori e formatori che, al di là della loro buona volontà, non possiedono cognizioni minime o solo a livello superficiale della cultura di origine dei loro formandi». Per potere poi costituire un gruppo comunitario in un contesto multiculturale, andrebbero nettamente evitate «da parte di tutti, rigidezze mentali che portano inevitabilmente ad enfatizzare le legittime differenze personali e culturali», diversamente si rischierebbe di «sfociare in chiusure di tipo nazionalistico o addirittura in processi di latente intolleranza reciproca». Un po’ ovunque, ma soprattutto in occidente, può sussistere ancora oggi la tendenza a considerare i propri valori come universali e assoluti, pagando così un pesante tributo all’auto-centrismo, vale a dire alla «tendenza a porsi al vertice della scala di valori utilizzata, poi, per giudicare gli altri sistemi culturali». È un dato di fatto che le dinamiche umane e spirituali presenti e vissute dai candidati «non sono così distanti da una cultura all’altra». Ma è altrettanto certo che le difficoltà delle relazioni intercomunitarie, le resistenze ad aprirsi e ad affidarsi ad un altro, il mettersi in gioco all’interno del proprio cammino formativo, i sotterfugi personali per evitare il confronto, le chiusure alla relazione «sono solo alcune delle dinamiche che si ritrovano nelle persone di varie culture». Spesso dietro il problema della diversità culturale «si cela una sorta di difesa per non scendere in profondità nel proprio percorso individuale». Se una persona ricorre al “paravento” della diversità culturale come alibi o giustificazione per non cambiare, «è chiaro che l’interculturalità è una difesa bella e buona per non camminare sinceramente e speditamente sulla via del vangelo».
È sempre più importante coltivare un’attitudine all’ascolto che non giudica, evitare alcune diffuse tendenze, come quella di legare i difetti personali alla cultura d’origine, di coltivare l’egocentrismo che si manifesta con pregiudizi e stereotipi, di pensare che la mia cultura sia migliore di quella degli altri e di sopravalutare la cultura a scapito dei valori cristiani. La non conoscenza o la non esistenza di un progetto d’interculturalità può provocare una banale sovrapposizione di culture o di relazioni del tutto superficiali. In un paese, ad esempio, come l’Uganda, in cui sussistono tribù contraddistinte da culture e costumi diversificati, le vocazioni provengono necessariamente da differenti tribù e culture; ma proprio qui «nascono le sfide nella stessa comunità di formazione dal momento che alcune realtà tribali si considerano superiori alle altre e cercano di dominare ed emergere in vari campi». «Credo che la maggiore difficoltà o sfida, scrive uno dei camilliani interpellati, sia proprio quella di sapersi spogliare della propria cultura e dei modi individuali di pensare per cercare, il più possibile, di capire con pazienza e umiltà le persone che ci sono affidate dalla chiamata del Signore». Ma non c’è chiamata che tenga di fronte a mancanze di trasparenza, di fronte alla preoccupante e inquietante crescita di individualismo, di settarismo, di fondamentalismo, quando ognuno «sembra sempre più attaccato alla sua propria cultura, considerandola come l’unica e la migliore».
Per un credente, conclude il generale dei camilliani, un’autentica inculturazione della fede cristiana «non può non basarsi sul mistero della incarnazione che ha come conseguenza il rispetto della dignità della persona, di ogni persona e di tutta la persona». Uno stile di vita interculturale, è sicuramente “il futuro” della vita consacrata. «Se le nostre comunità non diventano interculturali, non sopravvivranno».
La morte come alternativa all’interculturalità
I comboniani, ha ricordato il loro superiore generale, Testaye Tadesse Gebresilasie, già nel loro ultimo capitolo del 2015, avevano guardato alla multiculturalità come a «una grazia che fa parte del patrimonio carismatico del nostro istituto sin dalla sua fondazione». Mentre alcuni confratelli, si disse allora, «vivono la multiculturalità con ansia, frustrazione, indifferenza o superficialità», altri, invece, «colgono in questa dimensione una grazia per maturare sia nell’identità di missionari comboniani sia nella qualità delle relazioni interpersonali e nella profezia della missione».
Anche i comboniani, comunque, non sottovalutano le sfide e le difficoltà, come nel caso di quei candidati che hanno “background familiari difficili”, tali da rendere problematica una convivenza multiculturale. Il problema di formatori adeguatamente preparati a gestire questa complessa realtà, è sempre sul tappeto. Non sono mancati storicamente conflitti e tensioni tra vari gruppi, rinunciando in partenza, a volte, a tentare una riconciliazione. Non è sempre facile capire con chiarezza il livello di discriminazione e di pregiudizi dei gruppi di provenienza. Incompatibilità personali, idee preconcette, precedenti esperienze negative in altri istituti, sono all’ordine del giorno. «I nostri fallimenti ci dicono che se Dio non ci aiuta possiamo fallire da qualunque luogo veniamo o qualunque sia il nostro background».
Non mancano tentativi di risposta a queste situazioni di fatto. La buona testimonianza di una vita fraterna esistente di fatto in diverse comunità interculturali, è una di queste. Il tema dell’inculturalità sarà al centro dei lavori capitolari dei comboniani nel 2019. La questione primaria anche per essi rimane sempre quella dei formatori delle loro comunità interculturali. C’è ancora molto lavoro da fare per arrivare a dare una risposta convincente a una serie di interrogativi come: cosa comporta la vita comunitaria? Cosa dice il background culturale dei nostri candidati sull’autorità? Cosa si aspettano quando deve aver luogo un processo decisionale? Cosa apprendono nel processo di discernimento della loro vocazione sul significato dei voti di povertà (possesso-servizio), di obbedienza (autorità-dialogo), di castità (sessualità-fecondità)? Come vedono il loro rapporto con le loro famiglie naturali? Cosa riescono ad apprendere sul rapporto vita personale-discernimento-programmazione comunitaria? Fino a che punto si arriva a condividere la consapevolezza di formare una famiglia interculturale di persone consacrate? Ma anche i vescovi, fino a che punto riescono a percepire la dimensione veramente interculturale di tante comunità comboniane?
I comboniani sanno perfettamente che «sono finiti i giorni in cui i membri appartenenti a varie province di comunità religiose internazionali erano per lo più omogenei, etnicamente e linguisticamente». La mobilità sociale e geografica non è più quella antecedente l’arrivo dei jumbo jet. Allora, il classico modello del reclutamento era quello dell’assimilazione. Ci si aspettava semplicemente che il nuovo membro “si inserisse”, mentre la comunità avrebbe continuato come sempre il suo cammino. Quel mondo è finito per sempre. «Senza il passaggio strutturale da internazionale a interculturale, non vi sarà un futuro fattibile per gli ordini religiosi internazionali». In assenza di una interculturalità reale e vissuta, «ci separeremo, ci ritireremo nei rispettivi gruppi culturali e continueremo apaticamente, magari professando senza convinzione quello che in realtà non viviamo».
La grande sfida che sta di fronte a tutti oggi è quella di saper «rispondere alle esigenze specifiche del vivere interculturale». Molto dipenderà dall’atteggiamento delle persone più anziane. Il modello di assimilazione, tipico del passato, non è più adatto allo scopo. L’alternativa oggi è una sola: o accogliere convintamente la sfida interculturale, oppure… “attendere la morte”.
Angelo Arrighini